
Questo libro raccoglie vari saggi usciti nel corso di questi anni, ma il titolo dice che non è una semplice collezione di scritti, ma la presentazione di temi e tesi che costituiscono un insieme organico.
Grazie per questa domanda che tocca veramente il cuore del libro. Formalmente, è vero, sono saggi autonomi, ma nella sostanza fanno corpo comune perché riguardano i temi delle fonti e dei topoi e degli intertesti. L’occasione di questo assemblaggio è l’invito a fare la prolusione di un convegno dedicato alle “fonti” che si tiene in Spagna in questi giorni dopo essere stato rinviato per due anni a causa del Covid. L’introduzione al libro — che è poi la sostanza della prolusione — ricostruisce la storia del concetto di fonte e come poi siano sopravvenute nozioni affini/diverse, specificamente quella dei topoi e poi quella dell’intertesto. Nell’antichità non si parlava di fonte ma di un suo possibile sinonimo che è quello del “plagio”. In Marziale, appunto, troviamo l’accusa di plagiarius, e tutti ricordano l’immagine oraziana della cornacchia che rimane nuda non appena le cadano le penne che ha rubato ad altri uccelli. Ma gli antichi conoscevano anche la nozione di “imitazione”, che consigliava di prendere come “modelli” alcuni autori considerati grandissimi e di seguirne le orme. Quindi si cercò di stabilire la differenza tra imitazione e furto, benché in genere si fece poco caso alla nozione e ai casi di furto. Nella storia millenaria delle nostre letteratura, il problema delle “fonti” come plagio, non ebbe episodi clamorosi e non fu mai oggetto serio di discussione. Ci sono stati invece periodi molto lunghi in cui l’imitazione era ritenuta necessaria (si pensi al periodo del nostro Rinascimento) che provava l’idea sempre vera che la letteratura nasce dalla letteratura. Solo nel periodo del Romanticismo, quando l’idea di imitazione ebbe un collasso e si stabilì che la vera e grande letteratura è marcata dal criterio dell’originalità e non da quello dell’imitazione, si è pensato seriamente alle “fonti” come ad un fatto negativo. Ma poi la cultura del positivismo fece delle fonti il punto forte delle sue ricerche perché in una prima fase le riteneva come prova di antiche tradizioni di cultura popolare che erano esistite a fianco delle culture “ufficiali”. In quelle culture popolari da cui nasceva l’epica, imitazione e furto erano valutati in modo positivo perché documentavano la continuità culturale che gli studiosi volevano portare alla luce. E questa nozione passò poi agli studi di letteratura “colta”, e studiosi come Pio Rajna, cercarono le “fonti dell’Orlando furioso”. Contro questo modo di intendere e di usare le fonti insorse Benedetto Croce che dominò la cultura italiana della prima metà del Novecento. Parlare di fonti va bene per chiarire alcuni aspetti del testo, ma non se ne può far uso per dimostrare la qualità della su arte. La Quellenforschung o la ricerca delle fonti che pur ebbe grandi maestri di erudizione impareggiabile, diventò una pratica desueta e perfino disprezzata. Ai primi degli anni ’50 venne di moda la ricerca di topoi o dei luoghi comuni che sono immagini, motivi o situazioni che gli autori usano, e che non sono esattamente delle fonti, ma tipi di clichés che un autore usa non per essere originale bensì per servirsi un linguaggio letterario. Quando poi questo tipo di ricerca dilagò vedendo topoi ovunque e non evidenziando a sufficienza la funzione che possano avere in un testo, la Toposforschung fu accantonata. Ma le fonti, cacciate dalla porta sono rientrate dalla finestra sotto il nome di Intertext. Questo termine, coniato da Kristeva ha suscitato molte discussioni teoriche, e di fatto ha trasformato radicalmente la nozione di fonte. In un senso è facile capire che tra l’Ulysses di Joyce e quello di Omero esista un qualche rapporto, ma certamente non è del tipo che possa ritenersi un plagio. Ad un filologo come Segre serve ancora la vecchia nozione di fonte perché la filologia ancora se ne serve. E per questo egli ha considerato una differenza tra ciò che chiama “interdiscorsività” e intertestualità: nella prima possono rientrare sia le fonti/imitazione che i topoi. Questi sono, grosso modo i temi e i problemi costanti che trasformano una raccolta di saggi in un libro organico.
Nel panorama che ci ha appena delineato non si vede mai se esista o no una “disciplina” o una normativa per trovare le fonti.
Anche questa è una domanda acuta e mi dà modo di esporre un’altra tesi avanzata in questo libro. In effetti non esiste una “disciplina” o una branca di studi che ci insegni il come e il dove cercare le fonti o i topoi o gli intertesti. E un po’ si capisce che sia così. Il furto letterario è singolare perché non lascia tracce in quanto non si nota alcun ammanco nell’opera derubata. Nessun sospetto, dunque, ci spinge a cercare la refurtiva. Semmai il sospetto che esista una fonte nasce quando in un’opera troviamo informazioni e dati che non pensiamo siano “normali” nella cultura dell’autore che studiamo; quando il suo discorso prenda vie che non ci risulta abbia mai percorso; quando cita senza dire da dove o sviandoci con un’attribuzione erronea, e in simili altri casi. Certo, se leggiamo un trovatore o un petrarchista, la supposizione che vi siano delle fonti è quasi automatica perché si parla di poesia “convenzionale”, e semmai il problema è distinguere tra plagio e imitazione. Può succedere anche che troviamo una fonte ma che poi sembri impossibile che un autore se ne sia veramente servito. Lo dimostra un caso raccontato da Croce, il quale leggendo un romanzo di Anne Vivanti trovò l’episodio di un signore che passa la notte con una donna e all’indomani scopre che è una lebbrosa. Croce ricorda di aver letto questa storia e frugando nella sua memoria portentosa ricorda di averla trovata in un romanzo barocco che forse solo lui aveva letto, e che Vivanti sicuramente non conosceva neppure di nome. La conclusione crociana voluta dal buon senso è la seguente: la combinatoria della mente umana è limitata, e due autori possono indipendentemente immaginare una situazione identica. Può anche succedere che, rinvenuta una fonte ne troviamo poi tante altre simili, e allora dovremmo parlare piuttosto di topos.
Quanto poi al trovarle bisogna dire che non conosco alcuna formula per farlo. Certo si può risparmiare tempo evitando di muoversi su terre del tutto estranee all’autore che studiamo, come sarebbe cercare le fonti di Cino da Pistoia nella letteratura greca. In genere c’è un sussidio che però no si può programmare che è la memoria, ossia quella facoltà che crea associazioni che portano a trovare fonti. E quanto più ampio è il campo delle conoscenze del ricercatore, tanto maggiori sono le possibilità di creare tali associazioni. È anche chiaro che si tratta di circostanze e di quell’altro fattore che chiamiamo “fortuna”. Sono convinto che questa signora giochi un ruolo importante nella ricerca tanto scientifica — l’eureka di Archimede — quanto filologica. Comunque stiano le cose, si capisce che la presenza di tanti imponderabili abbia reso impossibile il costituirsi di una disciplina delle fonti. E forse è un bene che sia così: per questo il rinvenimento di una fonte crea sempre il piacere di una scoperta imprevista.
Come vengono applicate queste considerazioni teoriche nel suo libro?
I saggi sono disposti seguendo una linea cronologica che parte dalle opere medievali e arriva ai moderni ispanoamericani. Non seguono alcun criterio tematico, anche se il caso vuole che il primo saggio su Berceo parli sia di fonte che di topos, e che l’ultimo su Borges utilizzi la nozione dell’intertesto. Posso dare solo qualche esempio dei 21 saggi raccolti. Il primo riguarda Gonzalo de Berceo, un poeta del ’200. Nella sua Vida de santa Oria, narra di una giovane che di notte ha un sogno che la porta in paradiso dove vede uno scranno vuoto e le vien detto che è il trono che l’attende quando lascerà questa vita. Bisogna aggiungere che prima dell’evento del sogno, Berceo con la sua voce di autore interviene a dire che deve affrettarsi a terminare l’opera perché la notte si sta approssimando e scrivere a luce di candela è faticoso. Su questo punto è nata un dibattito fra Curtius, il maestro dei topoi, e Dámaso Alonso: il primo dice che si tratta di un topos e il secondo crede che sia un dato realistico. Io direi che abbia ragione Curtius, anche se non spiega bene che si tratta di un topos di transizione perché si sta passando da un fase dell’opera ad un’altra fase. E dovremmo aggiungere che in questo modo l’autore introduce il tema della notte. E qui è il punto: Berceo avrebbe potuto scegliere un altro topos di transizione ma fra tutti quelli che poteva conoscere, ma questo era quello che meglio si fondeva nell’opera perché annuncia, appunto, una transizione dal giorno alla notte in cui avviene il sogno. Bisogna ricordare, infatti, che i topoi non sono originali, ma proprio per questo garantiscono la comunicazione. Berceo scegliendolo fra i vari altri disponibili, lo fonde perfettamente nel flusso della storia, e in questo modo il luogo comune cementa l’unità estetica dell’opera. Della sedia vuota, invece, dobbiamo parlare come di una vera fonte perché troviamo un solo antecedente che è nell’Apocalisse dove troviamo le immagini di troni vuoti (etimasia) destinate agli eletti beati. Il nostro discorso, però, non può fermarsi a questa scoperta. Deve illustrare come quel trono vuoto crei un dramma esistenziale nella giovane santa che vive martorizzandosi per meritarsi quel trono già assegnatole. Con questa fonte del trono vuoto Berceo ha saputo creare un dramma esistenziale quale può essere quello di un destino annunciato. Si vede, dunque, che la fonte arricchisce la comprensione dell’opera e non è una semplice trouvaille erudita. Prendiamo il caso di Don Chisciotte, un personaggio il cui comportamento è prescritto dai libri che ha letto. In un dato momento egli attende con ansia che arrivi la notte, e quindi rivive la situazione di tanti amanti che da Ovidio, alle serena dei trovatori, alle smanie del Calisto della Celestina, alla Giulietta di Shakespeare pregano che la notte arrivi quanto prima. Ma Don Chisciotte, è originale nell’essere convenzionale: la notte che sta per venire vedrà la liberazione della sua Dulcinea dagli incantesimi di una maga. In questo caso è proprio il luogo comune a farci cogliere l’originalità di chi lo usa.
Di fonte vere e proprie do vari esempi, di cui menzionerò solo quello di Pedro Mexía che in un capitolo della sua Silva de varia lección ricorda e descrive le dieci sibille indicate da Varrone. È un capitolo di densa erudizione, ed è ìmprobabile che Mexía la tiri fuori dal suo sacco. In effetti egli riprende il tutto dal commento di Luis Vives al De civitate dei di S. Agostino, e non sto a dire quali combinazioni di fortuna mi abbiano messo su questa strada. Anche qui la scoperta delle fonti non è un fatto che rimanga fine a se stesso, ma dimostra come l’autore della Silva, si compiaccia di presentare ai lettori notizie rare ed erudite, e in questo caso l’opera di Vives serve a soddisfare il suo scopo estetico primario.
All’intertestualità dedico l’ultimo saggio che verte sull’enciclopedia cinese di Borges, celebre anche per aver ispirato Les paroles et le choses di Michel Foucauld. Credo che in quella comicissima descrizione, Borges abbia presente l’articolo “Chinese Encyclopaedia” della Britannica del 1911. Troppo lungo da spiegare, comunque credo che sia un chiaro esempio di un intertesto, cioè di un testo che “dialoga” o che si “ispira” ad un altro. E, così, sia pure in questa maniera rarefatta, torna il problema delle fonti, che abbiamo visto nelle varianti dei topoi e degli intertesti.
Nel complesso i tipi di ricerca utilizzati in questo volume ci riportano alla “letteratura” in quanto scrittura di opere in un linguaggio letterario, e sono forme di una critica letteraria che ancora tiene fronte contro l’avanzata dei “cultural studies” che non badano più a quel linguaggio.