
Il libro costituisce il resoconto degli incontri a casa dello scrittore israeliano, «a parlare di libri e scrittori, di ispirazione e influenze, di abitudini dello scrivere e sensi di colpa, di matrimonio e dell’essere genitori.» Quello che emerge è un ritratto a tutto tondo, una sorta di testamento artistico, spirituale e familiare dello scrittore. La prima e più intima confessione riguarda la scrittura: cosa muove la sua mano quando scrive?
È, per Amos Oz, «l’impulso che porta a raccontare storie, a scrivere libri: mettere qualcosa in salvo dalle grinfie del tempo e dell’oblio. Questo, e anche il desiderio di dare una seconda occasione a ciò che un’altra occasione non avrà mai più.»
L’ispirazione nasce dalla quotidianità: «Ogni tanto mi chiedo da dove vengano le storie, e non sono poi così capace di rispondere. Vedi, per un verso lo so, sì, perché è tutta la vita che faccio la spia. L’ho scritto in Una storia di amore e di tenebra. Ascolto conversazioni altrui, osservo gli estranei, e quando mi trovo in coda dal dottore, alla stazione o all’aeroporto, non leggo mai il giornale. Preferisco ascoltare la gente che parla, rubare sprazzi di conversazioni, completarle con le parti mancanti. Oppure osservo i vestiti, lancio un’occhiata alle scarpe – le scarpe hanno sempre un mucchio di cose da raccontare. Studio la gente. Ascolto.»
Ecco Oz raccontarci le sue abitudini di scrittura: «Non credo ci siano rituali nello scrivere. Potrei considerarli rituali vedendoli negli altri. Ma per quanto mi riguarda sono abitudini di lavoro. La mia giornata comincia decisamente presto. È molto raro oggi nella mia vita che scriva qualcosa di sera. Anche se non dormo la notte, non scrivo. Solo la mattina. Una volta ero completamente dipendente dalle sigarette. Non riuscivo a scrivere neanche una riga senza fumare, ed era difficilissimo separare la scrittura dal fumo. Era tremendamente difficile, ma ce l’abbiamo fatta. […] Scrivo una quantità di bozze a mano. Non copio da una versione all’altra, scrivo un brano e lo metto nel cassetto, lo riscrivo e lascio anche questa bozza nel cassetto, creo ancora un’altra versione della stessa scena. Quando ne ho nel cassetto quattro, cinque, a volte persino dieci versioni, le tiro tutte fuori, le metto una accanto all’altra sul tavolo e pesco qualcosa da ognuna, in modo da avere, forse, la versione buona, quella che riporto poi su questo computer, digitando con due dita. Vado a camminare ancor prima del caffè. Mi alzo, mi lavo, mi faccio la barba ed esco. Alle quattro e un quarto sono già per strada, a un quarto alle cinque, un po’ prima delle cinque torno, fuori è ancora buio pesto, e io sono già a questa scrivania, con un bel caffè forte. Sono queste le mie ore. Il mio rituale consiste in questo. […] Anche di Sabato, anche se è festa. Nessuno telefona, Nilli dorme, se ci sono altri in casa dormono pure loro, sono proprio le ore in cui nessuno ha bisogno di me.»
C’è anche la lettura: «Non rileggo quasi mai i miei libri. Rileggere una pagina che hai scritto è un po’ come sentire la tua voce registrata: è strano, imbarazzante. […] Mi interessa ben di più leggere i libri di altri autori, sia che scrivano meglio di me sia che scrivano peggio. Ho un metro di misura decisamente arbitrario nonché alquanto politicamente scorretto: se prendo in mano un romanzo o un racconto, leggo venti pagine e dico: “Questo avrei potuto scriverlo anch’io”, per me significa che il libro non vale. Solo se leggendo mi dico: “In vita mia non sarei mai stato capace di scriverlo”, allora vuol dire che è un buon libro.»
La confessione si fa così ancora più intima e tratta dei rapporti con l’altro sesso, scoperto alla scuola maschile Tachmoni da adolescente: «Non solo io, tutti noi, tutti i ragazzi della Tachmoni, eravamo tutti colmi di odio, di senso di offesa e risentimento nei confronti dell’intero genere femminile. Perché? Perché le femmine avevano qualcosa, lo sapevamo che le femmine avevano qualcosa che noi volevamo tantissimo ma che loro non ci mostravano mai. Che gliene importava, a loro? Perché? Com’erano avare, com’erano spietate, senza cuore, proprio. Quanto, quanto le invidiavo: una ragazza poteva stare davanti allo specchio e guardarsi quanto voleva, […] tutte quelle cose meravigliose poteva guardarle quando e quanto le pareva. Eppure nessuna di loro era disposta a spartirle con noi. […] Perché erano così avare? Così egoiste? Le odiavamo. […] Loro hanno le chiavi della felicità e a noi non concedono neanche una briciola. Il verbo “concedono” tradisce in me una distorsione profonda e radicata, forse una delle storture più antiche del mondo. Lo ammetto, non mi piace farlo ma ammetto che non mi sono ancora affrancato del tutto da questo retaggio, e cioè che tutte le chiavi del piacere siano sempre in mani femminili. E che spetti solo alla donna scegliere di elargirmi – espressione antiquata che pure adoro – le sue grazie oppure negarmele.»
Il dialogo tra lo scrittore israeliano e la sua editor prosegue serrato sul tema della violenza di genere e le donne; Amos Oz racconta la sua educazione sentimentale: «La mia educazione erotica cominciò leggendo libri. Madame Bovary, Anna Karenina, Jane Austen, Virginia Woolf, Emily Brontë. Dopo aver letto tanti romanzi sulla vita sentimentale di protagoniste donne, con qualche vaga e censurata allusione alla vita del loro corpo, arrivai a un livello – più o meno come quando si impara a guidare – in cui ero già quasi pronto a passare l’esame di teoria. Quanto alla pratica, ero ancora molto lontano. […] Da quei romanzi imparai delle cose che non sapevo e nemmeno immaginavo sulle donne […] che persino la donna non era così lontana da me come avevo sempre pensato sino a quel momento. Il marziano cominciò a essere un po’ meno marziano, un po’ meno spaventato e arrabbiato, addirittura un pochino simile a me. Ero davvero travolto dall’emozione. Era una catarsi. L’odio che era sorto in me provocato dall’invidia, dall’umiliazione e dalla mancanza di speranza cominciò a dissiparsi, e così anche la rabbia. Pian piano, in quella densa nebbia cominciarono a intravedersi svariate linee distintive – perché le donne non “si concedono”, per esempio? Ora finalmente sapevo che non era per crudeltà o egoismo. Che cosa le spaventa? Che cosa le disgusta? Nessuno mi aveva mai detto che cosa le disgustava, che cosa le spaventava, e men che meno mi avevano detto che cosa piaceva loro, che cosa le affascinava, che cosa le attirava. Dalla morte di mia madre, ma in fondo già molto prima della sua morte, nessuna donna mi aveva mai parlato. Né donna né bambina. Devo tutto ai libri che ho letto. E fu proprio quel che avevo letto nei libri a produrre in me una specie di rivoluzione. A poco a poco mi prese una specie di sfumata invidia, di vaga invidia per la sessualità femminile, perché capii che era incommensurabilmente più ricca e complessa della mia».
La vita di Amos Oz viene passata in rassegna: il cambio di cognome da Klausner in Oz, la vita nel kibbutz, dove aveva scelto di andare a vivere a quattordici anni, gli esordi letterari. Non manca una chiosa sulla critica letteraria e la «speranza quasi mistica, che in futuro torni a esserci quello che c’è sempre stato, ancora prima che nascesse la critica letteraria. E, cioè, leggere un libro e dire a qualcun altro: Val la pena leggerlo. Ecco quello che succederà. Succede anche oggi, in fondo. Credo che la maggioranza dei libri non si compra perché si è letta una recensione sul giornale, ma perché qualcuno del cui gusto ti fidi ti ha detto: Devi assolutamente leggere questo libro. Non puoi farne a meno. Una volta era così e di nuovo così sarà, un giorno.»
Con una riflessione finale: «Uno scrittore, una scrittrice, possono forse scrivere di persone più sensuali di quanto non lo siano loro stessi. Più sofferenti, più brutte o più belle, più ricche o più povere. Ma uno scrittore o una scrittrice, a qualunque mondo o epoca appartenga, non potrà mai scrivere di una persona più intelligente; questo è impossibile. E neanche di un personaggio con un senso dell’umorismo migliore di quello di chi scrive.»