
di Claudio Moreschini
Morcelliana
«Presento qui alcuni dei miei contributi più recenti ad un tema che mi ha occupato da cinquant’anni, vale a dire l’interazione tra pensiero cristiano e filosofia greca e latina durante la tarda antichità. Quando cominciai ad affrontare questi problemi il tema era pressoché intatto, o meglio, interpretato in modo preconcetto da una parte o dall’altra: gli studiosi della filosofia antica vedevano nel testo cristiano né più né meno che uno dei tanti testi da usare (e tali testi stavano ad un livello inferiore di intelligenza, cultura, approfondimento razionale, cioè in basso, quasi formando una palude, in contrapposizione alle vette costituite dai neoplatonici e/o dai commentatori aristotelici). Poche erano le eccezioni ammesse: Agostino, Gregorio di Nissa, Pseudo Dionigi l’Areopagita. Dall’altro lato vi erano gli studiosi del cristianesimo antico, che si rifiutavano di vedere nei testi cristiani niente più che non fosse la Sacra Scrittura, e che ritenevano che eventuali elementi della filosofia antica ivi rintracciati in realtà non esistessero o dovessero es sere tenuti in non cale, anche perché evidente oggetto di polemica e di rifiuto da parte dei loro stessi autori. In realtà le cose si rivelarono più complesse e meno nette, ed i problemi quasi stratificati a seconda delle situazioni. È vero che pensatori cristiani non interessati alla tradizione di fede non esistettero, ma ve ne furono alcuni che non videro nella filosofia una contraddizione alla fede, e, per di più, essi ebbero una grande fama sia nella tarda antichità sia nel Medioevo: per quale motivo, se essi furono, come si voleva intendere, solamente degli scrittori che potremmo definire ‘confessionali’? Mario Vittorino, Agostino e Boezio, in Occidente, Sinesio, Gregorio di Nissa e Pseudo Dionigi Areopagita, in Oriente furono sicuramente dei pensatori di forte spessore intellettuale e ben conobbero il neoplatonismo contemporaneo, ma si dedicarono – per quale motivo, allora? – ai problemi della teologia, della cristologia, della etica cristiana. Ma esistettero anche personalità per niente affatto di secondo piano, e certamente colte, come Ambrogio, Gerolamo, Giuliano d’Eclano, Massimo il Confessore. È a costoro che sono dedicate le pagine di questo volume, destinate a comprendere e a interpretare l’interazione tra Scrittura e filosofia, intesa, quest’ultima, come elaborazione, attualizzata ai tempi e ai modi, dello stesso kerygma cristiano. Del resto, che la distinzione tra paganesimo e cristianesimo, tra testo scritturistico e pensiero filosofico non dovesse essere così assoluta come si pensava, è dimostrato anche dal fatto che un paganus pervicacissimus come il poeta Claudiano (e certamente anche un poeta come Ausonio, che qui non prendiamo in considerazione) conosceva benissimo alcune dottrine cristiane, anche se ne rimaneva distante, o un platonico come Calcidio era probabilmente cristiano (esempio palmare di quella sintesi di cui sto parlando) o che le ‘rivelazioni’ a proposito di Dio degli oracoli pagani della tarda antichità, pur riferendosi al dio impersonale dei pagani colti, erano tranquillamente usate da scrittori cristiani come testimonianza del vero Dio, in una osmosi che il Rinascimento avrebbe interpretato in seguito come una sorta di philosophia perennis.
Le ricerche qui presentate si inseriscono organicamente, se non mi inganno, nella più vasta Storia della filosofia patristica, che pubblicai più di quindici anni or sono con il medesimo benemerito Editore (Morcelliana, Brescia 2004). Il rapporto tra cristianesimo e filosofia, ivi scrivevo nella prefazione al volume, è stato visto da tempo come un aspetto della più ampia interazione tra cristianesimo e cultura greco-romana. Con la progressiva evangelizzazione della società greco-romana si verificava, per converso, una accentuata inculturazione della società cristiana; e, di conseguenza, l’impadronirsi, da parte del cristianesimo, non solo delle forme letterarie pagane, ma anche degli strumenti culturali propri della filosofia greca, in tutti i suoi livelli. Ben presto, e precisamente già in seguito ai primi contatti più approfonditi tra le due forme di cultura e di civiltà, quella giudaica e cristiana e quella greco-romana, ebbe luogo la formazione della filosofia cristiana: dapprima in forme più superficiali, ma poi sempre più approfondite. Ma d’altra parte, è ovvio che non è possibile parlare di ellenizzazione tout court, senza tener conto della peculiarità del messaggio cristiano. Il problema di fondo rimane invariato: fino a che punto si può parlare di ellenizzazione? Certo, l’adattamento all’ellenismo era operato mediante gli strumenti forniti dalla società nella quale il cristianesimo stava diventando una componente sempre più esclusiva, ma nessun pensatore cristiano, nemmeno il più aperto all’‘esterno’ (come i cristiani usavano dire), pensò mai di poter rinunciare alle proprie convinzioni di fede: dobbiamo pur sempre tener presente che il mondo greco era (e non senza motivo) pur sempre sinonimo di mondo pagano. Con ragione il Cantalamessa (cfr. Cristianesimo primitivo e filosofia greca, in: Il cristianesimo e le filosofie a cura di Raniero Cantalamessa, Vita e Pensiero, Milano 1971, pp. 26-57) si domanda (pp. 51-52) se sia giusta e coerente «la tendenza comune, oggi nettissima, di giudicare l’ellenizzazione del cristianesimo come un fatto deteriore, una specie di macchia sulla coscienza della religione cristiana». Questo sarebbe, secondo lo studioso, il primo errore di impostazione: «in se stesso il fatto dell’ellenizzazione è perfettamente in armonia con l’indole del cristianesimo, religione dell’Incarnazione e religione universale: religione cioè che per sua natura è capace di incarnarsi in ogni cultura autenticamente umana […] Semmai, è necessario apprezzare la libertà sovrana con cui i Padri piegarono alle esigenze del messaggio cristiano concetti e categorie fondamentali del pensiero greco (come quelli di persona, di ipostasi, di natura…)». Tale libertà mostra con quanta intelligenza essi ellenizzarono il cristianesimo – dall’interno, non dall’e sterno, cioè subendo l’influsso della filosofia greca. «Non è quindi sul fatto dell’ellenizzazione che deve concentrarsi la discussione, quanto, semmai, sul modo e la misura con cui essa si è verificata».