
«Parlare del dolore significa entrare nel tempio sacro del mistero»: quale atteggiamento dovremmo avere nei confronti del dolore?
È una mia costante preoccupazione: poiché il dolore ci mette in crisi, mette a nudo le nostre fragilità, abbiamo elaborato una sorta di protocollo di protezione davanti ai sofferenti. Così per il lutto abbiamo elaborato una serie di atteggiamenti, in origine compassionevoli e solidali, che rischiano di risuonare come vuote formule: condoglianze, fatti coraggio… Fra i cattolici, purtroppo, ancora circolano delle affermazioni sconcertanti. Davanti alla morte di un giovane ho sentito ancora dire: era troppo buono per questa terra e Dio l’ha preso con sé. Ora essendo che io voglio vivere a lungo, immaginate che conclusione ne traggo! Così come una approssimativa devozione alla croce ha fatto grandi danni: contemplando Gesù in croce giungiamo ad affermare delle vere aberrazioni: non soltanto Dio amerebbe la sofferenza, ma si divertirebbe a mandarci qualche croce da portare. Perché?. mi chiedo. Per mettere alla prova la mia fede? Ma la stragrande maggioranza delle persone che vivono la sofferenza non fortificano la propria fede, la perdono! La croce diventa, se correttamente interpretata, una chiave di lettura del mistero del dolore: Dio non ha spiegato la ragione del dolore ma lo ha portato su di sé, o lo ha redento, lo ha azzerato amando fino a morirne. Mi basta? Non lo so. Davanti al dolore, sono onesto, preferisco un Dio che mi toglie dal dolore, non che lo condivide! Eppure questo paradosso assoluto del cristianesimo mi affascina e mi convince. Non conosco la ragione del dolore, so che fa parte della vita e lo posso vivere in tanti modi. Gesù lo vive in totale e assoluta crudezza ma riesce a trasfigurarlo. Mi piacerebbe imitarlo.
Di quale utilità può essere indagare le radici del dolore?
Può dare un aiuto nelle situazioni concrete. Oggi nessuno parla del dolore, anzi spesso viene nascosto, ci siamo disabituati al dolore, non teniamo conto che la natura ha creato il dolore fisico, ad esempio, come campanello d’allarme. Che siamo fragili è un dato di realtà e la medicina è una buona cosa ma oggi quasi si pretende di avere una pasticca per togliere ogni dolore. Così accade per i dolori della psiche o dell’anima: se mi sento a disagio devo trovare una scorciatoia che mi aiuti ad uscire dal dolore invece di affrontare alla radice le ragioni che mi fanno stare così tanto male. Il dolore, specie quello interiore, va accolto e attraversato. Il dolore mente, ci dice che ci può uccidere, ma non è vero. Per superare il dolore bisogna lasciarlo dov’è, nella sensibilità, senza spostarlo nella mente o rimuoverlo nell’inconscio. A queste condizioni, spesso, il dolore diventa uno strumento fenomenale di crescita. Trovo che, purtroppo, il nostro tempo abbia fatto passare l’idea che una vita bella sia una vita senza contrattempi o dolori. E che questo dipenda dagli altri, non da noi. Da tempo ripeto che sono io il capitano della mia nave, io devo prendere in mano il timone per decidere dove andare. Invece stiamo seduti in balia della onde, maledicendo Dio e la vita per le cose che ci accadono.
Si possono conciliare il dolore e la bontà di Dio?
Si, anche se non sappiamo esattamente come. È un percorso delicato, complesso che passa attraverso l’esperienza di Dio. Il cristianesimo, oltre il suo aspetto sociale e culturale, pretende di essere un cammino di conoscenza di Dio, di divinizzazione. Lasciarsi sedurre dalle parole del Vangelo, dall’annuncio, sperimentare nell’intimo l’amore che proviene da Dio mi conduce alla consapevolezza che Dio c’è ed è bellissimo. In questo cammino il tema del dolore viene letto alla luce dell’esperienza bruciante e travolgente dell’amore, acquista un senso diverso senza necessariamente trovare una risposta definitiva. E si giunge alla certezza interiore che Dio e il dolore non si elidono, che il dolore può diventare come le doglie di un parto, un percorso necessario (se non cercato o provocato) alla mia progressiva liberazione, un’ascesi, cioè un allenamento. Immagini di invitare un conoscente a conoscere una persona per lei importantissima. Ha preparato l’incontro con cura, caricandolo di attese. Poi, per chissà quale ragione, l’evento tanto atteso va male: la persona importante è distratta, scostante, deludente. Appena uscita, imbarazzato, si scuserà col suo amico dicendo: lui di solito non è così, non so cosa avesse oggi. Mi viene da dire: non so perché esiste il dolore, ma so che Dio è buono.
Perché Dio non interviene direttamente per sanare il dolore?
Perché nel nostro discorrere dobbiamo aggiungere un elemento importante: non è il dolore a mettere in dubbio l’esistenza di un Dio buono ma il dolore dell’innocente. Perché, se siamo sinceri, ciò che noi genericamente dolore ha bisogno di essere distinto e spiegato. Esiste un dolore legato alla nostra condizione umana, nasciamo, cresciamo, invecchiamo, moriamo. È così, non è colpa di nessuno, l’albero in autunno non si lamenta delle foglie che cadono. Eppure l’essere umano è l’unico animale a ribellarsi alla sua morte, all’idea stessa di morte, per me indice della sua anima immortale, segno della sua natura divina. Esiste poi il dolore provocato dall’uso sbagliato del nostro libero arbitrio, dal lasciar dilagare l’ombra che ci sta accanto, penso alle guerre o ai comportamenti distruttivi. Se, ubriaco, guido come un folle e mi schianto non è colpa di Dio! e questa è una contraddizione che ha fatto molto riflettere gli autori biblici: l’uomo sembra volersi distruggere. Infine una distinzione che mi ha molto aiutato nella vita: la distinzione fra dolore necessario e dolore inutile. Io penso che la quasi totalità del dolore che viviamo sia inutile: le invidie, le rivalità, i giri di testa, le attese mal riposte. Essere invidiosi crea una sofferenza incredibile, come la gelosia che rischia di diventare una malattia dell’amore. E questi sono dolori inutili. Dio non interviene perché siamo noi a dover intervenire! Quindi, per tornare alla sua domanda: la gran parte del dolore che viviamo o è legato alla nostra natura caduca o ce li procuriamo e siamo noi a doverli affrontare e risolvere. Dio ci crede capaci di non ammazzarci o combattere. Forse è ingenuo ma è il Dio che crea l’uomo libero di autodeterminarsi senza soffiargli il naso come ai bambini piccoli! Interviene? A volte sì, se lo lasciamo fare. Anche Dio fa quel che può nel senso che si ferma davanti alla libertà dell’uomo, non si impone. Non preghiamo Dio di fermare la guerra ma di convertire il cuore del piccolo dittatore che mi abita…
«La gioia cristiana è una tristezza superata, un dolore redento» scrive nel Suo libro: cosa può rappresentare il dolore assunto e trasfigurato?
No, direi il dolore assunto e superato. Non so se siamo in grado di trasfigurarlo, cioè di cambiarne la forma. Il cammino dei discepoli dopo la resurrezione di Cristo è proprio questo: abbandonare in fretta il sepolcro per scoprire che il nostro è il Dio felice che ci rende felici e che ama la vita. Gesù ha detto tutto, ha indicato la strada, percorrerla significa leggere la vita in una prospettiva diversa.
Paolo Curtaz (Aosta 1965) è uno degli autori spirituali contemporanei più seguiti. Ha una formazione teologica ed è autore di numerosi libri di spiritualità, commenti alle Scritture, saggi sulla fede, testi per le coppie e libri per ragazzi. Tra le pubblicazioni più recenti: per le Edizioni San Paolo Il cercatore, lo scampato, l’astuto, il sognatore (2016); L’arpa e la fionda. I re d’Israele (2017); La fede cristiana (2018); Lo sguardo di Dio. I profeti d’Israele (2018).