
Per stati fantasma si intendono quelle entità territoriali che rivendicano o hanno dichiarato l’indipendenza senza avere ottenuto il riconoscimento internazionale. Sono stati di fatto anche se non esistono per il diritto internazionale. La genesi degli stati fantasma che costellano lo spazio post-sovietico è diversa da quella del Kosovo o dai fenomeni che caratterizzano movimenti separatisti apparentemente simili in Europa occidentale come quelli di Scozia e Catalogna. Quando crolla l’Unione Sovietica nel 1991 si smantellano le strutture politico-amministrative centrali ma resiste il reticolo dello stato profondo che poggia sulle gerarchie militari e i servizi di intelligence come il Kgb. Le ex repubbliche dell’Urss divenute indipendenti sono estremamente fragili, sprovviste di una classe politica in grado di governare, consolidare e cementare l’impalcatura dei nuovi stati. La forza della Russia è direttamente proporzionale alla debolezza dei paesi vicini. Non è casuale che quando in Georgia, Moldavia e Azerbaigian salgono al potere forze ostili a Mosca o che cercano di uscire dall’orbita russa scoppiano conflitti interni che si trascinano negli anni senza trovare una soluzione. La chiave della stabilità dei nuovi stati che fanno da cuscinetto fra la Federazione Russa e l’Unione Europea si trova al Cremlino. Quando 25 anni più tardi anche l’Ucraina cerca di allontanarsi dalla sfera di influenza russa si ritrova impantanata nella stessa situazione con la secessione/annessione alla Russia della Crimea e la guerra nel Donbass.
Quali Stati fantasma costellano la mappa d’Europa?
A est, nello spazio post-sovietico, in Moldavia abbiamo la Transnistria e la Gagauzia, in Georgia l’Abchazia e l’Ossezia del Sud, in Azerbaigian il Nagorno-Karabakh conteso dall’Armenia, in Ucraina il Donbass. Spostandoci a ovest troviamo il Kosovo che potrebbe giocare un ruolo importante nella ridefinizione complessiva delle relazioni fra Usa, Unione Europea e Federazione Russa. Ci sono poi i casi ancora aperti di Scozia e Catalogna che nel mio libro tratto mettendo in evidenza le differenze sostanziali rispetto ai processi secessionisti in corso in Europa orientale. Va ricordato, da ultimo, anche il caso di Cipro Nord che ha una storia completamente diversa anche se nel mio libro non ne parlo.
Cosa accomuna tali entità?
A livello politico la condizione di limbo diplomatico. Sono pedine fragili che Mosca muove sullo scacchiere della geopolitica. La Russia spegne o riattizza i conflitti in funzione dei propri interessi senza mai veramente cercare una soluzione. L’obiettivo del Cremlino non è il riconoscimento internazionale dell’indipendenza di queste entità ma mantenere una testa di ponte all’interno dei paesi vicini per condizionarne la sovranità orientandone le scelte strategiche. Non a caso la formula che si usa in inglese per queste guerre è “frozen conflict” cioè conflitto congelato. A livello umano e sociale l’altro aspetto comune è l’estrema precarietà delle condizioni di vita della gente che abita in questi luoghi. In Abchazia, Ossezia del Sud e Donbass si sopravvive solo grazie agli aiuti russi, in Nagorno Karabakh grazie a quelli armeni. È una economia di sussistenza senza alcuna prospettiva di sviluppo. Chi poteva è già scappato. Chi non l’ha ancora fatto è solo perché non sa dove andare o perché deve proteggere le magre proprietà.
Quali vicende hanno segnato la storia recente di Abchazia, Ossezia del Sud, Transnistria, Gagauzia e Nagorno-Karabakh?
Dopo la guerra lampo fra Georgia e Russia dell’agosto del 2008 Mosca ha nominalmente riconosciuto l’indipendenza di Abchazia e Ossezia del Sud. Quest’ultima, però, spinge per entrare nella Federazione Russa. Le parti si incontrano periodicamente a Ginevra ma il dialogo langue e le relazioni con Tbilisi non migliorano. Gli incidenti sulla linea di demarcazione sono abbastanza frequenti. In Gagauzia, per il momento, la questione dell’indipendenza è stata accantonata dopo l’accordo sullo statuto di ampia autonomia raggiunto con il governo di Chisinau. Per quanto riguarda la Transnistria il processo di pace con la Moldavia è nelle mani dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). I negoziati che durano ormai da 25 anni procedono a singhiozzo con alti e bassi e scarsi risultati. Il conflitto, però, sembra decisamente raffreddato. Ciò, in parte, è dovuto al fatto che la Transnistria non confina con la Federazione Russa e questo la spinge a trovare un modus vivendi con la Moldavia. Mai veramente congelato e spesso rovente è, al contrario, il conflitto del Nagorno Karabakh fra Azerbaigian e i separatisti armeni. Qui si registrano spesso schermaglie e sparatorie rigorosamente e paradossalmente con le armi che la Russia fornisce “generosamente” a entrambi i belligeranti.
La recente guerra in Ucraina per il Donbass ha riproposto all’attualità mondiale il problema dell’instabilità dell’area: è la Russia che muove i fili di tali rivendicazioni secessionistiche?
Solo le autorità russe si ostinano ipocritamente a negare l’evidenza. I secessionisti del Donbass combattono con armi, assistenza militare e mercenari russi seguendo i tempi dettati dal Cremlino. La strategia russa è quella della “instabilità controllata” dei paesi vicini attraverso l’occupazione indiretta di larghe fette di territorio. Il gioco di Mosca, poi, è quello di proporsi come parte terza e forza pacificatrice per mediare e facilitare il dialogo fra le parti controllandone e determinandone gli sviluppi e pregiudicandone la sicurezza. Dei sei paesi del Partenariato Orientale l’unico indenne da conflitti interni è la Bielorussia il cui uomo forte Aleksandr Lukashenko, al potere dal 1994, non si è mai scontrato con Vladimir Putin e ne ha quasi sempre sposato la linea.
Chi rappresenta l’autorità nelle ‘Terre di Nessuno’?
Anche se periodicamente si tengono consultazioni elettorali chi sale al potere in Abchazia, Ossezia del Sud, Transnistria, Gagauzia e Donbass è legato a doppio filo a Mosca. Gli amici georgiani ironizzano sul fatto che di solito i cosiddetti ministri dell’Ossezia del Sud sono uomini del Kgb mentre in Abchazia il Kgb per ogni ministero nomina “solo” i vice. Chi deve viaggiare usa passaporti russi. Con l’eccezione della Transnistria e della Gagauzia il rublo russo è la valuta corrente. Soldati russi stazionano in permanenza in Abchazia, Ossezia del Sud e Transnistria. In questi territori lo stato di diritto è quasi inesistente o non esiste affatto per chi fa riferimento alle autorità centrali del paese di origine. Le discriminazioni sono all’ordine del giorno, il diritto di proprietà non è garantito. Diverso è il caso del Nagorno-Karabakh. Qui è la classe politica di questa piccola regione montuosa dell’Azerbaigian ad avere determinato e condizionato la vita politica dell’Armenia. I due presidenti che hanno preceduto quello attualmente in carica, Armen Sarkissian, provengono entrambi da questa enclave. Nell’immaginario armeno il Nagorno-Karabakh rappresenta quello che per il popolo ebreo è Gerusalemme. Ci si sposta con documenti e denaro armeno. Con l’Armenia c’è una totale simbiosi.
L’indipendenza a metà del Kosovo e le rivendicazioni di Scozia e Catalogna scuotono la stessa Unione Europea: quale futuro per queste entità territoriali e politiche?
Ho avuto la fortuna di assistere da vicino come osservatore privilegiato al processo di indipendenza del Kosovo dai banchi del Parlamento Europeo dove ho steso le bozze di tutte le risoluzioni che riguardano questo paese. Il Kosovo rappresenta un test sia per la diplomazia internazionale che per l’Unione Europea. Per anni la diplomazia occidentale si è cullata nell’ipocrisia che l’indipendenza del Kosovo rappresentasse un caso “sui generis” slegato da quanto era avvenuto qualche anno prima nello spazio post-sovietico. Poi nel 2014 è scoppiato il conflitto in Crimea e tutto è ritornato in gioco con i Russi a reclamare per la penisola nel Mar Nero lo stesso trattamento concesso da Europei e Americani alle autorità di Pristina. Anche se ci sono indubbiamente analogie va ricordato, però, che nel luglio del 2010 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, respingendo le istanze della Serbia, non ha ritenuto che la dichiarazione unilaterale di indipendenza del febbraio del 2008 fosse in violazione del diritto internazionale. Grazie al precedente del Kosovo, tuttavia, Mosca cerca di legittimare l’occupazione e l’annessione della Crimea manovrando tutte le sue pedine sul terreno come fosse una partita a scacchi per ottenere l’annullamento delle sanzioni e riprendere il suo posto a pieno titolo nella comunità internazionale e non è affatto escluso che non ci riesca. La stessa diplomazia europea, peraltro, è spaccata con cinque Paesi Membri che a tutt’oggi, per problemi interni, rifiutano di riconoscere l’indipendenza dell’ex-provincia serba (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia). In Kosovo l’Unione Europea ha investito e continua ad investire milioni di euro in assistenza economica, cooperazione, sviluppo e risorse umane ma dopo vent’anni siamo ancora a metà del guado con un paese che, contrariamente alle aspettative, non ha ancora trovato una collocazione stabile nella comunità internazionale. Anche se non si è ancora concluso, comunque, il processo di indipendenza del Kosovo è irreversibile. È inverosimile che Pristina possa tornare sotto il controllo di Belgrado. Altrettanto complessa ma profondamente diversa è la situazione in Catalogna dove Madrid e Barcellona non sembrano trovare un terreno di dialogo. Più lineare, invece, è il percorso scozzese che, però, rischia di subire una brusca sterzata dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Entrambi i casi, comunque, mostrano una sostanziale differenza con i processi indipendentisti in corso nell’Europa orientale. In Catalogna E Scozia, infatti, non si registrano ingerenze esterne. Sono movimenti endogeni, spontanei e nonviolenti che prendono spunto da legittime aspirazioni di carattere storico e culturale sempre presenti nel dibattito politico sia a livello locale che nello stato di appartenenza. L’Unione Europea assiste con un certo imbarazzo trincerandosi dentro ai limiti delle proprie prerogative. Barcellona e Edimburgo, però, la chiamano spesso in causa. Mi auguro che la forza del diritto prevalga sul diritto alla forza.
Paolo Bergamaschi ha lavorato per 25 anni come consigliere politico presso la Commissione Esteri del Parlamento Europeo. Veterinario di professione, collabora con riviste, siti web e quotidiani con reportage a analisi di questioni europee e avvenimenti internazionali. È spesso ospite di programmi radiofonici che trattano di politica estera. È musicista e cantautore con sei cd all’attivo. Ha pubblicato Area di Crisi-Guerra e pace ai confini d’Europa (La Meridiana, 2007), Passaporto di Servizio (Infinito edizioni, 2010), L’Europa oltre il muro (Infinito edizioni, 2013), Terre d’Oriente (Infinito edizioni, 2017) e Terre di Nessuno (Infinito edizioni, 2020).