“Sviluppo economico e violenza politica. Una visione schumpeteriana” di Emanuele Castelli

Prof. Emanuele Castelli, Lei è autore del libro Sviluppo economico e violenza politica. Una visione schumpeteriana, edito da Vita e Pensiero: che rapporto esiste tra modernità e vio­lenza politica?
Sviluppo economico e violenza politica. Una visione schumpeteriana, Emanuele CastelliQuello tra sviluppo economico e violenza politica è un rapporto ambivalente. Da un lato, lo sviluppo può aumentare la propensione degli Stati a fare la guerra: gli Stati ricchi hanno, di solito, eserciti altamente addestrati, armi tecnologicamente avanzate e strutture della difesa efficienti, hanno cioè una maggiore capacità di acquisire e proiettare potere militare. Si pensi ai due conflitti mondiali, che hanno coinvolto Stati che al tempo erano sicuramente tra i più ricchi e moderni del mondo. Tuttavia, nel lungo periodo, lo sviluppo economico può anche generare tendenze pacificanti nella popolazione, perché produce una maggiore soddisfazione per lo status quo, minori incentivi alla protesta e dunque una diversa attitudine verso il conflitto. La Cina rimane una dittatura che, a livello interno, costringe la propria popolazione all’obbedienza, ma è un dato di fatto che, a livello internazionale, sia diventata molto più propensa alla risoluzione pacifica dei conflitti da quando, negli ultimi vent’anni, ha intrapreso la strada della modernizzazione economica. Se guardiamo ai dati empirici, che ho discusso negli ultimi due capitoli del volume, questo rapporto ambivalente emerge con chiarezza: lo sviluppo economico di uno Stato genera inizialmente instabilità e maggiore propensione al conflitto; se il processo non subisce interruzioni, tuttavia, le sue conseguenze nel tempo sono estremamente pacificanti, sia sul piano interno che a livello internazionale. In altre parole, gli Stati moderni non hanno solo una minore probabilità di assistere allo scoppio di una guerra civile, ma tendono anche a mantenere relazioni pacifiche con gli altri Stati.

Quale modello in­terpretativo propone il Suo libro?
È un modello piuttosto semplice, che ho tratto dalla letteratura istituzionalista della scienza politica e della storia economica. Mi riferisco a giganti come Mancur Olson, Douglass North (premio Nobel per l’Economia) ma anche, più recentemente, ai contributi di Daron Acemoglu e James Robinson sulla ricchezza (o sulla povertà) delle Nazioni. In sostanza, il volume ha l’ambizione di spiegare, attraverso questo semplice modello basato su incentivi e interessi delle élites, perché e quando avviene lo sviluppo economico degli Stati, nonché cosa questo comporti sulla propensione all’utilizzo della violenza politica da parte dei paesi sviluppati. La questione centrale è relativa a quella che Schumpeter riteneva fosse la forza motrice dello sviluppo, cioè l’innovazione tecnologica. A livello interno, uno Stato sarà in grado di adottare una nuova tecnologia solo se questo non comporta conseguenze negative per le élites al governo. Questo significa che, se i benefici per le élites politiche (soprattutto in termini fiscali) superano i costi attesi (perdita di potere, instabilità interna), allora queste avranno l’incentivo al cambiamento istituzionale; in caso contrario, se cioè l’adozione di una nuova tecnologia è ritenuta destabilizzante per gli equilibri politici interni, l’opportunità di sviluppo non sarà colta. L’Impero ottomano, ad esempio, si è opposto per almeno tre secoli all’introduzione della stampa a caratteri mobili per proteggere il lavoro dei religiosi amanuensi ed evitare l’ingresso delle conoscenze occidentali, e questo ha ovviamente ritardato il suo sviluppo. Sul piano internazionale, l’emergere di una grande innovazione (come è stato il motore a scoppio, l’aviazione o, più recentemente, le tecnologie legate al digitale) conferisce alla nazione che per prima riesce a sfruttarla una posizione di primazia a livello mondiale. Inoltre, lo Stato egemone ha tutti gli incentivi a creare un ordine liberale, cioè ad aprire il sistema agli scambi commerciali. Con il tempo, però, l’apertura del sistema contribuisce alla diffusione dell’innovazione agli altri Stati che partecipano all’ordine creato dal leader e questo comporta una altrettanto inevitabile riduzione dei costi legati a quella tecnologia; l’iniziale posizione di vantaggio del vecchio egemone si erode e, contestualmente, si profila all’orizzonte un potenziale sfidante (cioè chi, per imitazione, ha saputo meglio sfruttare la tecnologia introdotta dall’egemone, non pagandone i costi iniziali); questo genera le condizioni per la fine del vecchio ciclo e l’inizio del successivo. Il processo di modernizzazione economica, insomma, ha determinanti interne e internazionali.

Di quale utilità è, a riguardo, il concetto di “distruzione creatrice” introdotto da Schumpeter?
Il concetto di distruzione creatrice è fondamentale per la tenuta del modello che propongo nel mio volume. Si tratta di un processo connaturato, per Schumpeter, ad ogni grande innovazione, che è, da una parte, distruttiva (porta cioè alla scomparsa delle vecchie tecnologie, e quindi dei vecchi beni di consumo, dei vecchi mercati e delle vecchie forme di organizzazione del lavoro) e, dall’altra, creatrice (di nuovi beni, nuovi mercati e nuove forme di organizzazione lavoro). Ogni grande innovazione produce distruzione creatrice: questo è avvenuto nel campo della comunicazione (dal telegrafo al telefono, dal fax all’email), del trasporto (dalle carrozze al treno, fino agli aerei) e dell’energia (dagli idrocarburi – che ancora oggi utilizziamo – alle energie rinnovabili, che auspicabilmente utilizzeremo in futuro). Si pensi ai supporti che abbiamo utilizzato per ascoltare la musica: i dischi in vinile (ormai roba da mercatini vintage) sono stati progressivamente sostituiti dalle audiocassette e queste sono state completamente eliminate dal mercato con l’introduzione dei compact disc, che oggi quasi più nessuno usa per ascoltare musica che si può scaricare agevolmente da internet; stesso discorso vale per i televisori a tubo catodico, ormai desueti, a cui sono subentrati gli schermi piatti, a led e al plasma. Le nuove tecnologie rimpiazzano inevitabilmente quelle vecchie, creando nuove opportunità per chi la adotta e, allo stesso tempo, facendo scomparire dal mercato chi non riesce a adeguarsi. L’innovazione tecnologica è sempre destabilizzante, perché produce vincenti e perdenti: si pensi ai luddisti (rappresentati nell’immagine di copertina del volume), che reagirono con violenza – demolendo materialmente le prime macchine industriali – perché i primi tentativi di automazione mettevano a rischio il loro lavoro.

Che ruolo svolge l’innovazione tecnologica nella produzione dei settori-guida dell’economia?
La nozione di settore-guida (leading sector) è stata proposta, oltre che da Schumpeter, anche da Simon Kuznets e Walt Rostow nella loro riflessione sui cicli economici. I leading sectors sono i settori che trainano l’economia e che derivano, appunto, dalle grandi innovazioni. Una volta emersi, questi settori permettono a chi vi investe di conseguire alti tassi di rendimento, almeno per un certo periodo. Schumpeter stesso – che non credeva nella reale applicabilità della libera concorrenza – definiva questo periodo di alti profitti come capitalismo trustificato: poche imprese che dominano la scena mondiale, guadagnando enormemente. L’ipotesi dei “settori-guida” (che è stata ripresa in un testo di George Modelski e William Thompson di una ventina di anni fa), viene proposta nel mio volume come più plausibile delle altre per spiegare l’andamento ciclico dello sviluppo. Quando, con una grande innovazione, emerge un settore-guida dell’economia, la domanda di investimenti per quel settore diventa più ampia e questo attrae capitali. Il nuovo settore richiede, inoltre, una serie di infrastrutture (come sono state le autostrade per i veicoli, le ferrovie e le stazioni per i treni, le reti informatiche per il digitale) che sono indispensabili per il suo sfruttamento. Come sosteneva Schumpeter, questi settori secondari vanno in qualche modo al traino del settore principale e questo moltiplica le opportunità di investimento. Il risultato è, appunto, lo sviluppo economico.

Per quali ragioni è possibile affermare che lo sviluppo eco­nomico può produrre effetti pacificanti sulla politica estera degli Stati e diminuire il rischio di guerre civili?
Esistono motivazioni diverse, ma simili, per i conflitti civili e per le guerre tra Stati. Da una parte, lo sviluppo economico incide sia sul costo-opportunità della ribellione (una persona più ricca difficilmente abbandonerà il proprio patrimonio per unirsi a un gruppo di rivoltosi), sia sulla capacità militare, economica e istituzionale degli Stati più sviluppati (che sapranno offrire di più ai propri cittadini e mantenere meglio l’ordine pubblico). I dati evidenziano, tuttavia, che la relazione tra sviluppo e probabilità di guerra civile sembra essere, come si dice nella statistica, non-monotonica: a bassi livelli di sviluppo, il rischio di guerra civile è basso, è destinato ad aumentare nelle prime fasi della transizione per poi calare drasticamente nel lungo periodo. Dall’altra parte, lo sviluppo economico produce un impatto anche sul comportamento esterno degli Stati, rendendo la conquista meno appetibile. La modernizzazione economica di uno Stato genera infatti un dilemma (quello che in economia si chiama “trade-off”) tra investimento nell’innovazione e guerra: tanto più voglio investire nella crescita, tanto meno sono propenso a dilapidare le mie risorse in inutili avventure militari. Gli Stati non sviluppati (nel senso di Schumpeter) non incorrono in questo trade-off: è il caso della Russia di oggi, che trae la sua ricchezza quasi unicamente dallo sfruttamento delle risorse naturali e non già dall’investimento in innovazione. Gli stati moderni tendono, al contrario, ad essere più pacifici perché possono guadagnare di più investendo nelle loro economie che invadendo altri paesi. Queste conclusioni – che tengono anche se si controlla statisticamente per il periodo dei due conflitti mondiali – spiegano peraltro perché la guerra sia diventata un fenomeno così raro rispetto al passato (e perché, oggi, siamo tutti così indignati dall’invasione russa dell’Ucraina).

Come detto, la prospettiva offerta nel presente volume si focalizza unicamente su interessi e incentivi delle élites per dare conto della transizione alla modernità: questo è, del resto, l’approccio che Schumpeter ha adottato nelle sue riflessioni sullo sviluppo, sui cicli economici e sul capitalismo. Tuttavia, Schumpeter aveva anche intuito che il processo di sviluppo comporta un cambiamento più ampio, che cioè si estende nel tempo anche alle masse, producendo gradualmente un impatto anche a livello socio-culturale. Da questo punto di vista, la spiegazione del volume è in qualche modo legata al processo di civilizzazione reso celebre dall’opera di Norbert Elias (1969) e più recentemente riproposto da Steven Pinker (2011) come fattore concausante il declino della violenza: lo sviluppo economico che negli ultimi trent’anni ha investito certe regioni del globo (come l’Asia orientale) avrebbe contribuito a pacificarle, sia sul versante interno (meno rischi di guerre civili) che su quello esterno (meno propensione ad utilizzare la forza contro altri Stati) e questo sarebbe dovuto tanto al cambiamento istituzionale operato dalle élites, quanto alle trasformazioni culturali prodotte dallo sviluppo economico.

Emanuele Castelli è Professore Associato di Scienza Politica all’Università di Parma, dove insegna Scienza Politica e International Politics. Negli ultimi 15 anni ha preso parte a progetti di ricerca nazionali e internazionali, pubblicando monografie, saggi e articoli scientifici in diverse riviste internazionali. Nel triennio 2019-22 è stato coordinatore di un modulo Jean Monnet sul concetto di pace (B4Peace), istituito grazie al supporto della Commissione Europea.

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