
Come nasce e si sviluppa questa idea di territorio?
C’è un filone di studiosi, storici, filosofici, geografi, che rompe in sostanza con l’idea che lo spazio nel quale l’azione politica, quindi anche l’azione democratica, sia “geometrico”. Lo spazio geometrico è un piano unico, matematicamente perfetto, un’area omogenea che deriva dalle concezioni cartesiane e newtoniane, definita come realtà oggettiva esistente al di là e al di fuori dell’osservatore. Uno sfondo nel quale si svolge l’azione. Questa idea accompagna anche la concezione tradizionale dello Stato nazionale come istituzione che ambisce a uno spazio territoriale omogeneo, senza storia e senza differenze interne. È una concezione non molto diversa che ritroviamo in certe visioni della globalizzazione, che appaiono come “continuazione del pensiero cartesiano”, per usare le parole del storico delle idee Stuart Elden. Studiosi come il geografo Robert Sack (1986) ritengono invece che il territorio non sia uno spazio delimitato e omogeno, ma l’esito di strategie di controllo alle volte coerenti alle volte contraddittorie continuamente rinnovate. Il territorio include forme di insediamento e di occupazione di un’area geografica dotata di una propria evoluzione storica, di specifiche configurazioni socio-economiche e culturali, di frontiere che cambiano nel tempo; il territorio è anche, simultaneamente, uno spazio di narrazioni, d’identità collettive, che si intrecciano con le immagini che se ne danno gli scienziati dello spazio, anche ma non solo attraverso la logica cartografica.
Quali caratteristiche può avere oggi un approccio territoriale alla politica?
L’ipotesi formulata in questo libro è quella di vedere il territorio in modo costruttivista e relazionale. Il territorio non è un fatto naturale, bensì il prodotto di un’interazione fra spazio naturale e azione umana. Il territorio è uno spazio prodotto da pratiche e da rappresentazioni sociali, culturali e politiche. Allo stesso tempo, il territorio è uno spazio che gli attori, politici, cittadini, o esperti, contribuiscono a creare e modellare. Il territorio è frutto quindi di una logica composita, dove intervengono strategie messe in campo da un insieme eterogeneo di attori; che si concretizza come territorializzazione, ossia come azione di costruzione e mantenimento di un determinato perimetro spaziale – ad esempio lo Stato nazionale – dove gli attori politici, esponenti della società civile, esperti, ma anche di singoli individui agiscono per riprodurre o mettere in causa tale spazialità. Nel concepire le relazioni fra territorio e politica democratica occorre sbarazzarsi della convinzione che esista un’unica connotazione o significato del concetto di territorio in relazione all’agire politico. Lo vediamo quando si tratta di capire fino a dove vanno le competenze degli stati rispetto ad entità sovranazionali o locali, e come le identità collettive non sono quasi mai univoche ma combinano scale diverse. In ogni modo, ogni fenomeno politico, che sia inteso come costrutto istituzionale, conflitto, azione di protesta, comportamento di voto o politica pubblica, è in qualche modo territorializzato, ossia si definisce dentro e attraverso uno spazio territoriale costruito. Nel contempo, lo spazio territoriale nasce e si trasforma attraverso forme di politicizzazione. L’azione politica costruisce e plasma il territorio, conferendogli significato; lo delimita e lo controlla, ma anche lo può contestare, politicizzando spazi, luoghi in relazione ad appartenenze e ideologie, producendo territorializzazioni alternative attraverso strategie e appropriazioni messe in atto da attori con posizioni e interessi distinti.
In un’epoca di processi di globalizzazione e di rivoluzione digitale, perché parlare di una valenza politica del territorio?
Alcune concezioni della globalizzazione la interpretano come uno spazio di flussi senza frontiere, un mondo piatto dove la territorialità si dissolve nell’accelerazione degli scambi di persone, beni e denaro. La rivoluzione digitale è pure vista come un superamento dei confini geografici. Non si è solo parlato di fine della storia, ma anche fine della geografia. Tuttavia, sono molti fenomeni che richiedono di introdurre la dimensione nella comprensione della politica territoriale. Nonostante la globalizzazione e la rivoluzione digitale non scompare. Il territorio si è frammentato, ricomposto, moltiplicato; le sue frontiere sono diventate meno scontate; le scale d’azione e di rappresentazione dei territori sono ormai locali, micro-regionali, sovranazionali, macro-regionali. Gli spazi territoriali sono perennemente prodotti e riprodotti e contribuiscono a modellare e perimetrare l’azione politica, a fornire vincoli e opportunità.
Perché il territorio è importante per capire le nuove fratture che strutturano la competizione politica?
Sono molti gli esempi di fratture territoriali che contrassegnano la competizione politica nelle democrazie attuali. Anzi, persino ad una crescita della loro rilevanza, che si intreccia con altre fratture, come quella che di recente l’economista Piketty vede fra bassa e alta formazione. Lo vediamo nel voto americano, dove Biden è forte nelle zone metropolitane e dell’East Coast, mentre il sostegno a Trump è forte soprattutto nelle zone rurali e più discoste. Lo si osserva nel polarizzazioni elettorali in mezza Europa, dove malgrado l’erosione delle culture politiche territoriali tradizionali, il voto è ancora vincolato da forti componenti locali e regionali, pur ricostruite e non più scontate, dentro le contraddizioni dell’attuale fase della globalizzazione.
In che modo le trasformazioni attuali degli spazi territoriali favoriscono una rilettura dei concetti di popolo e cittadinanza?
Una conseguenza della costruzione degli Stati nazionali fra ‘800 e ‘900 è il sovrapporsi dei concetti di nazionalità e cittadinanza politica. Tuttavia, le trasformazione socio-politiche odierne mettono in dubbio un assioma che alcuni danno ancora per scontato e che è figlio di un’epoca dove i processi migratori non avevano la portata odierna, dove forme nuove di naturalizzazione, dove i cittadini possono legittimamente disporre di più nazionalità, non erano ancora d’attualità. Insomma, oggi è sempre più difficile fornire un connotato etnico-nazionale alla cittadinanza anche se attorno a questa questione di gioca una delle lotte più dure della nostra epoca, fra politiche d’inclusione e d’esclusione, dove sono molto forti le tendenze neo-nazionaliste, ma anche le concezioni produttiviste della cittadinanza (“puoi diventare cittadino se se utile all’economia del paese che ti ospita”).
In che senso uno sguardo territoriale può essere utile per capire il fenomeno dei movimenti e partiti definiti come populisti, nazionalisti e sovranisti?
Nelle retoriche populiste, nazionaliste e sovraniste c’è l’ambizione di ricreare un popolo omogeneo fortemente legato al suo territorio. L’apologia dell’appartenenza territoriale è più scontata nel nazionalismo e nel sovranismo, ma si può esprimere anche nel populismo, un concetto assai fluido, che suscita dibattito, ma che può consentire, una certa misura, di leggere le contestazioni politiche di questi anni, soprattutto a destra. Nell’appellarsi al popolo il populismo tende ad enfatizzare l’appartenenza alla comunità, a uno spazio territoriale fondato sul radicamento ritenuto fragile o in declino. È il legame territoriale che unisce e qualifica il popolo, coincidente con l’appartenenza allo Stato nazionale, anche con quella locale o regionale, che è visto come uno spazio di cui riappropriarsi ridefinendo frontiere ed esclusioni rispetto a chi non è riconosciuto degno di far parte della comunità del popolo.
Come può un approccio territoriale alla politica contribuire alla lettura dell’esperienza dell’attuale pandemia?
Nella narrazione a-territoriale degli ultimi decenni, si è creduto che nulla potesse interrompere il flusso, che la mobilità e la cancellazione dei confini fossero un destino ineluttabile. La cifra dominante della pandemia è stata invece il confinamento di milioni di persone dentro spazi territoriali, ossia il più grande e profondo processo di ri-territorializzazione vissuto dall’umanità dopo la Seconda guerra mondiale. È stata una battuta d’arresto senza precedenti dei processi globali, che ha fatto tornare anche al centro il ruolo degli Stati nazionali come gli attori centrali della gestione politica della pandemia. La pandemia ha anche messo in risalto come i processi di riteritorializzazione vadano di pari passo con un accentuarsi delle disuguaglianze sociali e geografiche, ad esempio se pensiamo a come la produzione e distribuzione dei vaccini abbiano per molti versi ricalcato la divisione fra il cosiddetto primo mondo e il resto dell’umanità.
In queste settimane, l’Europa rivede lo spettro della guerra. Come può un approccio territoriale alla politica essere utile per capire quanto sta accadendo?
Purtroppo, la storia ci consegna ancora una volta il conflitto fra sovranità e guerra: il controllo del territorio è fondamentale per l’esercizio pacifico della democrazia, ma laddove conteso, tale controllo diventa la principale posta in gioco dello scontro bellico. La svolta storica di queste settimane ci induce a prendere sul serio un approccio che s’interroga sul ruolo del territorio per capire molte crisi che ci toccano da vicino.
Oscar Mazzoleni è professore di Scienza politica all’Università di Losanna, dove dirige l’Osservatorio della vita politica regionale. È autore di numerosi studi sul regionalismo, il nazionalismo e il populismo. Di recente ha curato The People and the Nation. Populism and Ethno-Territorial Politics in Europe (con R. Heinisch e E. Massetti; Routledge, 2019), Political Populism. Handbook on Concepts, Questions and Strategies of Research (con R. Heinisch e C. Holtz-Bacha; Nomos, 2021) e Sovereignism and Populism. Citizens, Voters and Parties in Western European Democracies (con L. Basile; Routledge, 2022).