
Ma oltre a quella tradizione culturale ‘alta’ ve ne è una ‘popolare’, anch’essa unitaria, che anch’essa corre dall’antico al moderno, certo con strade più tortuose o carsiche, all’insegna di una visione del mondo costruita su leggi di analogia e contrasto, che vede la natura come un grande libro che può rivelare saperi e tesori. Una cultura popolare antichissima che, attraverso i secoli, sembra riaffiorare in preziosissime notizie che solo la memoria degli anziani della Maiella o dell’Aspromonte, della Sila o dei Nebrodi, può ancora rivelarci.
Quando, sulla scia di una tradizione di studi demologica e filologica che risale, in fondo, ad Ernesto de Martino, iniziai a mettere a confronto le testimonianze sulla cultura popolare antica con le notizie testimoniate nei numerosi repertori documentari di fine ottocento o inizio novecento, riscontrai un buon numero di coincidenze e analogie.
Decisi allora che la ricerca aveva bisogno di un ‘salto di qualità’. Di una ‘svolta’ etnologica.
Era possibile che elementi della cultura popolare antica fossero ancora presenti (come ai tempi di Pitrè o di La Sorsa), se non nelle pratiche, almeno nella memoria degli anziani di oggi?
In un iniziale e quasi totale scetticismo degli amici filologi e dei colleghi antropologi, decisi di uscire dalle Biblioteche e dagli Archivi locali e di affrontare un vero e proprio ‘campo’ etnografico.
Realizzato un questionario ove erano tematizzate le notizie sul ‘popolare’ rinvenute nei testi antichi, iniziò una lunga stagione di veri e propri ‘campi’ etnografici, che mi hanno portato, in tre anni, a percorrere tutte le nove regioni del Meridione italiano, un’esperienza di studio e di vita straordinaria, di cui ho dato conto nel volume Sud antico. Diario di una ricerca tra filologia e etnologia (Milano 2016). Contemporaneamente, contattavo decine di colleghi dei licei del Sud, che in una collaborazione straordinaria mi inviavano, puntualmente, i questionari da loro somministrati agli anziani di diverse aree del Meridione, spesso in laboratori didattici con il coinvolgimento degli alunni e dei loro ‘nonni’.
Dopo oltre quattrocento interviste in territori significativi di Lazio, Abruzzo, Molise, Sardegna, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia, nonché – per contrasto – Lombardia, Piemonte e Liguria, i risultati appaiono rilevanti e indiscutibili. Oltre il novanta per cento di quanto gli antichi definirono credenza o superstizione, medicina popolare o pratica apotropaica, può essere chiaramente accostato ad analoghe, se non identiche, notizie testimoniate ancora oggi.
La tradizione orale delle genti meridionali ha conservato, in modo a mio avviso ininterrotto, centinaia di tratti ‘popolari’ del mondo antico, greco e romano. Proprio la comparazione culturale – o meglio: folklorica, come preferisco dire – può rivelarci dunque la profonda diffusione (nell’antico) e la radicata persistenza (nel moderno) di questa cultura popolare.
La sua ricerca si è mossa dalla tradizione proverbiale greca e romana: come si riverbera questa nei detti popolari del Meridione?
Ho iniziato ad occuparmi dei proverbi antichi diversi anni fa. Realizzando la prima traduzione italiana delle due più importanti raccolte di proverbi antichi, compilate nei primi secoli dell’era cristiana a partire da raccolte di età ellenistica, mi era venuta l’idea di comparare le espressioni popolari antiche a quelle moderne. Così iniziai a confrontare quei proverbi greci con alcuni Dizionari di proverbi e sentenze italiani ed europei. Il risultato fu buono, ma solo una parte limitata del materiale antico presentava analogie sostanziali con i proverbi archiviati nei Dizionari più diffusi. Si trattava, in gran parte, di espressioni spesso attribuite ad un autore famoso, di “sentenze” generali e massime di stampo filosofico. Una sorpresa ebbi però nel confrontare i proverbi antichi con un altro tipo di repertori: quelli regionali, in particolare meridionali, che erano stati allestiti tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Da questi Dizionari di proverbi siciliani, calabresi, sardi, lucani, pugliesi, e non solo, emergevano una serie impressionante di confronti. Soprattutto per tutte quelle espressioni proverbiali che avevano come protagonisti animali, piante, oggetti della vita quotidiana: insomma per quei proverbi di sapore (e probabilmente di origine) popolare. Questi proverbi trovavano esatta corrispondenza nella tradizione proverbiale meridionale. Spesso il proverbio popolare meridionale riusciva a spiegare quello antico, che i filologi non avevano compreso. Si pensi, per fare alcuni esempi, al proverbio greco: “sono caduto dall’asino”, che si trova nelle commedie di Aristofane e persino in Platone, e che era stato mal interpretato: un proverbio sardo lo spiega, sottolineando il fatto che chi cade dall’asino si fa più male di chi cade da cavallo, perché non fa in tempo a mettere i piedi avanti. Un proverbio, impiegato da Aristotele fino a Cicerone, “bisogna mangiare molto sale per conoscere una persona”, mi è stato spiegato da un contadino lucano: bisogna mangiare insieme a qualcuno molte volte (ecco il “sale”), per conoscerlo veramente. In Calabria, sorprendentemente, è ancora vivo nella memoria degli anziani uno strano proverbio: “scambiasti oro col piombo”; l’espressione affonda le radici nel testo più antico d’Europa: l’Iliade di Omero: quando Glauco e Diomede, uno greco l’altro troiano, scoprono che i loro nonni arano stati antichi ospiti uno dell’altro, si scambiano le armi, senza guardare al valore estrinseco di queste, le une d’oro, le altre, appunto, di bronzo. L’immagine, scomparsa dai repertori proverbiali italiani ed europei, mi è stata ancora testimoniata nell’Aspromonte greco.
Quali superstizioni e credenze antiche si conservano ancora oggi nel nostro Sud?
Rispondere a questa domanda significherebbe ripercorrere tutte – o quasi – le pagine del libro. Delle credenze si può dire che la maggior parte delle figure fantastiche, misteriose e perturbanti della tradizione popolare antica si sono conservate nel nostro folklore meridionale: il “monacello”, nanetto dispettoso che ritroviamo nel Satyricon di Petronio: chi riesce a rubargli il cappello, troverà un tesoro; gli “spiriti” dei defunti deceduti in fiumi, laghi o dirupi: chi passa vicino a quei luoghi sente le loro voci, e può ricevere incubi ma anche rivelazioni; il “Baubau”, o “Lamia”, lo spauracchio che serve a spaventare i bambini quando fanno i capricci, è lo stesso che invocavano le mamme ateniesi di 2500 anni fa e le nostre nonne siciliane.
Per le superstizioni il discorso sarebbe, appunto, ben più lungo e complesso. Posso portare, come esempi, le fondamentali “superstizioni” greche che segnano una sorta di marca di riconoscimento delle aree meridionali rispetto, innanzi tutto, al nord (ho fatto campi etnografici di ‘prova’ anche in Lombardia, Piemonte e Liguria), ma anche al centro (Lazio, Abruzzo, Molise, Sardegna e alta Campania). Nella Calabria greca, e in tutto l’arco ionico del Meridione, sono ancora vivi i “precetti ominosi” che le fonti antiche attribuiscono a Pitagora: “non scavalcare una bilancia”; “appena alzato, guasta la forma che il tuo corpo ha lasciato sul letto”; “non accogliere in casa una rondine”, e altri ancora. Il padre dell’antropologia comparativa moderna, sir James George Frazer, aveva cercato analogie a questi precetti in alcuni tabu di culture extraeuropee, senza paralleli significativi. Sarebbe stato invece risolutivo andare ad intervistare gli anziani discendenti di Pitagora e dei suoi seguaci Crotoniati: ancora oggi questi precetti fanno parte del loro immaginario collettivo, anche se non se ne comprende più il senso, o il perché. Ancora in Calabria, in Puglia, in Sicilia e in altre zone del Meridione, quando ancora si partoriva “in casa”, con le amiche, e l’anziana esperta del paese, vi era il divieto assoluto di tenere qualcosa di “legato” indosso: lacci, vestiti, scarpe, ma anche i capelli; neanche le gambe si potevano accavallare, se si era seduti in casa di una partoriente: “il bambino si sarebbe strozzato”. Il medesimo divieto ominoso è descritto già in Ovidio, che narra di come Era, moglie gelosa di Zeus, cercava di ritardare la nascita di Eracle da Alcmena, appunto facendo incrociare le gambe a una sua ancella maligna. Ancora in Calabria, all’arrivo di un amico che da lungo tempo non si faceva vedere, si esclamava “da quanto tempo! rovescio qualcosa!”, e si voltava il primo oggetto che si aveva a portata di mano. Lo stesso gesto apotropaico compie un personaggio di una breve scena teatrale di Eronda, autore del III sec. a.C., restituitoci da un papiro egiziano alla fine dell’ottocento. Da oltre cento anni i filologi avevano cercato di interpretare la battuta del personaggio di Eronda che, all’arrivo dell’ospite inatteso, rivolto alla sua schiava esclama: “rovescia qualcosa!”: fraintendendola, ignorandola, addirittura cercando di correggere il testo del papiro. I Greci dell’Aspromonte, e poi decine di altri miei intervistati, l’hanno chiarita con la loro memoria folklorica.
I dialetti stessi del Sud Italia testimoniano un legame mai interrotto con i progenitori greci e romani
Questo aspetto è importantissimo per la nostra tradizione meridionale. Il grande linguista Gerald Rohlfs, che per cinquant’anni viaggiò nel Meridione alla ricerca delle tracce del greco antico nei nostri dialetti, dimostrò che i dialetti di diverse aree del Meridione derivava direttamente dai coloni greci dell’VIII-VII secolo a.C. Questa ininterrotta tradizione linguistica si lega anche alle mie ricerche sull’immaginario folklorico. Un’altra importante gestualità ominosa popolare che ho scoperto nel Meridione, in particolare nella Calabria greca, è legata ai contrasti nel nucleo familiare: quando una madre riceve un torto dal proprio figlio, gli si fa davanti, si scopre il seno e gli lancia una vera e propria maledizione: “tante gocce di latte t’ho dato, tante gocce di sangue restituirai”. Nell’Orestea di Eschilo, una delle più straordinarie opere della letteratura occidentale, Oreste, il figlio, deve uccidere Clitemestra, la madre, per vendicare l’assassinio del proprio padre Agamennone, come gli impone il dio, Nella scena culminante della tragedia Oreste si fa incontro alla madre con la spada sguainata, ma Clitemestra, scoprendosi il seno, cerca di fermarlo, e pochi versi dopo, grida: “non temi, figlio, le arai di una madre?”. Queste arai sono, in greco antico, appunto le “maledizioni” (arà). Le maledizioni che colpiranno il figlio dopo aver consumato il matricidio. La scena è stata interpretata per secoli come una supplica , una richiesta di perdono da parte di Clitemestra. Tutt’altro. La madre, come dimostra il confronto con la gestualità folklorica ancora viva nella memoria degli anziani che ho intervistato, sta tentando il tutto per tutto, per spaventare il figlio: lo sta maledicendo. Nell’area grecanica dell’Aspromonte, non a caso, i miei intervistati hanno ricordato che questa maledizione si chiamava kátara. Con un prefisso intensivo (katà), appunto, esattamente l’arà di Clitemestra.
Un enorme patrimonio di notizie e di saperi si nasconde dietro ogni parola dei nostri dialetti meridionali, delle loro radici greche e romane: sarebbe auspicabile, se posso lanciare da qui un appello, che i giovani linguisti e i giovani antropologi collaborassero, in un piano nazionale ben strutturato, al recupero di questa cultura linguistica, e non solo, che sta purtroppo scomparendo.
A quali ragioni storiche e sociali è da ascrivere il mantenimento di usi e tradizioni così arcaiche nel Sud Italia?
Questa domanda meriterebbe un’intera enciclopedia! Diversi fattori giocano un ruolo determinante per la continuità culturale del passato greco e romano nel Meridione italiano.
Non si può sottovalutare, innanzi tutto, la continuità di ambienti naturali e di tecniche di lavoro in una medesima area: piante, animali, procedimenti agricoli sono stati i medesimi per secoli in determinati territori. Proprio la continuità di tecniche (soprattutto) agricole è garanzia, in questo senso, di continuità di credenze legate a quelle tecniche.
Gli studi di demografia storica, ancora, offrono, per la popolazione del Meridione italiano, dati di notevole continuità fra (almeno) l’età tardoantica e quella moderna. Si può calcolare che i circa settecentomila abitanti delle regioni meridionali stimabili per il IV-V secolo d.C. corrispondessero a circa centocinquantamila/centosettantamila famiglie che costituirono nuclei pressoché inalterati fino al XVIII-XIX secolo, senza nuovi e significativi apporti etnici (dopo quello longobardo, limitato peraltro ad alcune aree), in condizioni abitative di grande dispersione e isolamento nelle zone più impervie del territorio.
Non si può sottovalutare, ancora, la continuità di numerosissimi siti abitativi, proprio del Meridione italiano, territorio che offre più di altri la possibilità di rintracciare in modo archeologicamente e storicamente indiscutibile la persistenza di insediamenti umani dall’antichità greco-romana ad oggi. Si pensi a centri antichissimi e sempre abitati quali Sepino in Molise o Alcara Li Fusi in Sicilia. La continuità urbana di questi centri (spesso sviluppatisi proprio per successive estensioni di originari nuclei abitativi familiari) può costituire, credo, la garanzia concreta di una continuità anche antropica, e quindi culturale.
Va poi tenuta nel dovuto conto, soprattutto per l’arco ionico del Meridione, la continuità rappresentata dai centri monastici basiliani. Li ricordo più volte, nel mio volume: da Otranto a Gravina, a Tricarico e al Vulture, da Rossano a Stilo, ad Africo e a Reggio Calabria, e oltre, fino a Taormina, Troina e Frazzanò, la rete degli insediamenti basiliani si snoda in modo pervasivo e, anche in questo caso, su una linea temporale ininterrotta dal IV-V secolo fino ad oggi, con evidenze archeologicamente e storicamente indiscutibili. In questi centri si sono continuati a copiare codici tecnico-pratici di fonti greche e latine che trasmisero il sapere antico (e con esso i remedia ‘popolari’): ma non si tratta di una tradizione dotta, sia per la natura dei testi, sia perché proprio i basiliani costituirono, per tutto il medioevo e fino a gran parte dell’età moderna, un punto di riferimento ‘concreto’ essenziale per ogni territorio in cui si trovasse un monastero: dal punto di vista tecnico, terapeutico, sapienzale. Alla cultura antica che viaggiava sui testi, dunque, si affiancava la pratica e la predicazione dei monaci, che dovette trasmettere quei remedia anche nella loro funzionalità sociale, e dunque nella tradizione orale. Numerosi siti ‘sacri’, che già in epoca greca e romana ospitavano sanatori e centri di cura dedicati ad Asclepio, ad esempio, vennero rifunzionalizzati a centri monastici adibiti anche alle cure dei malati, senza soluzione di continuità dall’età antica al secolo scorso. Il discorso, ovviamente, è valido anche per i centri benedettini del Meridione, dei quali, fra l’altro, sono storicamente provati i legami con i basiliani.
Persistenza di tecniche, dunque. Di centri abitati e di insediamenti monastici. Ma c’è di più. Se si allarga ancora l’obbiettivo, infatti, non si può non prendere atto che la continuità culturale di numerosissime aree del Meridione italiano con l’antichità greco-romana è, in altri ambiti di ricerca, un dato quasi scontato, e garantito da evidenze certe (anche perché materiali).
Diversi aspetti della nostra documentazione archeologica e artistica, d’altra parte, vanno nella direzione di un percorso unitario e continuato della cultura materiale, che dall’antichità giunge fino all’età moderna. La cultura ha viaggiato, oltre che attraverso gli oggetti, anche attraverso le idee (le credenze, le superstizioni), che quegli oggetti veicolavano nella loro funzionalità sociale
Accanto, insieme, agli oggetti e alle tecniche, nei luoghi che ininterrottamente sono stati abitati dall’antichità ad oggi, la tradizione orale ha conservato – nella loro funzionalità, forse fino al secolo scorso, e almeno nella memoria, fino ad oggi – pratiche e credenze millenarie.