
Nel volume Lei identifica nel problema del tempo la questione-chiave da affrontare e risolvere: quali conseguenze producono la velocità e l’accelerazione alle quali ci sottopone la società contemporanea?
C’è una relazione strutturale tra la fretta del leggere e il dato più generale di una società, la nostra, segnata dalla velocità, anzi dall’accelerazione. Nel libro ho ricostruito la linea di riflessione che da Debord e Virilio arriva fino a Byung-Chul Han e Hartmut Rosa proprio su come velocità e accelerazione contribuiscano a modificare il nostro profilo di comportamento individuale e sociale. E la genesi di questo fenomeno va cercata in un mondo del lavoro sempre più competitivo e in uno sviluppo della tecnologia che, proprio per sostenere questa competitività, emancipa il nostro agire dallo spazio e ne condensa i tempi. L’emergenza da cui non siamo ancora del tutto usciti lo ha evidenziato molto bene: tutti a casa, tutti in videocomunicazione, con un orario compresso, senza pause e senza tempi morti, con più finestre aperte sul desktop, per ottimizzare i tempi e fare due-tre cose insieme, anche nel week end, senza soluzione di continuità tra tempo feriale e tempo festivo. Lo smart working è stato ed è anche hard working. E non ha certo favorito la decelerazione, bensì ha contribuito, se possibile, a un’ulteriore accelerazione. Come Rosa fa ben notare nelle sue analisi, noi abbiamo costantemente la consapevolezza di essere strutturalmente in ritardo: sulle consegne, sul lavoro da fare, sulle riposte da dare. E questo essere in ritardo ci fa sentire in colpa. E per lenire questo senso di colpa tendiamo ad accelerare, a estendere i nostri tempi lavorativi, a rubare continuamente spazio al riposo, all’otium. L’esito è un’alienazione di nuovo tipo, non più imposta da un capitale poco rispettoso dell’umano, ma autoinflitta.
Perché la lentezza rappresenta un paradigma imprescindibile della lettura?
Troviamo qui il punto di raccordo tra la riflessione che abbiamo appena fatto sulla velocità e sull’accelerazione e la fretta del leggere, la fretta che impedisce al leggere di essere quell’esperienza straordinaria che dovrebbe rappresentare per tutti noi. Perché per leggere serve tempo? Perché serve un tempo disteso come quello che Machiavelli riserva ai “suoi” Classici e di cui egli racconta nella famosa lettera al Vettori che ricordo proprio nell’introduzione del libro? La risposta viene fornita da Maryanne Wolf quando dice che la fretta compromette la lettura profonda. É profonda la lettura quando ci fa fare passeggiate inferenziali (per dirla con Eco), quando ci fa lavorare continuamente con l’immaginazione ad anticipare scenari possibili, quando ci fa identificare con i personaggi e vivere le loro vicende dal loro punto di vista. Quando questo accade, realmente “ci trasferiamo” nel testo e la lettura si trasforma in un’avventura dello spirito che serve a sviluppare molte competenze – per usare una categoria ben nota al dibattito sulla scuola oggi. Di particolare interesse è quanto la studiosa americana dice proprio riguardo al transfert con e nel personaggio. Mettersi nei suoi panni, vivere la sua vicenda, provare quello che prova, rappresenta un esercizio di pensiero posizionale, per citare Martha Nussbaum. Un esercizio che aiuta a comprendere e valorizzare la diversità. Il fatto che si legga poco, dice la Wolf, rischia di farci perdere progressivamente questa capacità: una società che legge poco è anche una società meno tollerante, meno aperta all’altro, meno civile. Leggere, viceversa, sviluppa empatia e senso della cittadinanza: un valore da conservare e rilanciare grazie al lavoro della scuola e della società civile. In tal senso il lavoro dei circoli della lettura come di Letture.org credo sia di straordinaria importanza.
In che modo è possibile recuperare il valore della lentezza?
Le soluzioni possono essere diverse.
La prima consiste nel promuovere strategie di decelerazione. È questa la soluzione proposta da chi come Domenech Francesch ha lanciato il movimento dell’educazione lenta. Dirigente scolastico catalano, Francesch ha importato nella scuola l’idea di Carlo Petrini: ha risposto allo Slow Food con la Slow Education. L’idea è molto semplice e consiste nel notare come non esista apprendimento significativo senza lentezza. Un apprendimento è significativo quando passa dall’appropriazione del contenuto da parte dello studente e questo significa innestare le nuove acquisizioni su quanto già in precedenza appreso. Per farlo serve tempo per fare ipotesi, verificarle, adattare le categorie mentali di cui si dispone: proprio il lavoro che la Wolf associa alla lettura profonda.
Han propone invece di riscoprire la vita contemplativa a discapito di quella attiva. La vita contemplativa, fatta propria dalla tradizione monastica in Occidente, è la prospettiva sottesa a quello che i Greci chiamavano bìos theoretikòs, vita contemplativa appunto. Lo sguardo contemplativo sulle cose è il contrario di uno sguardo interessato: diversamente dalla tecnica, la contemplazione non guarda le cose per trasformarle a vantaggio dell’uomo, ma per il puro gusto di conoscerle. Contemplare è un atto gratuito, disinteressato, che chiede di sospendere il commercio col mondo. Non è un caso che questo sguardo fosse quello proprio della scholé o degli otia.
Originale la proposta di Rosa, organizzata attorno alla categoria della risonanza. Si tratta di una metafora musicale, acustica: si contrasta l’accelerazione di cui siamo vittime se si entra in relazione con esperienze o persone che “ci risuonano”, ovvero con cui ci sentiamo “accordati”. Rosa ritiene, infatti, che non sia possibile fermare il mondo, promuoverne un rallentamento. La risonanza rappresenta, così, una sorta di antidoto, di contromisura, un modo per rendere sostenibile l’accelerazione e non fare l’esperienza dell’alienazione. Mi “risuona” un momento che mi prendo con un amico per parlare, una passione che mi sforzo di coltivare, ancora una volta il tempo che mi prendo per leggere, svestendo i miei “panni usati” e chiudendo fuori tutto e tutti per qualche ora, proprio come Machiavelli a San Casciano.
Personalmente, nel libro, raccolgo tutto questo in sintesi nella proposta di un’etica del tempo presente che ci abitui a concentrarci su quello che stiamo facendo, una cosa per volta, senza fretta, senza rincorse. Fare bene quello che si sta facendo è una virtù da sviluppare con pazienza e applicazione costante. Ed è l’opposto del fare qualcosa pensando già a qualcos’altro, vinti dall’ansia del tempo che passa e dalla sensazione di essere già in ritardo.
Pier Cesare Rivoltella è professore ordinario di Didattica e Tecnologia dell’istruzione presso l’Università Cattolica di Milano dove ha fondato e dirige il CREMIT (Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, l’Innovazione, la Tecnologia). Tra i suoi ultimi lavori: Il corpo e la macchina. Tecnologia, cultura, educazione (2019); Un’idea di scuola (2018), Tecnologie di comunità (2017), L’agire didattico. Manuale per l’insegnante (con P.G. Rossi, 2017).