
Come si articolò la resistenza operaia al nazismo?
Nell’ambito della Resistenza tedesca un ruolo cruciale fu ovviamente ricoperto da quelle forze ‘naturali’ di opposizione al regime – vale a dire anzitutto il partito socialdemocratico e il partito comunista – in grado di aggregare intorno a sé ampi consensi di massa. È risaputo che già all’indomani della Machtergreifung, Hitler scatenò una violenta campagna repressiva nei confronti delle principali organizzazioni della sinistra, cui si accompagnò una sistematica opera di denigrazione del ruolo sino ad allora ricoperto dal socialismo nella storia politica tedesca. A partire dall’estate del 1933, costretti a passare alla clandestinità, il partito socialdemocratico e quello comunista lanciarono tuttavia una vasta campagna di denuncia del nuovo regime, finalizzata a mobilitare i loro militanti. La stampa clandestina fu lo strumento fondamentale di questa prima forma di resistenza di massa: stando ai rapporti della Gestapo, è noto ad esempio che ancora nel 1936 furono distribuiti clandestinamente oltre un milione e mezzo di volantini. La resistenza di massa basata sulla stampa clandestina scontò però alcuni gravi limiti strategici. In primo luogo la pubblicazione e la distribuzione clandestina del materiale a stampa rendeva necessaria un’imponente rete organizzativa, di per sé stessa estremamente vulnerabile. In secondo luogo, a causa dell’inevitabile osservanza di severe norme cospirative, essa richiedeva un rapido successo. In seguito al consolidamento del potere di Hitler nel giugno 1934, tale prospettiva svanì in maniera definitiva. Non c’è dunque troppo da stupirsi se già due anni dopo i dirigenti socialdemocratici giunsero a riconoscere che il partito avesse ormai cessato di rappresentare in Germania un fattore politicamente decisivo. Per costoro divenne quindi indispensabile fare qualcosa di più che non mantenere semplici contatti informali, stampare e distribuire volantini, fornire assistenza alle famiglie di coloro che erano in prigione o in esilio, ascoltare Radio Mosca o la Bbc e diffonderne le notizie. Soprattutto a partire dal 1939 le organizzazioni clandestine del movimento operaio iniziarono così ad agire attraverso il sabotaggio nelle fabbriche e, come nel caso della cosiddetta ‘Orchestra rossa’ organizzata intorno ad Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack, attraverso il passaggio di informazioni riservate ai governi stranieri. Soprattutto quest’ultimo tipo di azione richiedeva tuttavia che i gruppi di resistenza occupassero posizioni di potere nevralgiche. Ciò ci riporta direttamente al gruppo di socialdemocratici che, sotto la guida di Julius Leber, si unì alla cospirazione sfociata nell’attentato del 20 luglio 1944. Come ricordato, alla fine degli anni Trenta, il gruppo guidato da Leber era giunto alla conclusione che sino ad allora la strategia politica perseguita dalla socialdemocrazia fosse stata del tutto inadeguata e che essa, in assenza di particolari condizioni propizie, non sarebbe stata assolutamente in grado, di propria iniziativa, di attuare forme di resistenza al regime tali da rendere concreta l’ipotesi di un suo abbattimento. Sulla base di tale consapevolezza costoro giunsero quindi a ritenere necessaria la costruzione di un’alleanza con la sola porzione di classe dirigente, vale a dire gli alti comandi dell’esercito tedesco delusi dall’andamento della guerra, tecnicamente in grado di fare qualcosa e di garantire al contempo il controllo della situazione.
Quali iniziative di resistenza disarmata si svilupparono in seno alla comunità ebraica?
La riflessione di Manuela Pacillo sulle forme di ‘resistenza disarmata’ in seno alla comunità ebraica prende avvio dal risame della storia del ghetto di Varsavia, che fu teatro di differenti forme di resistenza. Tra queste, l’autrice del saggio ne prende in esame una in particolare, quella rappresentata dalla scrittura diaristica. Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944) di Mary Berg rappresenta un caso emblematico, non solo e non tanto per come in esso è descritta la vita interna al ghetto sino al momento della rivolta del 1943, ma soprattutto per come al suo interno l’atto dello scrivere finisce per farsi esso stesso ‘atto di resistenza’. Attraverso il suo diario, infatti, la giovane autrice decise consapevolmente di non lasciarsi sottomettere dagli eventi, ma di opporvisi. Non fu l’unica, però, a compiere tale scelta. Nello stesso spazio e nello stesso tempo di segregazione, anche Emmanuel Ringelblum, nella sua veste di storico, comprese che le vicende alle quali stava assistendo in prima persona non potevano non essere documentate. Nell’ottobre del 1939, egli diede quindi vita all’Oneg Shabbat, un archivio segreto tramite cui egli si propose di documentare la segregazione e la deportazione degli ebrei. Altro esempio di ‘resistenza disarmata’ preso in considerazione è poi quello rappresentato da Salmen Gradowski, autore di Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944. Quella di Gradowski è sì una forma di resistenza, resa tuttavia attraverso una prospettiva unica. Rispetto al diario di Mary Berg, quello di Salmen Gradowski costringe l’attenzione del lettore contemporaneo a spostarsi all’interno di un altro ‘spazio segregazionario’, che non è più rappresentato dal ghetto, bensì dal Vernichtungslager di Auschwitz II. La realtà del mondo esterno, che qui assume tratti autenticamente infernali, non è più raccontata, attraverso il ‘filtro’ dei vetri di una finestra, ma attraverso l’esperienza diretta di un membro di quei Sonderkommandos, reclutati in maniera coatta tra gli stessi deportati e incaricati di collaborare con le SS al processo di sterminio. Per tale ragione, nel caso di Salmen Gradowski la scrittura del diario, oltre a configurarsi come atto di ‘resistenza disarmata’, finisce per farsi anche strumento salvifico di redenzione.
Quale resistenza opposero al nazismo le Chiese tedesche?
Rispondere a questa domanda è estremamente difficile. Cerchiamo di dare due livelli di lettura. Il primo: l’idea di resistenza che noi abbiamo è molto diversa dal significato che a tale parola davano i membri delle chiese tedesche del tempo, cattolica o riformate che fossero. In alcuni casi essa prese forma di resistenza morale o diplomatica, in rarissimi casi politica, quasi sempre limitata all’interno del proprio gruppo confessionale. Il secondo: per una serie di ragioni storiche ed ecclesiali, le chiese protestanti dimostrarono un maggior grado di accomodamento con il nazismo; eppure espressero, pur minoritarie, posizioni come quella della Bekennende Kirche, della chiesa confessante, indisponibili a mischiare Vangelo e razzismo. Da qui, un pastore come Dietrich Bonhoeffer, che andò ben oltre, portando alle estreme conseguenze politiche quella scelta e pagando con la propria vita. Anche la chiesa cattolica, pur più impermeabile alla penetrazione ideologica nazista, dovette fare i conti con innumerevoli compromettenti silenzi, fiancheggiamenti e talora perfino con vere e proprie complicità. E cercò per sé vie di sopravvivenza che in realtà si rivelarono strettoie, che non le risparmiarono la repressione. L’enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI, pubblicata nel 1937, rappresenta senza dubbio il punto più alto della denuncia da parte cattolica nei confronti del regime nazionalsocialista. Qua e là pubblicamente anticipata, o ripresa, da singoli vescovi, come nel noto caso di von Galen.
Quale partecipazione vi fu da parte di partigiani tedeschi alla Resistenza italiana?
I soldati che, dopo aver disertato, entrarono a far parte delle formazioni partigiane furono senza dubbio una ristretta minoranza all’interno del numero totale di coloro che disertarono. Le ragioni che spiegano la relativa marginalità di tale fenomeno sono facilmente comprensibili e rimandano a una sorta di calcolo dei rischi. Aggregarsi alle formazioni partigiane rappresentava infatti un rischio di gran lunga maggiore rispetto al consegnarsi volontariamente agli Alleati, caduti nelle mani dei quali si poteva contare sulla quasi certezza di un trattamento in linea con quanto prescritto dalle convenzioni internazionali. Entrare nelle formazioni partigiane poteva inoltre esporre al pericolo di morte, qualora si fosse stati ricatturati da parte delle forze tedesche. Oltre a ciò va poi tenuto conto anche della forte ritrosia delle formazioni partigiane ad accogliere al proprio interno ex militari tedeschi: ciò si spiega in relazione alla necessità di queste ultime di tutelarsi di fronte a possibili spie, le quali, spacciandosi per disertori, avrebbero potuto raccogliere informazioni utili. Erano dunque soprattutto fattori ideologici a motivare nei disertori della Wehrmacht la decisione di prendere contatto con i partigiani. Il fenomeno del passaggio di ex militari tedeschi tra le file delle formazioni partigiani fu tuttavia destinato a rafforzarsi nelle fasi conclusive del conflitto. Ciò avvenne soprattutto a causa di due fattori: da un lato, l’aumento generale del numero di disertori tra le forze armate tedesche; dall’altro il numero crescente di coloro che confluirono all’interno delle formazioni partigiane. In molti casi, per meglio gestire l’aumento dei propri effettivi, queste ultime si organizzarono al fine di favorire il passaggio del fronte a quei soldati della Wehrmacht che non intendevano più continuare a combattere, neutralizzandone così il potenziale offensivo, ma senza per questo integrarli all’interno dei propri corpi.
Quale grado di adesione al regime esprimeva la società tedesca?
Anche in questo caso si tratta di una domanda alla quale non è possibile dare una risposta certa. Il dato fondamentale di cui tener conto e dal quale è indispensabile partire è che nelle elezioni del 6 novembre 1932 e del 5 marzo 1933 la Nsdap si assicurò prima il 33,1%, poi il 43,9% dei suffragi. Si tratta ovviamente di un risultato elettorale senz’altro rilevante, il cui valore assoluto richiede tuttavia di essere ridimensionato, specie se si tiene presente che, a dispetto del clima di terrore generalizzato instaurato dai nazisti a partire dai primi anni Trenta e all’indomani della primavera del 1933 in particolare, i partiti d’opposizione continuarono complessivamente a godere del 41,8% dei consensi (Spd 18,3%, Kpd 12,3% e Zentrum 11,2%). Volendo quindi fare un calcolo molto approssimativo, è possibile affermare che, al momento della sua instaurazione, il regime poté contare su circa la metà dei suffragi. Con ciò possiamo, per via indiretta, farci una prima idea in relazione al potenziale oppositivo di quell’ampia – ancorché concentrata soprattutto nei grandi centri urbane (Berlino e Amburgo) e nelle regioni a maggiore vocazione industriale (Renania) – area di dissidenza politica contro cui Hitler non avrebbe di lì a poco esitato a scatenare una violenta repressione. Sia pure in assenza di dati certi che ci permettano di misurare il livello di consenso goduto dal regime nel periodo successivo al 1933, sappiamo tuttavia che esso aumentò progressivamente, pur andando incontro ad alcune vistose fluttuazioni. Largamente ben disposta verso il regime sino al 1938, in coincidenza della crisi dei Sudeti prima e della Kristallnacht poi l’opinione pubblica tedesca manifestò un crescente grado di dissenso man mano che ci si avvicinò alla guerra, per poi riallinearsi al momento del suo scoppio vero e proprio. Diversamente da quanto avvenne in Italia, il conflitto fu infatti interpretato dalla maggioranza dei tedeschi nei termini di un ‘riscatto nazionale’, il cui buon esito avrebbe comportato il ripristino della Germania al rango di ‘grande potenza’. Non può dunque sorprendere se, specie tra 1939 e 1942, gli iniziali successi delle forze armate tedesche abbiano contribuito a consolidare il consenso goduto dal regime anche tra le fasce popolari sino ad allora omologatesi solo superficialmente. Per quanto singolare possa sembrare, neppure all’indomani dell’estate del 1944, il grado di consenso goduto dalla classe dirigente nazista subì flessioni tali da compromettere la tenuta del regime, soprattutto perché percezione diffusa continuò a essere che la vera e propria minaccia fosse costituita non da quest’ultimo, ma dalle massicce incursioni aeree alleate e soprattutto dall’invasione sovietica.
In che modo il mito della “sofferenza tedesca” costituisce un mito fondante della Germania riunificata?
A tale domanda non è possibile rispondere in maniera univoca. L’approccio più convenzionale è quello suggerito da Aleida Assmann, secondo la quale il tema della sofferenza tedesca potrebbe essere accolta favorevolmente quale narrazione che abbraccia l’esperienza della Germania occidentale e orientale, presentandosi come un importante collante emotivo in contrapposizione con le tante storie di separazione protrattesi nel tempo. A suo avviso, infatti, attingendo a questo bagaglio di esperienze comuni diviene, diviene possibile mettere in risalto il profondo legame tra i due stati tedeschi al di là di tutte le differenze e le frontiere politiche. Detto in altri termini la storia delle vittime tedesche assurge così un nuovo mito nazionale che collega Est e Ovest. Assmann ha così descritto un processo di per sé spontaneo, che è stato favorito dalla riunificazione delle due Germanie, e che, non escludendo una possibile deriva verso un’implicita legittimazione del mito nazista, potrebbe tuttavia rivelarsi potenzialmente pericoloso. L’idea alla base del saggio di Gerhard Friedrich consiste invece nel proposito di coniugare il ricordo empatico delle sofferenze con una esplicita presa di posizione etica che escluda a priori qualsiasi forma di ‘revisionismo’. In questo senso la sola sofferenza ‘eticamente ammessa’ come mito fondante sarebbe quella causata da una specie di autolesionismo collettivo, prodotto dalla denuncia dell’eticamente negativo assoluto rappresentato dal nazismo. In questa logica il ricordo della ‘sofferenza tedesca’ viene quindi a legarsi indissolubilmente all’appello del ‘mai più’. ‘Mai più Auschwitz, mai più guerra’. Per questa via, il sentimento di cordoglio nei confronti della sofferenza tedesca entrerebbe a far parte di un nuovo mito negativo, che con quello tradizionale avrebbe in comune solo l’atemporalità del ‘mai più’.
Federico Trocini, già borsista dell’Istituto italo-germanico di Trento (Fondazione Bruno Kessler) e assegnista di ricerca dell’Università di Torino, collabora con l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini. Tra le sue pubblicazioni: Tra internazionalismo e nazionalismo. Robert Michels e i dilemmi del socialismo di fronte alla guerra e all’imperialismo (2007); L’invenzione della Realpolitik e la scoperta della legge del potere. A. L. von Rochau tra radicalismo e nazionalliberalismo (2009) e Robert Michels e la Prima Guerra Mondiale. Lettere e documenti (1913-1921) (2018)