
I capelli trascurati indicavano un degrado anche morale: sono infatti attributo iconografico dei maligni, primi fra tutti i diavoli. La trascuratezza quale rifiuto della vanità mondana era invece celebrata: caratterizzava per esempio i santi eremiti, i cui lunghissimi capelli erano anche espediente iconografico per celarne i corpi altrimenti nudi. La forma dei capelli distingueva il chierico dal laico, il povero dal ricco, il vicino dallo straniero.
Soprattutto nell’Alto Medioevo, la capigliatura maschile abbondante e lunga esternava forza e virilità. Esprimendo una forte carica sensuale, l’esposizione di quella femminile andava invece mitigata e controllata: per questo alle donne maritate, spose d’uomo o di Cristo, era imposto il velo. Alle ragazze era invece concesso di mostrarla lunga e sciolta, emblema di una verginità momentanea o, nell’iconografia delle sante martiri, eterna. Come spesso nel Medioevo, un segno poteva infatti assumere valore contrastante in relazione al contesto o a variabili che l’uomo contemporaneo fatica a cogliere.
Quali erano le acconciature più diffuse nel Medioevo?
Nell’Alto Medioevo i capelli femminili erano acconciati in modo semplice: ricadevano sulla schiena sciolti o in trecce ed erano decorati con inserti e coroncine, talvolta preziosi. La lunghezza dispiegata ne esponeva la bellezza, affidata a qualità intrinseche quali colore, abbondanza e lucentezza.
Nel Tardo Medioevo l’apprezzamento si trasferì dai capelli all’acconciatura. Le fogge diventarono varie, complesse, ingombranti e talora bizzarre, alla ricerca o alla rincorsa dell’ultima moda: non solo le donne “hanno più capi che ’l diavolo”, osservava Bernardino da Siena, ma “ogni dì rimutano uno capo di nuovo”. Secondo Franco Sacchetti le fiorentine rinunciavano persino al sonno per inventarne di stravaganti, con la disperazione di mariti e dei bilanci famigliari. Le trecce arrotolate sulla sommità del capo, con integrazione di crini posticci, formavano alte corone; il volume dei capelli trovò poi nuove espansioni grazie all’uso di strutture a cupola e uovo (il balzo) o a sella; i ritratti rinascimentali mostrano architetture di ciocche e trecce incrociate, avvitate, trattenute, sostenute e decorate con accessori costosi e gioielli. Persino il velo delle maritate divenne cuffia ingemmata o inserto prezioso. Tale complessità e ricchezza erano privilegio delle elette; le donne comuni si accontentavano di imitarle contenendo tempi e costi, mentre nella quotidianità i capelli erano semplicemente raccolti e appuntati sul capo o sulla nuca, come ancora usavano le nostre nonne o bisnonne.
Di contro a quelli femminili, la cui forma base rimase sostanzialmente invariata prestandosi però a innumerevoli composizioni, nel corso Medioevo i capelli maschili mutarono ripetutamente profilo e lunghezza. Al contrario dei romani, per esempio, i barbari li recavano lunghi: i longobardi pareggiati e ricadenti dalla scriminatura mediana. Ancor più nel Tardo Medioevo, gli uomini li conformavano con taglio, pettinatura e messa in piega: in pubblico, li recavano al naturale solo coloro che, di necessità o per età e scelta, non si adeguavano alle mode. I dipinti di Giotto testimoniano l’uso di arrotolarli in un boccolo sulla nuca; Leonello d’Este, nel ritratto di Pisanello, reca una sorta di impeccabile e cortissima calotta; molti ritratti tardo rinascimentali li mostrano ricadere in calcolate onde. Anche Francesco Petrarca li aveva arricciati con il calamistro: da anziano però, ricordando il tempo loro dedicato e l’ansia che si scomponessero, si godeva la comodità della chioma raccolta in alto, che “non dà più noia alle orecchie e agli occhi”.
Come ci si prendeva cura dei capelli?
Molte testimonianze medievali tramandano suggerimenti per mantenere i capelli folti e belli, per farli ricrescere, per tingerli e per allontanare i parassiti che tormentavano anche le teste di rango. Le ricette proposte prevedevano ingredienti e procedure piuttosto complessi e talora tossici, cui anche gli uomini ricorrevano per ostacolare calvizie e canizie. Moralisti e predicatori deprecavano tali falsificazioni, che alterando l’aspetto concesso da Dio assecondavano la vanità e conducevano all’inferno. Il Medioevo ci ha anche consegnato preziosi pettini (uno a doppia fila di denti è impugnato dalla figura in copertina al libro) e stiletti per tracciare la scriminatura.
L’eccesso di attenzione era dunque considerato peccato, mentre la cura ordinaria contribuiva alla dignità personale: miseri e folli avevano infatti chiome incolte o rasate. Il lavare i capelli o il pettinarli non erano azioni notabili: l’arte e la letteratura le citano tuttavia per sottolineare particolari circostanze o significativi snodi narrativi. Semiramide, per esempio, era raffigurata mentre si pettina e con l’acconciatura inconclusa che non terminò per recarsi prontamente in battaglia. Brunilde e Crimilde sono descritte mentre si lavano i capelli nel fiume e litigano per rimanere l’una a valle dell’altra, evitando di servirsi dell’acqua usata dalla rivale. Cogliere una donna mentre si pettina indicava intrusione nella sua intimità. Talora il riassettare i capelli assumeva valore rituale o segnalava una variazione esistenziale: a Emilia, per esempio, furono pettinati prima del sacrificio a Diana e a Griselda per prepararla alla cerimonia nuziale; a Ivano furono lavati per restituirgli aspetto e ruolo di cavaliere. Accudire i capelli dei bisognosi era opera di carità cui si dedicarono illustri santi: come Radegonda ed Elisabetta d’Ungheria, che non disdegnarono di abbassarsi a curare i più disgustosi.
In che modo i capelli erano utilizzati per esprimere dolore?
Mettersi le mani nei capelli o strapparseli sono modi di dire che ancora indicano disperazione o intensa preoccupazione. Nel Medioevo più di oggi si traducevano in gesti concreti e plateali, che l’arte e la letteratura enfatizzavano ad esternare un dramma emotivo. Le donne levavano il velo, scioglievano le chiome e le tormentavano per elevare il pianto funebre. Per quanto la Chiesa li ostacolasse, tali gesti antichissimi penetrarono persino nella raffigurazione delle dolenti accanto al Cristo morto. In altri contesti iconografici la chioma svelata, disciolta e scomposta bastava a indicare il compiersi di una morte inaspettata o violenta: caratterizzava per esempio le madri, come nella Strage degli innocenti e nelle scene in cui accorrono accanto ai figlioletti vittime dell’infortunio che precede un miracolo. Tale urlo visivo è talora accentuato dalle mani che afferrano fortemente i capelli per strapparli. La letteratura profana cita il gesto quale reazione alla morte dell’amato o del marito, quasi dimostrazione dell’intensità del legame infranto. Seppure espressione prevalentemente femminile, non mancano documenti, brani letterari e immagini che lo riferiscono agli uomini, i quali lo praticavano tuttavia non tanto quale reazione istintiva ed emotiva ma come dichiarazione pubblica di vicinanza al defunto o come messa in scena, anche collettiva, per dichiarare e rinsaldare l’appartenenza a una comunità, a un gruppo o a una fazione politica.
Oltre al dolore per un lutto, nella letteratura e nell’arte lo straziarsi i capelli o i capelli scomposti indicavano un terrore contingente o esistenziale: denunciavano, per esempio, una violenza (anche sessuale) subita, la perdita di dignità (anche corporea) degli indemoniati o l’eterna disperazione dei dannati.
Quali valenze aveva il taglio dei capelli?
Un vistoso taglio dei capelli segnava e segnalava significativi scarti esistenziali, sia volontari che subiti. Poiché la lunghezza di quelli femminili era considerata attributo di genere, il reciderli indicava il rifiuto stesso della femminilità. Il Medioevo tramanda storie di donne che li tagliarono per fingersi uomo o per fuggire un destino imposto: per nascondersi, per rifiutare un matrimonio e conservare la verginità o per combattere (come Giovanna d’Arco). La rinuncia ai capelli lunghi precedeva inoltre l’adozione simbolica e fisica del velo monacale. Il taglio, talora la rasatura, era inoltre inflitto quale pena infamante: per esempio alle adultere.
Altrettanto eloquente era la vistosa variazione dei capelli maschili. In molte civiltà il primo taglio segnava l’ingresso nell’età e nella comunità degli adulti: Liutprando li accorciò a Pipino il Breve, re Artù all’eroe Culhwch. Presso i merovingi i capelli lunghi erano attributo di regalità, tanto che il reciderli (spesso forzatamente) comprometteva aspirazioni e pretese dinastiche. La regina Clotilde preferì i nipotini uccisi piuttosto che con i capelli accorciati. Soprattutto in ambito barbarico l’abbondanza dei capelli garantiva forza e virilità: per questo la calvizie era ignominiosa, mentre la rasatura era pena non solo infamante ma invalidante. Ancora più crudele era la scotennatura, che oltre al dolore imponeva il marchio di una cicatrice. L’accorciamento dei capelli era infine rito d’ingresso alla vita religiosa, accompagnato dalla rasatura sommitale che imprimeva sul capo di chierici e monaci una simbolica corona. Anche i capelli dei monaci misuravano dunque la differenza di genere: quelli femminili mortificati sotto il velo, quelli maschili esibiti per mostrare un segno di distinzione e superiorità.
Seppur mitigato, il valore identitario e simbolico del tagliare o non tagliare i capelli e di un loro particolare taglio è giunto sino (quasi) al presente: lo dimostrano, nel secolo scorso, le donne che recisero le trecce per aderire alla modernità della permanente o i capelloni che contestarono quelli corti, la cresta sulle teste rasate dei punk o la chioma non accudita dei rasta. È infine significativo che, ancora oggi, le donne con capelli corti siano una minoranza.