“Sullo Zibaldone e altro. Lingua e linguistica di Leopardi” di Alessio Ricci

Prof. Alessio Ricci, Lei è autore del libro Sullo Zibaldone e altro. Lingua e linguistica di Leopardi edito da Aracne: cosa rivela l’analisi della sintassi e della testualità dello “scartafaccio”?
Sullo Zibaldone e altro. Lingua e linguistica di Leopardi, Alessio RicciCome dicevano grandi studiosi come Sergio Solmi e Gianfranco Contini, lo Zibaldone di Pensieri è un esemplare unico della nostra letteratura, e non solo della nostra letteratura. Credo che lo studio della sintassi e della testualità possa far emergere abbastanza bene questa unicità.

Per prima cosa la sintassi e la testualità variano molto a seconda della tipologia del singolo pensiero: lo Zibaldone non è un diario come lo intendiamo noi, ovvero un diario intimo (o diario di un’anima); è invece un «immenso volume» manoscritto (4526 pagine) che ospita riflessioni ‒ «pensieri», appunto ‒ perlopiù di carattere filosofico, antropologico, linguistico e letterario. Non è quindi un testo, ma un insieme di migliaia di microtesti che si susseguono nel corso del tempo. Va da sé che la configurazione sintattico-testuale può variare moltissimo, di volta in volta, a seconda del tipo di pensiero: per esempio, un appunto di poche righe scritto di getto su un verbo latino avrà caratteristiche ben diverse rispetto a quelle di un vero e proprio saggio di decine di pagine sul tema della felicità.

Occorre poi ricordare che lo Zibaldone è un testo privato, un testo non destinato a essere reso pubblico (semmai esso contiene germogli, progetti o abbozzi di opere future da dare alle stampe, non sempre realizzate): è un testo scritto «a penna corrente» (traduzione del latino currenti calamo), espressione che ricorre due volte nello scartafaccio (come lo chiamava Leopardi) e ci dice come le pagine dello Zibaldone non solo non abbiano ricevuto quella cura e quelle attenzioni formali e stilistiche naturali per uno scrittore come Leopardi, ma anzi spesso sembrino il frutto di una scrittura immediata, di getto. È senz’altro vero che ci sono alcune annotazioni che si presentano come belle copie, trascrizioni cioè da brutte copie o almeno da abbozzi o scalette precedenti: si tratta di veri e propri saggi, talvolta di alcune decine di pagine, con suddivisioni in capitoli e paragrafi, citazioni testuali e pochissimi interventi correttorii. Ma nella maggioranza dei casi le annotazioni leopardiane presentano quelle tipiche spie linguistiche di un testo scritto di getto, ovvero senza minute, e talora anche senza rilettura. Facciamo un esempio. Alla pagina 893 del manoscritto, in un lungo pensiero sull’«amor proprio dell’uomo», si legge (fra parentesi quadre metto le cancellature, fra parentesi aguzze le sostituzioni o aggiunte):

«Ora se questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l’uomo non lo può cercare. Se è il bene di pochi, l’uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca grandezza. Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così che [son] <è> rar[e]<a> e difficile; giacchè siamo da capo, mancando <allora> o essendo poco efficace lo sprone che muove l’uomo ad abbracciar[la,] <la virtù,> cioè il ben proprio» (corsivi miei).

In queste poche righe Leopardi ha apportato due correzioni significative. Per prima cosa ha cancellato la forma son e la e finale di rare ‒ e lo ha fatto immediatamente, cioè prima di terminare la frase ‒ sostituendole con è e –a (rara), perché si è reso conto che il plurale son rare non si accordava con il soggetto e tema del discorso (il femminile singolare la virtù): molto probabilmente l’errore nella concordanza del numero è stato determinato dall’influenza del femminile plurale del vicino queste stesse ragioni e dalla serie di nomi femminili (estensione, influenza, utilità, grandezza) alla fine del periodo precedente. In secondo luogo lo scrittore ha cancellato ‒ in questo caso dopo aver riletto ciò che aveva scritto ‒ il pronome enclitico –la di abbracciarla sostituendolo con il sintagma la virtù aggiunto nell’interlinea: evidentemente gli sembrava che il pronome fosse troppo lontano nel testo dall’elemento a cui si riferisce (la virtù) e quindi ha preferito, per maggiore chiarezza, ripetere l’antecedente. Ora, è evidente che correzioni di questo tenore non possono essere compatibili con una bella copia. E nello Zibaldone fenomeni come questi sono molto frequenti, che si tratti di sconcordanze sintattiche (come «la virtù […] son rare»), di riferimenti poco trasparenti all’interno del testo (come «abbracciarla» > «abbracciar la virtù»), di anacoluti, di strutture del periodo claudicanti, ecc. In alcuni casi Leopardi si accorge che in ciò che ha scritto c’è qualcosa che non va (o durante la scrittura o in séguito a rilettura, anche a distanza di giorni, mesi o anni) e interviene con correzioni di vario genere, proprio come nell’esempio appena ricordato. Altre volte, e più spesso, queste tipiche manifestazioni di una scrittura privata e «a penna corrente» rimangono lì, fra le pagine e i pensieri dell’«immenso volume manoscritto».

Quale evoluzione evidenziano le varianti leopardiane dello Zibaldone e come si manifesta l’attività di editing del Recanatese nelle sue altre opere in prosa?
Lo Zibaldone è un testo di grande interesse per diverse ragioni. Una ragione è che questo diario intellettuale, avendo accompagnato Leopardi per quasi 16 dei suoi 39 anni di vita (dal 1817 al 1832), ci permette d’intravvedere come è cambiata la scrittura dell’autore nel corso del tempo.

Può essere interessante, ad esempio, indagare come e quando mutano alcuni tratti fonomorfologici della lingua dello Zibaldone. La premessa è che dobbiamo tener conto del fatto che l’italiano di primo Ottocento possedeva molti doppioni (e talora anche più di due varianti con lo stesso significato) che oggi non esistono più o sono rarissimi. Alcuni esempi di questi doppioni (che i linguisti chiamano allòtropi) possono essere vedo e veggo (o veggio), io avevo e io aveva, nessuno e niuno; ma ce ne sono tanti altri. Come si comporta Leopardi nello Zibaldone? È possibile rilevare una tendenza abbastanza evidente: a partire dai primi mesi del 1821, la scrittura leopardiana comincia a optare sempre più decisamente – poniamo – per le forme veggo rispetto a vedo, dee rispetto a deve, niuno rispetto a nessuno, sieno rispetto a siano, menomo rispetto a minimo, vi e vè rispetto a ci e cè; e più tardi, dalla seconda metà del 1823, accanto al pronome personale soggetto egli, ovviamente maggioritario, diviene frequente anche il poetico ei o e’. Questi mutamenti linguistici ci mostrano una tendenza a sostituire o ridurre forme dell’italiano che parliamo e scriviamo ancora oggi (presenti e talvolta anche nettamente maggioritarie nelle pagine zibaldoniane del periodo 1817-1820) con forme che Leopardi usava di preferenza nelle opere letterarie, anche in versi, e che nel corso dell’Ottocento, più o meno lentamente, perderanno terreno (e molte – come veggo, niuno, sieno, ecc. – finiranno per scomparire nel corso del secolo successivo).

Non deve poi stupire che i cambiamenti appena ricordati si siano concentrati nel ’21 e, in misura minore, nel ’23, dal momento che oltre i due terzi dello scartafaccio furono scritti durante questi due anni (rispettivamente 1855 e 1345 pagine): è come se l’assidua frequentazione dello Zibaldone, in specie nel 1821, sia stata per il classicista Leopardi, fra le altre cose, una specie di palestra di scrittura, che ha dato come risultato una serie di scelte linguistiche di stampo tradizionalista. Manzoni, quasi negli stessi anni, faceva esattamente il contrario: nell’edizione definitiva dei Promessi Sposi opterà quasi sempre per la forma che (grazie anche al suo esempio) avrà la meglio nella storia dell’italiano.

Per quanto riguarda le altre opere in prosa leopardiane, sono da segnalare soprattutto i Pensieri e l’epistolario. Nei tardi Pensieri alcune delle forme letterarie di cui abbiamo appena parlato sembrano regredire sensibilmente: così, per esempio, nessuno e minimo tornano ad avere la meglio su niuno e menomo. L’epistolario presenta una fisionomia linguistica meno rigida e controllata ovvero più moderna a confronto con quella dello Zibaldone e delle altre opere prosastiche. Un solo esempio: Leopardi, da buon classicista, usa quasi solo (sia in prosa sia in poesia) la forma in –a della prima persona dell’imperfetto (io era, io aveva, io faceva, ecc.), mentre in pochissimi casi, 47 in tutto, impiega la forma in –o. Ebbene: 40 di questi casi sono nelle lettere e ben 32 in quelle ai familiari, soprattutto al padre, alla sorella Paolina e al fratello Carlo, con i quali poteva evidentemente permettersi di usare, anche nello scritto, forme che verosimilmente usava quando parlava.

Quali forme e quali funzioni assume la correctio leopardiana?
Partiamo dalla constatazione che la scrittura dello Zibaldone è il riflesso di quello che Solmi ha definito «un pensiero in movimento». Il pensiero leopardiano è pervaso da una tensione costante che lo porta a tornare incessantemente sui suoi passi: il che si può osservare particolarmente bene proprio in un testo aperto realizzato nell’arco di oltre 15 anni qual è lo Zibaldone. Riprendere una questione precedentemente affrontata significava per Leopardi riconsiderarla da un diverso punto di osservazione, integrarla con ulteriori dati e argomentazioni (spesso provenienti da nuove letture), talvolta correggerla in alcuni punti particolari o addirittura in modo sostanziale.

Ora, dal punto di vista linguistico, una delle manifestazioni più tipiche di una scrittura argomentativa che riflette un pensiero costantemente in movimento e in tensione è senz’altro quella della correctio: intendendo con questo termine un insieme di risorse della lingua cui Leopardi può attingere nel momento in cui riprende il già scritto – talora nell’atto stesso della scrittura, talaltra a distanza di tempo – per sviscerarlo, puntualizzarlo, integrarlo, emendarlo. Anche le strutture sintattiche possono contribuire al raggiungimento di questi obiettivi: ad esempio, le frasi concessive e le frasi incidentali (soprattutto quelle fra parentesi). Tra le risorse lessicali, spicca in particolare l’uso di anzi. Che questa sia una delle parole chiave della correctio nello Zibaldone lo dimostrano non solo la sua frequenza assoluta (viene usata per oltre 1200 volte!) ma anche e soprattutto la ricorrenza con cui questa forma introduce un mutamento, un aggiustamento, un supplemento all’argomentazione nel margine o nell’interlinea della pagina, cioè in un momento successivo alla stesura originaria di un’annotazione.

Nello Zibaldone sono anche frequenti – e non dovrà stupire, dato il carattere in larga prevalenza argomentativo dello scartafaccio – i passaggi nei quali un assunto, una dimostrazione o una conclusione necessitano di una qualche forma di attenuazione o mitigazione. Possiamo dire che la parola chiave della mitigatio leopardiana è certamente almeno, che ricorre circa 200 volte e in 76 occasioni è preceduta da o (sono invece molto più rare altre forme, come (o) per lo meno, (o) se non altro, ecc.). Ma forse la risorsa linguistica alla quale Leopardi attinge più spesso per attenuare e, a un tempo, precisare i propri pensieri sono le correctiones metalinguistiche: per così dire, per dire così, si può dire, dirò così / quasi, possiamo dire, diremo, diciamo così, per modo di dire e altre sono forme di mitigazione del discorso abbondantemente disseminate nello Zibaldone.

Infine, succede molto spesso che Leopardi, nel corso della scrittura ovvero in un momento successivo, intervenga per precisare, spiegare meglio e, insomma, determinare con maggiore esattezza il contenuto di un’affermazione, un’osservazione, un’argomentazione. Uno dei meccanismi più sfruttati per raggiungere una migliore messa a fuoco del discorso consiste nel riprenderne una parola chiave, cioè pregnante dal punto di vista del significato; riprenderla per delimitarne meglio i contorni del senso, attraverso le più svariate forme di condizionamento e puntualizzazione. Ecco un esempio:

«Niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede p. esperienza che hanno o piuttosto mostrano di avere a proporzione molta più forza de’ loro contrari), non usa, nè anche ne’ maggiori bisogni, ne’ maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione» (corsivo mio).

Si tratta, in questo caso, di una correctio («o piuttosto mostrano di avere») aggiunta, nell’interlinea, dopo aver riletto il testo. Ma la fattispecie più ricorrente (vera e propria marca di riconoscimento leopardiana) è quando la puntualizzazione viene accompagnata dall’intoduttore metalinguistico dico, che conferisce all’argomentazione dei pensieri quel piglio discorsivo tipicamente zibaldoniano:

«Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all’uomo. Dico può perire, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo, ed ella non può perire come la materia. Dico può perire, perchè non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all’uomo) una tal morte, che una tale esistenza» (corsivo mio).

Quali corrispondenze è possibile riscontrare tra il pensiero leopardiano sul linguaggio e sulle lingue e quello del linguista Melchiorre Cesarotti?
Probabilmente Leopardi non lesse mai, pur avendolo a disposizione nella ricca biblioteca di famiglia, il più importante testo di linguistica del nostro Settecento, e cioè il Saggio sulla filosofia delle lingue (uscito per la prima volta nel 1785) del padovano Melchiorre Cesarotti. Tuttavia molte idee che Cesarotti esprime nel Saggio avevano una larga circolazione nel dibattito linguistico in Italia e in Europa nella prima metà dell’Ottocento: sicché in molti casi alcune somiglianze fra le riflessioni sulle lingue e sul linguaggio del Saggio cesarottiano e quelle – numerosissime e notevolissime – dello Zibaldone leopardiano sono in realtà somiglianze apparenti; apparenti nel senso che più che a Cesarotti, Leopardi sembra guardare ad altri modelli, come la Logique di Port-Royal, Cesare Beccaria, Vincenzo Monti eccetera.

Vediamo un paio di esempi riguardo al diverso approccio al linguaggio e alle lingue da parte di Cesarotti e Leopardi. Un primo aspetto è costituito dalla differente attenzione che i due linguisti rivolgono alla lingua intesa essenzialmente come strumento primario di comunicazione fra gli uomini; strumento che deve possedere, fra i principali e imprescindibili requisiti, quello dell’efficacia e della facilità di apprendimento. Questi temi della riflessione linguistica, certo settecenteschi e illuministi, trovano ampio spazio nel Saggio di Cesarotti: per esempio, il trattato si apre all’insegna della lingua parlata, che sarà al centro, più specificamente, del terzo paragrafo, nel quale oralità e scrittura vengono esaminate contrastivamente per farne emergere le rispettive peculiarità, e quindi la priorità (anche altrove ribadita) della prima sulla seconda. È proprio qui che si possono leggere interessanti e moderni spunti sulla lingua parlata, e segnatamente sulla rilevanza semiotica dei gesti e dell’insieme delle circostanze in cui si realizza un atto comunicativo (contesto e conoscenze condivise) per garantire l’efficacia della comunicazione. Leopardi, viceversa, non è interessato a questioni relative alla variabilità parlato/scritto della lingua: la lingua parlata entra nelle sue riflessioni linguistiche tangenzialmente, perlopiù quando il poeta si trova a ragionare, in chiave storico-culturale e sociale, del rapporto che vi è in Italia fra la lingua della letteratura e la lingua dell’uso, vale a dire di quella «disparità della lingua scritta e parlata» che rappresentava per Leopardi una delle spie più evidenti del forte ritardo culturale e letterario del proprio paese, in particolare a paragone con la situazione francese.

Un altro campione del diverso approccio dei due filosofi alla lingua vista come basilare mezzo di comunicazione lo possiamo ricavare da almeno un paio di passi del Saggio in cui si osserva come ai fini dell’apprendimento di una lingua materna o di una lingua seconda la varietà di forme non solo sia del tutto inutile, ma addirittura possa essere d’impaccio all’acquisizione linguistica. Nel primo brano, per esempio, Cesarotti rileva talora in alcune lingue «un’abbondanza superflua, ch’è piuttosto una ridondanza imbarazzante», quale risultato «dell’accozzamento primitivo di varie popolazioni, e della somma difficoltà di ridur tutti gl’individui […] ad assoggettarsi ad una medesima analogia di terminazioni». Pertanto Cesarotti si rivolge al lettore in questi termini:

«Che giovano mai alla lingua latina e greca le varie declinazioni dei nomi? Qual vantaggio ne viene a quelle e alle nostre dal noiosissimo imbarazzo di tante coniugazioni che fanno la croce di chi vuole impararle? Una sola forma pei nomi sostantivi distinti solo nel genere, una per gli adiettivi, ed una pei verbi avrebbe reso la lingua più analoga e semplice, e meno tediosa e imbarazzata. Il vantaggio che può risultarne per lo stile nella varietà materiale di tanti suoni, può mai esser posto in confronto colle difficoltà e colle spine, di cui, mercé questa inutile varietà, è seminata la lingua?».

Inutile dire che simili preoccupazioni sono aliene alla speculazione linguistica di Leopardi, che nello Zibaldone evidenzia piuttosto, a più riprese, come anche l’ineliminabile varietà delle forme e dei costrutti di una lingua (e segnatamente dell’italiano) non solo possa giovare all’eleganza e quindi allo stile, ma possa altresì contribuire a incrementarne il «capitale» (Cesarotti aveva preferito la parola «erario»), qualora si guardi a tale varietà di forme come a una specie di facoltà strutturale in grado di estendere le potenzialità comunicative di una lingua. Si veda, al riguardo, un famoso pensiero del 17 luglio 1821:

«Altra gran fonte della ricchezza e varietà della lingua italiana, si è quella sua immensa facoltà di dare a una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec. […]. Parlo solamente del potere usare per esempio uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo o senza […]; con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione […]. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall’inusitato, e in somma alla bellezza del discorso, ma anche sommamente all’utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a distinguere le piccole differenze delle cose».

Alessio Ricci insegna Linguistica italiana all’Università di Siena. Ha pubblicato libri e saggi su vari aspetti di storia della lingua italiana antica e moderna: dai libri di famiglia dei mercanti medievali alla lingua dei letterati (Pucci, Bembo, Ariosto, Galileo, Leopardi, R. Baldini); dalla fonomorfologia dell’italiano antico alla grammaticografia del Sette e Ottocento; dalla lingua della canzone d’autore, alla scrittura degli studenti universitari. Fra le sue ultime pubblicazioni, “Le dolci rime d’amor ch’i’ solia”. Su alcuni imperfetti in prosa e in versi (2015) e Latinismi (2020).

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