
Capiamo allora perché la nostra esperienza della vita quotidiana venga spontaneamente organizzata dalla nostra mente in forma narrativa: è in effetti questo il primo, e più fondamentale modo in cui codifichiamo la nostra vita – cioè la organizziamo in maniera da dotarla di senso. Come hanno messo in evidenza gli studiosi di psicologia infantile, questo processo inizia già a partire dai primi mesi di vita del bambino, sicché è stato possibile dire che noi siamo, in primo luogo, animali narranti.
È anche significativo rilevare come ciò che in qualche modo ci appassiona presenta tipicamente forma narrativa: viviamo ad esempio una partita di calcio o una gara di Formula Uno come la storia di un combattimento o di un duello, con tutte le fasi tipiche di un racconto d’avventure. Narrativizziamo non solo le nostre attività ludiche (dal Monopoli ai giochi di ruolo), ma anche la politica, i temi dell’ecologia, il decorso di una malattia… e ricordiamoci che ci riferiamo comunemente a una relazione amorosa come a “una storia”. Ma tecnicamente, come spiego anche in questo libro, un po’ tutte le emozioni si generano a partire da un dispositivo narrativo. Insomma, la disposizione narrativa ci accompagna davvero in tutti gli aspetti della nostra vita. E, dato che una banale contrapposizione tra “emotivo” e “razionale” è roba del passato, è molto significativo che si parli oggi spesso anche di come la dimensione narrativa ed emozionale svolga un ruolo di primo piano nei fatti economici – fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile che un premio Nobel per l’economia (mi riferisco a Robert Shiller) scrivesse un libro intitolato all’Economia narrativa.
Ciò che davvero stupisce, invece, è quanto poco siano usate le potenzialità operative della teoria della narrazione, ad esempio per comprendere le dinamiche dei flussi d’informazione (ricordo che chiamiamo “informazione” la strutturazione narrativa di una serie di eventi), o per analizzare certe dinamiche dei mercati finanziari o, per fare un altro tra i tanti possibili esempi, per fornire un contributo utile a mettere a punto certe sceneggiature cinematografiche che poi, una volta realizzata l’opera, si rivelano subito mal congegnate.
Quando e come nasce la teoria della narrazione?
Si è soliti far coincidere l’inizio degli studi di teoria della narrazione con la pubblicazione della Morfologia della fiaba di Vladimir Propp – siamo nel 1928. Può essere un’indicazione convenzionale, e ci sono certo precedenti di studi importanti tanto nell’ambito letterario quanto ad esempio in quello psicanalitico, ma non v’è dubbio che quello di Propp sia uno studio fondamentale, tuttora di grandissimo interesse e disponibile a nuovi sviluppi. Curiosamente, fino a pochi anni fa molti studiosi erano soliti rifarsi al modello narrativo della fiaba pensandolo come qualcosa di semplice e in fondo poco significativo, vedendolo come una sorta di puro schema formale per la costruzione di una storia. Solo recentemente ci siamo resi conto, ancora grazie allo studio di Propp, che quella della fiaba è un’architettura di racconto raffinata e complessa, capace di collegare in modo intrigante due piani narrativi molto diversi, così da presentarci la relazione tra la visione in soggettiva di un protagonista in cerca d’affermazione e la visione istituzionale propria alla comunità sociale che lo circonda. Vista in questi termini, si tratta di una configurazione narrativa che apre un insieme di considerazioni molto rilevanti, innanzi tutto sul rapporto tra il volere personale e i modelli vigenti, dunque tra la costruzione della propria identità e il sistema di regole in cui si è inseriti. E si tratta quindi di un modello culturale storicamente radicato, nient’affatto di uno schema formale privo di valore ideologico!
Proprio per questo, ho voluto includere in questo libro anche analisi di racconti provenienti da culture diverse dalla nostra, o addirittura certi embrioni di quelle che potremmo considerare teorie della narrazione esotiche, significativamente lontane da quella che è la nostra prospettiva occidentale. Questo proprio per mostrare che nulla è ovvio e scontato, che ogni cultura opera le sue scelte e grazie a queste in qualche modo definisce aspetti essenziali del mondo di cui i suoi membri avranno esperienza.
La nuova semiotica, quella che un po’ scherzosamente chiamo Semiotica 3.0 – vale a dire la semiotica intesa come vera disciplina scientifica, al pari delle altre scienze sociali – deve in effetti essere caratterizzata proprio dal superamento delle prospettive formaliste. Dobbiamo in questo senso anche superare quella specie di contrapposizione che si è venuta a presentare tra una raffinata teoria formale, sviluppata nelle accademie europee, e tutta quella serie di applicazioni operative che sono esplose soprattutto negli Stati Uniti, con la moda dei veri o sedicenti esperti di storytelling. Piuttosto che sdegnarsi di fronte a questi goffi e però efficaci sviluppi commerciali, bisognerebbe chiedersi perché gli studiosi accademici amino ostinatamente rinchiudersi in circoli inaccessibili, quasi rifiutando di far conoscere l’utilità delle loro ricerche in termini di un più ampio valore culturale e sociale. Sembra che arrivare a un pubblico più ampio sia qualcosa di sconveniente e un po’ volgare… In questo libro ho cercato al contrario di evitare per quanto possibile una teorizzazione astratta rinchiusa in se stessa, confidando nella possibilità di fare emergere i modelli teorici da un’attenta lettura di storie interessanti, e anche confidando nella capacità di queste ultime di riflettere sui loro stessi meccanismi di costruzione. Certo, Teorie della narrazione mantiene necessariamente un carattere un po’ tecnico, ma con Isabella Brugo ho anche provato a mostrare come le analisi narratologiche possano essere di piacevole e coinvolgente lettura: il nostro libro Comunque umani ragiona intorno alle figure novecentesche del Male (vampiri, alieni, zombi e compagnia bella) in modo accessibile a tutti, pur se dietro vi stanno le più avanzate teorie della narrazione. Perché l’importante è capire ciò che abbiamo intorno, e renderci conto di come significati ben definiti possano celarsi anche in film o romanzi che possono apparirci di mero intrattenimento. Questa va vista come la base prima che regge l’albero delle teorie della narrazione. E allora non è a caso che tutto sia partito dalle fiabe, cioè dal tipo di racconto che mira a introdurre i più giovani a un modo definito di pensare il mondo che hanno intorno. In effetti, storicamente la teoria della narrazione è nata da una curiosità, se vogliamo anche da uno stupore: perché così tanti racconti, pur tramite personaggi e ambientazioni diverse, sotto questa superficie sembrano in fondo “raccontare la stessa storia”? Quale profonda meccanica culturale attiva il funzionamento di questa macchina narrativa? Abbiamo fatto grandi passi per comprendere di cosa si tratti, ma in effetti siamo ancora sulla strada aperta da Propp nel 1928.
Quali apporti hanno fornito altre discipline come la psicologia, la storia o il marketing?
La teoria della narrazione si trova per sua natura collocata al crocevia di parecchie prospettive disciplinari. Il fatto che prima ricordavo, per cui un’architettura narrativa, come può essere anche quella della fiaba, pone in relazione la prospettiva dell’agire individuale con le norme della collettività sociale, ci fa capire come lo studio della narrazione coniughi immediatamente dimensioni psicologiche e sociologiche. Di fatto, sono stati gli psicologi più di altri ad affiancare i semiologi, tanto nell’approfondire l’azione dei dispositivi narrativi quanto nel sottolinearne la natura primaria ed essenziale nel funzionamento e nello sviluppo del nostro pensiero. Sono noti gli studi degli psicologi cognitivisti intorno al concetto di script (che corrisponde all’idea di una configurazione narrativa codificata), ma più rilevante è stato l’apporto della prospettiva di Jerome Bruner, e molto importanti sono anche gli studi degli psicologi evolutivi, ricordo in particolare il nome di Daniel Stern.
L’apporto più decisivo è venuto però, oltre che dall’ambito letterario (cosa del tutto ovvia), dall’ambito etnoantropologico, cioè da studiosi di folclore com’era lo stesso Propp e da antropologi culturali, a partire da quell’altro grande padre della teoria della narrazione che è stato Claude Lévi-Strauss, cui dobbiamo indicazioni tanto raffinate che ancora stiamo attualmente lavorando alla loro traduzione in modelli operativi. E poi certo ci sono gli storici, potremmo dire quasi inevitabilmente, dal momento che era logico che almeno qualcuno di loro si fermasse a riflettere su cosa possa voler dire organizzare il nostro sapere sul passato inserendolo in quella grande e complessa narrazione che troviamo nei testi di storia. Ma poi ci sono apporti significativi che arrivano anche da ambiti inattesi: studiosi di musica, di intelligenza artificiale, oltre che di sociologia e, come ho già ricordato, di economia.
Io ho voluto in effetti che questo mio libro non stesse chiuso nella prospettiva di una singola disciplina ma tenesse conto degli apporti di differenti prospettive scientifiche. Al centro resta comunque, come riferimento capace di intrecciare e valorizzare gli apporti più diversi, la prospettiva semiotica, vale a dire quella della disciplina che più specificamente si occupa di come cose ed eventi d’ogni genere acquisiscano per noi un senso. Perché questo è il punto chiave, diventato sempre più centrale nel corso degli anni: la configurazione narrativa è il nostro modo più fondamentale per dare un senso alla vita, agli eventi, alle cose che abbiamo intorno. E non a caso – aggiungiamo un riferimento ad ancora un altro ambito di studi – chi si occupa di marketing, di pubblicità, di “stili di vita”, ha spesso scoperto spontaneamente che, potremmo dire, “stava facendo della semiotica senza saperlo”.
Quale innovativa visione emerge dalla rilettura in chiave attuale delle teorie narrative classiche?
Ho visto che la cosa che più ha stupito i miei lettori più attenti, e gli studiosi miei colleghi, è quanto si possano dire cose nuove e aprire prospettive innovative di ricerca rileggendo in chiave attuale certi autori classici: autori che troppo spesso erano considerati come riferimenti ormai esauriti, e che di conseguenza rischiavano di essere dimenticati. Dal canto mio, devo dire di essere stupito del fatto che nessuno prima si fosse fermato, ad esempio, a riflettere sul tipo di struttura narrativa che viene fuori dall’analisi della fiaba condotta da Propp. Se capiamo che un tale tipo chiave di racconti espone per suo statuto non una ma due storie, una vicenda individuale e una sociale, allora la nostra concezione delle architetture narrative diventa immediatamente molto più significativa e affascinante, e possiamo anche riformulare aspetti poco convincenti di teorie successive, come vale ad esempio per le strutture “attanziali” di Greimas. Soprattutto, entriamo nei meccanismi più decisivi per le dinamiche narrative e possiamo capire come funziona davvero quel racconto in cui siamo, noi tutti, incappati alla nascita: questa storia della nostra vita che, lo vogliamo o no, è raccontata al tempo stesso da noi e dagli altri.
Bisogna ammettere che la teoria della narrazione si era andata col tempo inaridendo, riducendosi troppo spesso a modellini scolastici incapaci di cogliere la ricchezza e la straordinaria complessità dell’universo narrativo. Addirittura, uno dei nostri più importanti e raffinati studiosi di riferimento, il grande Claude Lévi-Strauss, era finito per essere quasi completamento accantonato, se non anche qui per le solite formulette da manuale. Il mio libro sulle teorie della narrazione fa in effetti parte del progetto di una nuova semiotica, che io dico “neoclassica”, nel senso appunto di proporre idee radicalmente nuove e non convenzionali, ma farlo a partire da tutto il patrimonio d’idee che è stato prodotto dai nostri maestri. Come ha notato un collega, è singolare che questo sia oggi il più avanzato libro di teoria della narrazione ma al tempo stesso anche quello che più di altri torna a riflettere sui testi più classici. Nessuna antinomia: il punto è che invece di cercare di formulare teorie eleganti e di badare alla forma, si tratta di guardare a quello che serve per capire davvero come i racconti sono fatti e di quali valori culturali sono portatori.
È quindi fondamentale mirare a sviluppare una visione libera, non formale o convenzionale ma puntata a obiettivi di capacità operativa: vogliamo usare tutto quello che sappiamo per comprendere meglio aspetti centrali della nostra realtà psicologica e sociale. Purtroppo, nel nostro contesto non è facile proporre un progetto culturale di questo tipo, e non a caso abbiamo dovuto constatare come un insegnamento di Teoria della narrazione venga ancora avversato nel mondo accademico, forse perché percepito come troppo innovativo, o forse perché anche troppo capace di portare a riflettere sul modo in cui i media dominanti possono plasmare la nostra percezione del mondo senza che sia facile averne consapevolezza. Ma queste resistenze non fanno che convincerci ulteriormente del ruolo centrale di questo tipo di studi!
Guido Ferraro, docente di Teoria della narrazione e Semiotica all’Università di Torino fino al 2019. È stato Presidente dell’Associazione Italiana Studi Semiotici, ha diretto centri di ricerca, riviste e collane editoriali. Tra i più innovativi studiosi di semiotica, ha aperto con l’indirizzo “neoclassico” una nuova fase di sviluppo: la Semiotica 3.0 segue alla fase di fondazione e alla grande affermazione degli anni Settanta. Tra i suoi libri, Teorie della narrazione e Semiotica 3.0 sono considerati tra i testi più avanzati della semiotica recente. È ora impegnato nell’apertura di nuovi spazi di dibattito e rinnovamento per gli studi su semiotica e narrazione.