“Sulla nozione di condizione” di H. Hermann Fitting, a cura di Martina D’Onofrio

Sulla nozione di condizione, H. Hermann Fitting, Martina D'OnofrioDott.ssa Avv. Martina D’Onofrio, Lei ha curato la traduzione critica del libro Sulla nozione di condizione di H. Hermann Fitting, pubblicato da Pacini Giuridica: quale importanza riveste, per l’elaborazione moderna del diritto, il saggio del giurista tedesco?
La traduzione si propone di rendere fruibile al pubblico italiano i contenuti di un testo tedesco risalente alla metà dell’Ottocento, scritto da un autore riconducibile a quello straordinario movimento che ha forgiato le categorie dogmatiche tuttora utilizzate nel mondo del diritto: la Pandettistica tedesca del XIX secolo.

In particolare, l’autore del saggio in esame è Heinrich Hermann Fitting, nato a Mauchenheim nel 1831, formatosi a Würzburg, Heidelberg ed Erlangen, professore dal 1857 a Basilea, trasferitosi nel 1862 ad Halle, ove poi è deceduto nel 1918.

Dopo aver conseguito l’abilitazione con una monografia in tema di retroattività, lo studioso, all’epoca venticinquenne, affronta, con questo saggio pubblicato sull’Archiv für die civilistische Praxis, il tema della condizione negoziale.

Si tratta di un argomento foriero di grandi discussioni, a cui già intellettuali come Gottfried Wilhelm Leibniz avevano contribuito. Fitting tenta di fissare le caratteristiche fondamentali e il perimetro della figura, cercando di revocare in dubbio i dogmi introdotti dalla dottrina al tempo prevalente, come quello dell’appartenenza della condizione alla categoria degli elementi accidentali del negozio giuridico, con il conseguente accostamento alla figura del termine.

È proprio la capacità di quest’opera di mettere in discussione aspetti, su cui di primo acchito il dibattito potrebbe sembrare ormai sopito, la ragione che mi ha indotta a scegliere proprio questo saggio per il lavoro di traduzione.

Mi è parso che, al pari delle precedenti pubblicazioni della collana Bebelplatz, diretta dal prof. Tommaso dalla Massara e caratterizzata da un comitato scientifico internazionale, lo scritto di Fitting fosse in grado di riportare alla luce un segmento di pensiero di uno studioso appartenente al passato, che nondimeno possa essere tuttora utile per la ricostruzione delle categorie con le quali ancora oggi ragionano gli interpreti negli ordinamenti di tradizione romanistica.

Quali riflessioni sviluppa Fitting sul tema della condizione negoziale?
L’obiettivo espressamente dichiarato da Fitting è quello di confutare la dottrina tradizionale in tema di condizione sotto diversi punti di vista. In particolare, egli ritiene che l’impostazione sino ad allora maggioritaria fosse viziata da una errata lettura delle fonti.

In base alla tesi tradizionale la condizione altro non sarebbe che il meccanismo con il quale si fa dipendere l’efficacia di un negozio dal verificarsi o meno di un evento futuro e incerto.

Con riferimento a questa definizione – che ritroviamo ancora oggi nei nostri manuali istituzionali di diritto privato – numerosi sono gli aspetti con riguardo ai quali lo studioso tedesco esprime le proprie censure.

Uno di questi è senz’altro la natura della condizione: mentre la letteratura del tempo la qualificava alla stregua di una autolimitazione della volontà, Fitting la definisce al contrario una esaltazione della volontà.

Altro profilo fondamentale concerne il rapporto tra la condizione e il negozio a cui accede: mentre l’opinione tradizionale riconduceva la condizione agli elementi accidentali del negozio giuridico, per Fitting si tratterebbe invece di un elemento essenziale nell’economia dell’operazione posta in essere dalle parti.

Anche la limitazione del campo d’applicazione del regime della condizione agli eventi futuri e incerti è messa in discussione da Fitting, il quale sostiene l’esistenza di una nozione unitaria di condizione che includa altresì quelle che ancora oggi si suole ricondurre alla categoria delle c.d. condizioni improprie. Queste si dividono in tre categorie: le condizioni che si riferiscono a circostanze passate o presenti, le condizioni necessarie o impossibili e, infine, le condiciones iuris. Lo studioso si sofferma per lo più sulle prime due, tentando di persuadere il lettore nel senso dell’applicabilità alle stesse del regime giuridico della condizione, purché dal tenore letterale del negozio si evinca uno stato di incertezza con riguardo alla verificazione dell’evento.

Questa ricostruzione poggia su una concezione di incertezza in termini soggettivi anziché oggettivi. In altre parole, per Fitting l’evento dedotto in condizione non è necessariamente oggettivamente incerto, bensì è sufficiente che le parti ne ignorassero l’esistenza ovvero la mancata verificazione al tempo della conclusione del negozio.

Come si articola la sua ricostruzione dogmatica della figura?
Come poc’anzi accennato, nella sua ricostruzione dogmatica della figura, Fitting rifiuta la ricostruzione al tempo prevalente, sostenuta per esempio da Friedrich Karl von Savigny. In particolare, quest’ultimo annoverava la condizione, assieme al termine, tra gli strumenti che delimitano l’ampiezza della volontà.

Al contrario, secondo Fitting, la volontà nasce già condizionata, sicché non si potrebbe discorrere di una volontà più ampia, poi confinata mediante l’apposizione di tale elemento accidentale. La condizione consisterebbe in un elemento da cui dipenderebbe l’esistenza stessa della volontà. Lo studioso tedesco sottolinea invero che, nella manifestazione di volontà condizionata, la condizione e il negozio condizionato stanno in una così stretta relazione che non sarebbe configurabile una separazione, in quanto l’uno senza l’altro non sarebbe più pensabile.

Per Fitting il negozio condizionato rappresenterebbe più propriamente un’autonoma categoria di negozi, così come la sentenza condizionata rappresenta una particolare forma di sentenza rispetto a quella incondizionata.

L’autore menziona a suffragio della configurazione dogmatica proposta la Doctrina conditionum di Leibniz, che egli stesso definisce «la manifestazione maggiormente ricca di spirito e pura di ciò che possediamo oggi sulla condizione».

A sostegno della sua ricostruzione dogmatica, come era d’uso nel contesto culturale tedesco del XIX secolo, Fitting si serve altresì delle testimonianze dei giuristi romani. Molti sono infatti gli esempi tratti dalle fonti, soprattutto dai passi del Digesto, citati in quest’opera.

Su quali zone d’ombra il dibattito dottrinale in materia è ancora vivo?
Senz’altro aperta è la discussione riguardante l’applicabilità della disciplina della condizione nel caso in cui l’evento dal quale le parti intendono far dipendere gli effetti del negozio si collochi nel presente o nel passato, anziché nel futuro, come invece vorrebbe la nozione tradizionale di condizione. L’attualità del tema è evidente, nella misura in cui anche nella contemporaneità vi sono fattispecie in cui si richiama la figura, già nota ai Romani, della condicio in praesens vel in praeteritum.

Un esempio tratto dai giorni nostri potrebbe essere rappresentato dalla vendita di partecipazioni sociali a cui sia aggiunto un patto in base a cui si subordini il pagamento di una somma di denaro al sorgere di sopravvenienze fiscali. In questo caso le irregolarità preesistevano al contratto, ma l’insorgenza di oneri a carico della società target si verifica esclusivamente in seguito all’accertamento condotto dall’Amministrazione finanziaria, che potrebbe aver luogo anche diversi anni dopo la conclusione del contratto. Alla luce di ciò, tale accordo ben potrebbe qualificarsi alla stregua di una clausola che origina un’obbligazione indennitaria sottoposta alla condizione sospensiva che emergano sopravvenienze passive riferite al patrimonio della società le cui partecipazioni sono oggetto di cessione.

Altro tema su cui ancora è acceso il dibattito è rappresentato dalla classificazione della condizione in termini di elemento accidentale del negozio giuridico. Invero, sebbene tale etichetta sia accolta da gran parte della manualistica attuale, rimangono voci dottrinali che – come Fitting – dubitano dell’adeguatezza di tale categorizzazione.

Lo studioso tedesco si domandava come fosse possibile qualificare alla stregua di un elemento accidentale una circostanza che, nello schema negoziale costruito dalle parti, rileva a tal punto da determinare essa stessa il prodursi o meno degli effetti dell’atto.

A tal proposito, alla luce dei successivi sviluppi dottrinali è più appropriato affermare che la condizione si configura in termini di elemento accidentale soltanto se la si guarda da una prospettiva “strutturale” del negozio. In effetti, da tale punto di vista può rilevarsi – come ci insegna Falzea – la non essenzialità della condizione. Al fine di valutare quale ruolo assuma una determinata circostanza è necessario effettuare la cd. prova di resistenza: accidentale è l’elemento che può mancare senza che l’efficacia del negozio venga pregiudicata. È dunque l’appartenenza o meno alle caratteristiche del tipo negoziale di ogni profilo della fattispecie il criterio discretivo tra elementi essenziali e accidentali della medesima.

Se tuttavia si assume una diversa prospettiva, la condizione è tutt’altro che elemento accidentale: invero, esistono ipotesi in cui l’evento condizionale non si colloca in posizione di estraneità rispetto alla causa del contratto, bensì è diretto ad attribuire valore a un interesse fondamentale dei contraenti, in modo tale da rappresentare un elemento essenziale dell’operazione economica voluta dalle parti.

Il dibattito su vari aspetti che ruotano attorno all’essenza della condizione risulta dunque ancora oggi tutt’altro che sopito.

Martina D’Onofrio ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Verona, nell’ambito del programma congiunto con l’Università di Bayreuth. È assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona.

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