
Il grande storico della religione romana, Georges Dumézil, ha sottolineato come l’antico Romano fosse interessato soprattutto alla terra che gli era vicina e che riteneva già abitata dalla divinità con la quale doveva stipulare un accordo, la pax deorum, appunto, per poter coabitare e governare. È sul fondamento di questa concezione tellurocentrica del divino che si formò la mentalità dell’antico Romano che vide nell’uomo che coltivava la terra, la figura esemplare da imitare, come testimonia Catone il Censore, e nella trasmissione del costume degli antenati, il mos maiorum, la guida da seguire. Il patto con gli dei richiedeva invocazioni preghiere e riti, sui quali Catone e Varrone ci offrono preziose notizie, confermando come la religiosità romana si manifesti soprattutto con riti celebrativi di deità terresti. Anche quando intensa divenne l’influenza etrusca e più forte ancora quella fascinosa della mitologia greca sul Pantheon romano, l’originario, severo carattere tellurocentrico della religiosità romana permeò anche le divinità trasmigrate e accolte.
In che modo il culto dei morti, i Lares, ne costituiva il fondamento?
Il culto dei morti, comune a tutte le religioni non va confuso con quello dei Lares, divinità protettrici dei luoghi domestici, ma anche dei trivii, punto di incontro delle comunità festeggiate nei Compitalia. I Lares sono i primi abitanti dei luoghi occupati dalle famiglie e vanno, quindi, considerati come veri e propri antenati – protettori, Lares familiares –. Il culto dei Lares invocati dai fratelli arvali conferma la concezione tellurocentrica della religiosità romana.
Quali caratteristiche contraddistinguevano la religiosità romana?
La ritualità è l’aspetto dominante della religiosità romana derivante dalla convinzione di doversi conciliare la divinità del luogo del convivere in pace. Ogni atto, ogni operazione umana richiede una preghiera, un tributo alla divinità per ottenere un esito favorevole. Da alcuni studiosi la religiosità romana, considerata pura ritualità, è stata definita “senza cuore”. V’è in questo giudizio una sottovalutazione del coinvolgimento psicologico del rito e della sua simbologia.
Spicca nell’antica Roma l’assenza di santuari oracolari: per quali ragioni?
Vi è difficile dare una convincente spiegazione su questa scelta di Roma antica che al contrario di altre città italiche, non consentì la presenza di un santuario oracolare. In alcuni casi si faceva ricorso alla consultazione dei libri sibillini, scrupolosamente secretati e custoditi, a santuari celebri come quello di Delfi, ma non si dette spazio ad un centro oracolare cittadino. Una spiegazione plausibile di questo orientamento può ricercarsi nella logica e nella struttura stessa della religione romana gestita da una pluralità di soggetti, privati, come il pater familias, e pubblici, come i sacerdozi specializzati, i consoli, i tribuni e, soprattutto, il Senato. Un santuario oracolare poteva diventare di ostacolo a un così diffuso esercizio di attività religiosa. Si può, in definitiva, supporre che gli antichi romani mirassero a mantenere il controllo politico della religione che un santuario oracolare avrebbe potuto minare.
Quale cura rituale investiva la vita pubblica di Roma antica?
Un grande storico greco del II secolo a.C., Polibio, giudicò i romani come il popolo più religioso della terra. Cicerone rivendicò con orgoglio la particolare religiosità romana. Uno scrittore cristiano del II-III secolo d.C., Minucio Felice, definì virtus la religiosità romana. Una spiegazione di questi giudizi non può che ricercarsi nella costante presenza religiosa e rituale nella vita dei romani, con l’ininterrotta sequenza di festività che segnavano le attività agrarie, con la molteplicità dei momenti politici e militari che richiedevano particolari procedure religiose.
Quella romana era una mentalità ordinatrice «essenzialmente geometrica», come afferma nel Suo saggio: come si esprimeva nella vita quotidiana?
Due tra le principali divinità romane che resistono all’emarginazione cultuale che colpì altre originarie divinità, sono Giano e Termino, custodi degli inizi e delle fini. È attraverso di loro che la terra, il tempo, le stagioni, il calendario, possono essere fissati e ordinati. L’originaria mentalità romana si forgiò, a mio parere, su questa primigenia intuizione dello spazio e del tempo che ho definito geometrica, e che influenzerà le scelte dei Romani dalla sistemazione delle proprietà terriere, dalla collocazione delle domus, alla concezione urbanistica dei decumani, ai tracciati delle grandi strade, alla configurazione degli schieramenti militari e, perfino, alla scrittura, e qui azzardo, della numerazione.
Quella visione lineare, geometrica, della religiosità romana insieme alla necessità di interrogare le divinità conferirono alla cultura degli antichi Romani pragmatismo, culto del verbum e grandi, flessibili capacità interpretative che si riversarono in un rigoroso sistema giuridico che è l’eredità più preziosa a noi trasmessa dalla romanità.
Gerardo Bianco, irpino, docente universitario, collaboratore dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana per l’Enciclopedia virgiliana, oraziana e per il Dizionario biografico degli Italiani con voci su argomenti agrari, concetti etici e biografie di latinisti. È autore di studi su Varrone, Sallustio, Virgilio, Orazio, Ovidio, Apuleio e di un volume su Francesco De Sanctis. È stato deputato per nove legislature, parlamentare europeo, ha ricoperto rilevanti cariche politiche e istituzionali. Numerosissimi sono i suoi scritti politici. È presidente dell’Associazione Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia – Società Magna Grecia.