“Teoria della letteratura. Campi, problemi, strumenti” a cura di Laura Neri e Giuseppe Carrara

Prof.ri Giuseppe Carrara e Laura Neri, Voi avete curato l’edizione del libro Teoria della letteratura. Campi, problemi, strumenti pubblicato da Carocci: innanzitutto, di cosa si occupa la teoria della letteratura?
Teoria della letteratura. Campi, problemi, strumenti, Laura Neri, Giuseppe CarraraDelineare con precisione il campo di applicazione di una disciplina come la Teoria della letteratura non è un compito facile, ed è stato, infatti, uno dei primi problemi che ci siamo posti nell’ideazione di questo libro. Innanzitutto perché la Teoria della letteratura ha avuto diversi volti nel corso della storia, si è occupata di questioni differenti, si è posta delle domande e ha cercato delle risposte spesso in aperta contraddizione fra loro. La moderna teoria nasce fra gli anni Dieci e Venti del Novecento grazie al fondamentale lavoro dei formalisti russi, ma naturalmente quell’esperienza ha alle spalle secoli di discorsi sulla letteratura, dalla retorica all’estetica, passando per la critica militante e la poetica. Con i formalisti russi accade, comunque, qualcosa di fondamentale: si cerca di definire la teoria come una disciplina in grado di fornire degli strumenti per lo studio oggettivo del fatto letterario, soprattutto attraverso l’individuazione di caratteristiche interne al testo che sappiano individuare la specificità della letteratura e il suo funzionamento. Ecco: forse potremmo iniziare con il dire che la teoria della letteratura si occupa delle questioni generali e della messa a punto di categorie e metodologie di analisi: che cos’è la letteratura, che cosa sono i generi letterari, che cos’è il realismo, come funziona un testo narrativo, come è fatto un testo poetico, ma anche qual è il rapporto fra letteratura e mondo, fra lettura ed emozioni, fra le opere e i discorsi politici, ideologici e culturali. Si capisce, semplicemente da questa disordinato elenco di domande che è quasi impossibile dare una definizione univoca di teoria della letteratura, perché si tratta di una attività di costante interrogazione dei testi, e attraverso questi decostruisce, sfida il senso comune, valuta, ci chiede di esplicitare i presupposti dei nostri discorsi critici e, anche, cerca di dare delle risposte, mai definitive, sempre rimesse in discussione, alle domande fondamentali che chi si occupa di letteratura si fa da sempre.

Che cos’è la letteratura?
Rispondere a questa domanda è ancora più difficile, e proprio su questo problema irrisolvibile si interroga da sempre la teoria. Qualcuno – in realtà uno dei principali teorici del Novecento, Gerard Genette – ha proposto, provocatoriamente, di non porla nemmeno questa domanda, proprio perché non c’è una risposta condivisa. Si tratta, con ogni evidenza, del quesito che più spesso è stato posto: basti pensare alla quantità di libri che si intitolano Che cos’è la letteratura (il più famoso è, certamente, quello di Sartre, ma davvero non è l’unico). Le principali risposte a questa domanda si sono mosse soprattutto intorno a due prospettive principali: l’una cercava di trovare le caratteristiche specifiche della letteratura dentro i testi; l’altra si interrogava piuttosto riguardo a quali condizioni un testo diventa un testo letterario: Mattino di Giuseppe Ungaretti è una poesia perché ha delle specifiche caratteristiche di suono, di metro, di lingua che la distinguono dai testi non letterari o è tale piuttosto perché è istituzionalmente inserita in un determinato contesto e noi la riconosciamo come tale (dentro un libro che ha nel frontespizio la parola “poesia”, è scritta da un autore che fa parte di una società letteraria con le sue istituzioni, ecc.)? La risposta più saggia potrebbe essere che sono vere entrambe le cose: sarebbe sciocco negare che quando leggiamo un’opera lo facciamo anche per il modo in cui è scritta, e che quindi dentro un’opera ci sono delle proprietà formali, ma fino a che punto noi riconosciamo come distintive quelle proprietà in maniera astorica e a-contestuale? Non sarà forse che le individuiamo anche perché sappiamo già che il testo che stiamo leggendo è un testo letterario? O decidiamo che dovrebbe esserlo? D’altronde consideriamo oggi come letterari testi che un tempo non lo sarebbero stati e viceversa? Sappiamo di aver risposto a una domanda sollevando solamente altri interrogativi, ma la questione resta aperta.

Che rapporto ha con il mondo la letteratura?
Anche in questo caso dare una risposta esaustiva è impossibile. Possiamo partire, intanto, da una considerazione banale: la letteratura ha certamente un rapporto con il mondo “reale” – e forse davvero mai nessuno ha potuto sostenere seriamente il contrario fino in fondo: lo stesso Gautier, il capofila di quel gruppo di poeti francesi del secondo Ottocento che sostenevo l’autonomia dell’arte, di un’arte fine a se stessa, in fondo non poteva fare a meno di constatare che, parafrasiamo, Flaubert era stato più furbo di tutti loro: perché era nato ricco. C’è una notissima poesia di Gertrude Stein che recita più o meno così: “Una rosa, è una rosa, è una rosa”. Ecco, ci verrebbe da dire che in letteratura una rosa non è mai solo una rosa. E non perché debba necessariamente caricarsi di significati simbolici, ma perché quella rosa lì, che non esiste, e in quel testo può anche semplicemente essere una rosa, ha dei rapporti inevitabili con la realtà, con la realtà emotiva o memoriale del lettore, con i mezzi di produzione, direbbe un marxista, con una particolare configurazione del “discorso”, direbbe un foucaultiano; con una determinata configurazione dell’Occidente, potrebbe sostenere un studioso di critica post-coloniale; o ancora con un’immagine stereotipata della donna, potrebbe scrivere una critica femminista; ma anche, e non per questo meno semplicemente, con il nostro posto nel mondo, con la nostra storia individuale o collettiva, ma anche con una mattina in cui mangiavamo, da bambini, un madeleine intinta nel tè. Con le ragioni stesse, insomma, per cui leggiamo la letteratura, che davvero non importerebbe a nessuno se non ci desse un’immagine del mondo, che può essere il nostro o un altro, non importa, ma quell’immagine, per noi ha un valore, ci riguarda. D’altronde, come scriveva Franco Brioschi, “se interpretare un simbolo è sempre un’attività intellettuale, le emozioni che riceviamo dal testo letterario o che gli prestiamo sono, precisamente, la sostanza in cui prende corpo il suo significato”.

Esistono delle leggi generali in letteratura?
Sì e no al tempo stesso. Ci spieghiamo: esistono certamente delle leggi generali che ci consentono di studiare la letteratura nel modo più adeguato possibile, ma queste leggi, per quanto generali, non sono universali. I testi letterari, così come i nostri stessi metodi di analisi, sono necessariamente storici, collegati a un tempo e a uno spazio, e di conseguenza le stesse leggi dovranno essere individuate tenendo conto di questi fattori e dell’infinita casistica in cui la letteratura ci si presenta materialmente. Il punto decisivo è proprio questo: le leggi generali, le costanti, sono fondamentali per poter comprendere i fatti letterari nella loro specificità, per sfuggire dall’impressionismo critico, per poter sistematizzare, confrontare, organizzare e capire meglio la letteratura e, attraverso quella, finanche la storia. Ma poi queste considerazioni dovranno necessariamente fare i conti con la singola opera che abbiamo fra le mani. Che potrà smentirle o confermarle.

Cosa sono i generi letterari?
Come scrive Massimo Fusillo nel capitolo dedicato a questo problema, “il genere non è solo una forma: è una forma di vita, un’interazione complessa fra l’atto comunicativo individuale e il contesto sociale in cui si situa”. Quella sui generi è una discussione antichissima, che fa capo almeno ad Aristotele e, nel corso dei secoli, ha subito rimodulazioni, variazioni, sconvolgimenti. La prima grande spaccatura da segnalare è senz’altro il passaggio da un’idea del genere normativo (che collegava strettamente, cioè, gli argomenti ai modi in cui dovevano essere tratti e dava indicazioni su come doveva essere fatto un determinato genere), a una concezione descrittiva: con la modernità, e in particolare la nascita e diffusione del romanzo, il genere inizia a essere un’etichetta che si usa per descrivere come sono fatte le opere che già ci sono, in base a due criteri principali: una somiglianza oggettiva e le aspettative e gli schemi di ricezione del pubblico. Dunque, i generi non sono delle entità fisse, ma piuttosto delle pratiche fluide – e infatti una delle questioni che con sempre più attenzione viene affrontata dagli studi letterari è proprio il continuo processo di contaminazione, riscrittura, forzatura del genere – di cui di recente sempre più spesso vengono messe in luce le caratteristiche transmediale e di gender. Quella di genere, inoltre, è una nozione con una storia particolarmente travagliata: come ricorda ancora Fusillo, la teoria letteraria ha oscillato fra “la produzione di modelli tassonomici in cui classificare la varietà delle forme letterarie, e il rifiuto netto della nozione di genere e della sua utilità ermeneuti­ca. Per fortuna non c’è stata solo l’oscillazione fra questi due estremi, entrambi oggi inaccettabili, ma anche la ricerca di una terza via, che renda conto del movimento continuo dall’opera al genere e viceversa.”

Che rapporto esiste fra gli studi letterari e gli studi culturali?
Gli studi culturali e gli studi letterari hanno spesso avuto un rapporto antagonistico. L’antagonismo non è necessariamente un aspetto negativo, quando non si tratta di polarizzazione ideologiche e superficiali – come spesso, purtroppo, è stato in Italia – il conflitto è salutare, fa avanzare gli studi e i saperi, ci rimette in dubbio, in discussione. Il terreno di scontro fra la teoria letteraria, chiamiamola per comodità “classica”, e gli studi culturali ha investito soprattutto quattro macro-questioni: la perdita di specificità del fatto letterario considerato come un prodotto culturale fra gli altri (assieme alla grande attenzione alle forme popolari, prima, e midcult e masscult, poi); la continua opera di messa in discussione del canone; la lettura sintomatica delle opere; la fiducia riposta nella lotta culturale. Ora, al netto delle singole risposte e delle banalizzazioni, quello che va rilevato è che la relazione fra gli studi letterari e gli studi culturali può (e deve) essere feconda e non necessariamente oppositiva, ma tutto al contrario ci aiuta ad abbracciare e comprendere la complessità degli oggetti letterari – come per altro dimostrano alcuni degli autori e delle autrici che hanno collaborato al nostro libro.

In che modo il discorso letterario è venuto sempre più a convergere con la retorica?
La retorica è una disciplina antica, nata nel V secolo a.C., come strategia di difesa nelle contese giudiziarie: la sua origine non ha una relazione con la letteratura. Anzi, poiché lo studio della retorica sviluppa le abilità e il controllo della parola e del discorso, Platone nel Gorgia la identifica con l’arte dell’inganno e con l’idea che il retore può manipolare a suo scopo l’ascoltatore. Solo più tardi, con la tripartizione dei generi retorici, deliberativo, giudiziario e epidittico, avviene il contatto con la letteratura. Infatti già Aristotele sostiene che l’epidittica riguarda le funzioni della lode e del biasimo, e implica il giudizio estetico. Dallo sviluppo di questo ambito, la dinamica rigorosa e classificatoria della retorica è diventata un privilegiato e ricchissimo strumento di indagine del testo letterario. Il problema è che proprio il contatto con la letteratura ha ridotto poi il vasto campo della retorica a un meccanismo stilistico o peggio, a una mera forma ornamentale. Al contrario, il punto di partenza della teoria letteraria vuole essere quello di considerare le retorica come la disciplina che apre la dimensione sociale del linguaggio, per intenderla come un sistema articolato di interrogazione, pensando che il suo ruolo conoscitivo è, come scrive Bice Mortara Garavelli, «scoprire e spiegare le regole del gioco comunicativo». Questo è il suo valore per il testo letterario.

Giuseppe Carrara insegna Critica e teoria della letteratura all’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni Il chierico rosso e l’avanguardia (Ledizioni, 2018) e Storie a vista (Mimesis, 2020).

Laura Neri insegna Critica e teoria della letteratura e Stilistica del testo all’Università degli Studi di Milano.

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