“Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia” di Lorenzo Kamel

Prof. Lorenzo Kamel, Lei è autore del libro Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, edito da Carocci: cosa può dirci riguardo la tesi del rifiuto arabo come origine del conflitto. Chi ha rifiutato cosa?
Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, Lorenzo KamelMolti osservatori e studiosi hanno legato la questione del problema dei rifugiati palestinesi, al “rifiuto arabo” della partizione della Palestina da parte dell’ONU nel 1947. Questa affermazione può avere un senso, ma la realtà di chi rifiutò cosa è molto più complicata. Come notò Uri Avnery, se ai palestinesi “fosse stato chiesto, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione, dato che – secondo loro – concedeva una gran parte della loro patria storica a stranieri”. Tanto più che, sempre nelle parole di Avnery, “agli ebrei, che all’epoca rappresentavano un terzo della popolazione, venne destinato il 55% del territorio – ed anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione”.

Ma dalla prospettiva degli arabo-palestinesi, che all’inizio del secolo scorso costituivano circa il 90% della popolazione locale, il 1947-48 non segnò l’inizio della lotta, ma coincise piuttosto con il capitolo finale di una guerra che era iniziata nei primi anni del XX secolo, quando alcuni leader sionisti adottarono politiche e strategie improntate al “rifiuto”. L’inizio di alcune delle cause strutturali legate al conflitto può essere fissato al 1907, quando l’ottavo congresso sionista creò un “ufficio della Palestina” a Giaffa, sotto la direzione di Arthur Ruppin, il cui principale obiettivo era – per citare le sue stesse parole – “la creazione di un milieu ebraico e di un’economia ebraica chiusi, in cui produttori, consumatori e intermediari debbano essere tutti ebrei”. L’idea stessa del “rifiuto” era dunque presente in maniera evidente nell’approccio di Ruppin. L’obiettivo di una “economia ebraica chiusa” venne parzialmente messo in pratica dal 1904 in poi dai dirigenti della seconda e terza aliyot (ondate di immigrazione ebraica in Palestina) attraverso politiche come il kibbush ha’avoda (conquista del lavoro) e la pratica dell’avodah ivrit (lavoro ebraico, o l’idea che solo i lavoratori ebrei dovessero lavorare terra ebraica). Benché entrambe fossero guidate dalla necessità di maggiori opportunità di lavoro per i nuovi immigrati, ebbero come risultato la creazione di un sistema di esclusione che bloccò fin dall’inizio, in primo luogo a livello mentale, qualunque potenziale integrazione con la popolazione araba locale. Bisognerebbe altresì notare che il “sistema di esclusione” e le relative strutture sociali e politiche colpirono altre questioni fondamentali, quali la terra e le sue risorse”.

Qualche esempio?
Per esempio il Fondo Nazionale Ebraico (KKL) venne fondato con il compito di acquistare terre in Palestina (riuscì a comprare i nove decimi della terra acquistata in Palestina da proprietari sionisti), mentre vietava la vendita di queste nuove aree acquisite a non ebrei. Le aree del KKL vennero gestite in modo discriminatorio rispetto alla popolazione araba. I contadini del KKL che venivano scoperti ad assumere lavoratori non ebrei erano soggetti a multe e/o espulsioni. Tali politiche erano particolarmente problematiche, soprattutto in considerazione degli obiettivi perseguiti al tempo, che il futuro primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann, delineò in una lettera inviata a sua moglie nel 1907: “Se i nostri capitalisti ebrei”, scrisse Weizmann, “cioè solo i capitalisti sionisti, dovessero investire i loro capitali, anche solo in parte, in Palestina, non ci sono dubbi che l’arteria vitale della Palestina – tutta la fascia costiera – sarebbe in mani ebraiche entro venticinque anni (…). L’arabo conserva il suo attaccamento primitivo alla terra, l’istinto del suolo è forte in lui, ed essendo costantemente impiegato in esso c’è il pericolo che possa sentirsi indispensabile, con un diritto morale su di esso”. Tutto ciò conferma che la tendenza a collegare il “rifiuto arabo” alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi ignora buona parte della storia e non può che favorire una comprensione limitata di una questione più complessa.

Quale fu il ruolo della Conferenza di San Remo dell’aprile 1920?
Attraverso il sistema dei mandati Parigi e Londra – con Washington a fornire una ‘consulenza esterna’ – si spartirono il Mediterraneo orientale, senza tuttavia stabilire per il momento la dicitura esatta e i confini precisi delle aree interessate. Per quanto concerne la Palestina, nella risoluzione che risultò dai colloqui di San Remo venne inclusa ciò che George Curzon, l’unico membro del gabinetto di Lloyd George ad essersi recato di persona in Palestina, definì “una ripetizione letterale della dichiarazione Balfour del Novembre 1917”. Va qui sottolineato che l’esistenza di una legittimità ebraica su una parte della Palestina è riconducibile a un diritto radicato nella storia e avvalorata dal concetto di ‘esistenza in pericolo’ al quale si è fatto riferimento in varie parti del libro; le decisioni prese in quella fase storica e in particolare la scelta di includere i propositi contenuti nella Dichiarazione Balfour nel testo del Mandato di Palestina furono dunque avvalorate da considerazioni tendenzialmente condivisibili. Numerosi ricercatori, tuttavia, si sono spinti oltre, sostenendo che gli esiti della conferenza di San Remo, ma soprattutto l’inclusione dei principi contenuti nella Dichiarazione Balfour nel testo del Mandato di Palestina, garantì al popolo ebraico il diritto esclusivo di creare il loro “focolare nazionale” su “tutta la Palestina e non solo su una parte di essa”. La tesi dell’“esclusività” sull’intera Palestina, oltre ad essere ingiusta e ingiustificata da un punto di vista storico (la Palestina non è mai appartenuta in modo esclusivo ad alcun popolo della storia), è errata anche nell’ottica legale imposta da Londra. Hubert Young, figura di rilievo del Foreign Office, scrisse nel novembre 1920 che il solo impegno preso da Londra “riguardo la Palestina è la Dichiarazione Balfour [che prevede di] trasformarla in un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Lo corresse Curzon: “No. ‘Istituire in Palestina un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina’ – una proposta molto differente”. Il “Libro Bianco” del giugno 1922 chiarì una volta per tutte che la Dichiarazione Balfour “non contempla che la Palestina nel suo insieme debba essere convertita in un focolare nazionale ebraico, bensì che un tale focolare dovrebbe essere fondato ‘in Palestina’”. Non esiste alcun documento ufficiale del tempo in cui fosse sostenuta la volontà di trasformare l’intera area ad ovest del Giordano in un “focolare nazionale ebraico”.

È solo alla luce di questi e altri aspetti analizzati nel libro che è possibile comprendere la formula utilizzata il mese successivo (luglio 1922) nel secondo articolo del Mandato di Palestina al fine di intimare alla potenza mandataria britannica di creare le condizioni adatte a fondare un focolare nazionale ebraico “in Palestine”. Si noti che l’interpretazione contenuta nel “Libro Bianco” del 1922 – un’interpretazione espressa, come mai era accaduto nei precedenti cinque anni, in termini ufficiali – fu sottoposta al benestare della leadership sionista prima che il testo mandatario venisse confermato dalla Lega della Nazioni. Nella parole di Chaim Weizmann: “Ci venne chiarito [It was made clear to us] che la conferma del Mandato [di Palestina] sarebbe stata subordinata alla nostra accettazione della linea di condotta così come interpretata dal Libro Bianco [del 1922], e io e i miei colleghi eravamo dunque tenuti ad accettarla, cosa che facemmo, sia pur non senza alcune esitazioni [my colleagues and I therefore had to accept it, which we did, though not without some qualms]”. Il Mandato di Palestina venne in questo senso confermato e ratificato sulla base di una chiara e vincolante interpretazione.

Al di là delle lacune che sottendono la ‘tesi dell’esclusività’, è forse l’aura che nel corso dei decenni ha circondato la Lega delle Nazioni ad aver creato i maggiori malintesi. Tale organizzazione – nonché i mandati dei quali essa venne dotata – fu uno strumento pensato dalle potenze occidentali per portare avanti interessi occidentali: rapportarsi ad essa come a una fonte ex cathedra di legalità presuppone un approccio semplicistico a una questione che di semplice non ha nulla. Presuppone tra l’altro che le norme imposte dalla “classe dominante” e presentate alla “collettività” come strumenti creati a loro beneficio, fossero effettivamente tali. Basti riflettere sul fatto che il modo quasi esclusivo che quella enorme moltitudine di esseri umani aveva per esprimere la propria opinione consisteva nell’invio di missive indirizzate alle autorità auto-incaricatesi di decidere le loro sorti.

Venendo all’attualità, è possibile comparare il “caso palestinese” con altri più o meno simili?
Non solo è possibile ma è importante e necessario confrontare il caso dei palestinesi con altri contesti in qualche maniera simili: dal Sahara Occidentale alla Cecenia, passando per il Tibet, l’Abcasia e altri. In questi e altri casi, è innegabile che ci siano forme di oppressione, ma le altre potenze hanno quantomeno accettato di prendersi delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate, garantendo loro una cittadinanza. Ancora oggi, per contro, milioni di palestinesi sono giudicati in tribunali militari. Stando a dati ufficiali israeliani il 99,74% dei palestinesi che si presenta davanti a questi tribunali ne esce con una condanna.

Israele ottiene una serie di ‘benefici’ dall’occupazione dei Territori Palestinesi che vanno ben oltre le questioni legate alla sicurezza”. Un esempio è lo smaltimento di scorie e rifiuti israeliani, che sistematicamente vengono sotterrati nei territori occupati palestinesi con modalità in parte simili a quanto avviene nella Terra dei Fuochi. Un altro esempio sono i materiali che vengono prelevati dalle cave palestinesi per essere usati in Israele: parliamo annualmente di circa dodici milioni di tonnellate di pietre e ghiaia, tre quarti delle quali utilizzate per costruzioni edificate in Israele. A ciò si aggiunga che per via degli insediamenti e delle relative infrastrutture circa il 40% della Cisgiordania non è accessibile da parte della popolazione palestinese. Infine, su circa il 60% della Cisgiordania ogni aspetto della vita civile della maggioranza locale è soggetto all’esclusivo controllo delle autorità israeliane. Solo un approccio semplicistico può accettare una siffatta realtà in nome esclusivo della sicurezza.

Come se ne viene fuori?
La tragedia ultima di questo conflitto è la de-umanizzazione dell’altro. E questo coinvolge tutte le parti in causa. Un simile vicolo cieco richiede programmi di studio volti a comprendere le cicatrici degli “altri”, – siano essi israeliani o palestinesi – nonché uno stop deciso ai rifornimenti di armi e un approccio multilaterale che includa pressioni concrete nei riguardi di tutti gli attori che si oppongono al consenso internazionale riguardo Gerusalemme e l’autodeterminazione di entrambi i popoli. Esistono due alternative a un approccio di questo tipo. La prima è rappresentata dal nefasto unilateralismo che entrambe le parti hanno mostrato in innumerevoli occasioni. La seconda è ciò che Martin Buber definì un “monologo travestito da dialogo”, ovvero un dialogo “in cui due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con sé stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover contare solo di sé”. Buber scrisse queste parole nel 1947. Nel 2022 appaiono più attuali che mai.

Lorenzo Kamel insegna Storia Globale e Storia del Medio Oriente e del Nord Africa all’Università degli Studi di Torino ed è direttore delle collane editoriali dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)

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