“Teorie e pratiche del web” di Andrea Miconi

Prof. Andrea Miconi, Lei è autore del libro Teorie e pratiche del web edito dal Mulino: quale rapporto lega la società attuale a una delle sue infrastrutture più rilevanti, il web?
Teorie e pratiche del web, Andrea MiconiUn rapporto stretto, ovviamente; e soprattutto, un rapporto che agisce ad ogni livello. La sfida di quella che si chiamava teoria della società in rete – e parliamo degli anni ’90 – era proprio questa, mostrare come svariati livelli del reale si andassero riconfigurando intorno alla struttura di network. Economia, ricerca del lavoro, finanza, socializzazione, consumi culturali, azione politica, burocrazia, sono ambiti diversi della società, ma non ce n’è uno in cui la rete globale non abbia avuto effetti decisivi.

Quali rilevanze ha prodotto la ricerca sociale sul ruolo della Rete e sui suoi effetti?
Di contenuti buoni ce ne sono. Di rilevanze, se ho ben interpretato la domanda, ben poche: la verità è che il dibattito sulla rete è egemonizzato dagli opinionisti – intellettuali, filosofi, consulenti, economisti, giornalisti, influencer reali o presunti – con pochissimo spazio per gli specialisti. Paradossale, se consideriamo che in buona part quelli che vivono scrivendo di digitale, blockchain, Web 3.0 o 4.0 (e così via), sono gli stessi che per anni hanno sparato cannonate contro l’autonomia della ricerca sui media, contro i corsi di laurea in comunicazione, e contro quegli esaltati che davano importanza a certe inezie anziché concentrarsi su cose più serie. Malgrado avessimo evidentemente ragione – basta pensare all’azienda più ricca (Apple) e all’uomo più ricco del pianeta (Bezos) – non siamo riusciti a far passare la necessità di un approccio specialistico. Probabilmente per ragioni materiali, e cioè perché l’universo accademico di chi si occupa di media non è coeso, e sia all’interno delle università che nel mondo al di fuori ci sono corporazioni molto più forti. Tuttavia è divertente vedere come gli stessi intellettuali che quindici anni fa ci deridevano – perché in aula parlavamo di Google anziché di Ariosto, probabilmente – oggi si sfidino a colpi di neologismi per cercare di spiegarci l’ontologia del Web.

Quali rischi sociali genera il web?
Dipende, come sempre, dalle prospettive. Mi limito ad indicare tre problemi, legati ad ambiti diversi: economia e lavoro; cultura; politica. Nel primo campo, la connessione a due vie del Web ha consentito di assorbire il lavoro di chi immette contenuti da casa propria, o con il proprio smartphone, senza essere ricompensato: parliamo di una gigantesca mole di lavoro gratuito, di fatto, che è il vero controvalore economico del cosiddetto capitalismo delle piattaforme. A livello culturale, poi, credo sia tempo di accettare il fatto che l’uso intensivo dei device digitali, oltre un certo limite, non può che togliere spazio ad altre forme di consumo. Certo, in rete si legge, si ascolta musica, si guardano video, e così via: ma il fatto che la porta d’accesso al Web sia l’icona di Facebook significa che gran parte del tempo viene consumata da attività – chattare, guardare cosa fanno gli altri – di altro tipo. Attività che non necessariamente sono incompatibili con il consumo culturale, certo: ma rimane il fatto che la giornata dura sempre 24 ore, ogni ora dura ancora 60 minuti, e non è un caso che tra i fortissimi consumatori giovani ci sia una correlazione tendenziale tra aumento del tempo speso in rete – ripeto, almeno oltre una certa soglia – e diminuzione della lettura, del consumo culturale fuori casa e del rendimento scolastico.

L’effetto politico, poi, è quello più visibile e più discusso: la polarizzazione del dibattito pubblico. In linea teorica, si tratta di una conseguenza della frantumazione degli ambienti di discussione: in altre parole, se io credo ad una tesi assurda – ad esempio, la correlazione tra vaccini e autismo – troverò una pagina che la sostiene, mi esporrò soltanto a quella pagina, farò a meno del confronto con chi la pensa diversamente (o, in questo caso, con i risultati della ricerca scientifica). Il risultato, va da sé, è che le diverse fazioni si allontanano, radicalizzando le proprie posizioni e restando ognuna separata dalle altre. Cosa che spiega anche il successo delle fake news, che non sono pericolose in quanto false – perché le false notizie sono sempre esistite – ma perché circolano in ambienti ideologicamente molto orientati, sottratti ad ogni confronto con l’altro, in cui le persone sono propense a credere a qualsiasi cosa confermi la propria opinione (incluso il fatto che i naufragi dei migranti siano bufale, per capirsi). Poi, va da sé, i media costituiscono l’ambiente che plasma l’esperienza, ma non spiegano tutto: la radicalizzazione del dibattito è dovuta anche ad altri fattori, come la crisi economica, l’impoverimento di parte della popolazione e l’aumento delle disuguaglianze, il ritiro dello Stato dai doveri di assistenza, o la pessima rappresentazione che i media generalisti danno di alcuni problemi sensibili.

Quali conseguenze produce per le nuove generazioni la connessione perenne?
Difficile dimostrarlo, va da sé, ma c’è un’evidenza crescente, che possiamo sintetizzare così: per lungo tempo, si è creduto che la socializzazione on line (mandare molte e-mail, passare tempo sui forum, fare un uso intensivo dei social network) rinforzasse quella off line: come dire, tutto si tiene, il mondo è a posto, e i vantaggi delle nuove piattaforme sono largamente superiori agli svantaggi. Oggi abbiamo però dati diversi, che mostrano come ad un elevato uso di device connessi – per un tempo non quantificabile, che copre l’intero arco del giorno – corrispondano aumenti significativi degli stati di solitudine, infelicità dichiarata, depressione, e perfino disagio mentale patologico (su quest’ultimo punto, ovviamente, il dato tendenziale fa testo più di quello assoluto, che rimane relativamente basso).

La strada per capire se si tratta di eccezioni, di casualità o di effetti più o meno diretti dell’always on è molto lunga, e temo impraticabile, visti i limiti epistemologici della ricerca sociale. Però abbiamo un indizio: la concentrazione di casi di disagio nella fascia di età più delicata, l’adolescenza. Si tratta del periodo della vita in cui le identità sono più fragili, e il riscontro degli altri particolarmente decisivo per definire la percezione di sé. Possibile che un sistema che inchioda le persone ad un feedback costante – quale fotografia ha postato un amico, quanti like ho ricevuto, e così via – agisca da acceleratore di un problema nella costruzione del self che è di per sé tipico dell’età di passaggio.

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