Dott. Antonio Cuciniello e Stefano Pasta, Voi avete curato l’edizione del libro Studenti musulmani a scuola. Pluralismo, religioni e intercultura pubblicato da Carocci: quali domande pongono alla scuola italiana bambini e ragazzi, in particolare “di seconda generazione”, di fede islamica?
Per iniziare, è importante sottolineare che al centro dell’interesse di questo libro vi è l’islam nelle scuole dei diversi ordini e gradi in Italia, una presenza dalle tante sfaccettature. Infatti, la pluralità delle provenienze geografiche pone come conseguenza una netta complessità anche nelle pratiche religiose vissute e professate, al di là della tradizionale divisione tra sunniti e sciiti. Nel contesto scolastico, quello dell’islam è un tema che non sempre emerge nei curricoli delle diverse discipline, sebbene sia una questione spesso al centro del discorso sia pubblico sia mediatico e politico. Non da ultimo, è un argomento su cui tutti sanno o vogliono dire qualcosa, molto spesso con il rischio di scadere in eccessive semplificazioni, se non stereotipi e pregiudizi. Fatta questa premessa, le domande che bambini e ragazzi, in particolare “di seconda generazione”, di fede islamica che pongono alla scuola italiana possono essere sintetizzate in un desidero, più o meno evidente, di essere riconosciuti nella loro “diversità”. In questa prospettiva ci piace riportare quanto scrive Anna Granata nel suo contributo dal titolo Crescere con l’islam: sfide e risorse delle nuove generazioni presente nel vol. da noi curato: “La scuola è un luogo altro, uno spazio di riconoscimento di sé, ma anche il luogo dove poter costruire una propria identità autonoma, distinta rispetto a quella della famiglia e della comunità”.
Come parlare di islam a scuola?
Antonio Cuciniello: In generale, la trattazione delle religioni deve seguire una linea che porti a individuare gli aspetti più significativi per il dialogo interreligioso, inteso come “dialogo dialogante” tra persone pronte a interagire con credenti (o non credenti) proprio a partire da un elemento condiviso, vale a dire l’essere persone. Di contro, l’analfabetismo del sacro mette nella condizione di ignorare che le religioni riflettono la storia, l’evoluzione sociale, le influenze reciproche. La presenza crescente nella scuola di culture/fedi altre rende necessaria anche la revisione in prospettiva interculturale dei curricoli. In questo senso, di fondamentale importanza è anche la scelta responsabile di libri, materiali e strumenti didattici. In effetti, si tratta di “ferri del mestiere” che, al di là dei contenuti disciplinari specifici, si fanno spesso portavoce di visioni del mondo e modelli valoriali di riferimento che rispecchiano la realtà culturale in cui sono stati concepiti e vengono impiegati. Tuttavia, pur ammettendo alcuni passi avanti grazie a una maggiore consapevolezza analitica da parte dei docenti, nel caso specifico del sapere religioso, diverse ricerche hanno rilevato che, oltre alla qualità spesso discutibile delle nozioni e delle informazioni che riportano, lo spazio dedicato rimane ancora troppo esiguo per poter trattare in modo serio civiltà e culture religiose che non sono nate ieri. Non da ultimo, pur sottolineando il fondamentale elemento dell’interdisciplinarità per promuovere la conoscenza delle religioni, nella pratica didattica andrebbero incoraggiate iniziative più ampie in termini anche di coinvolgimento della cittadinanza. In questa operazione, certamente possono essere di grande supporto realtà specifiche (Tavolo interreligioso, Forum delle Religioni, Comitato Interfedi, gruppi specifici della CEI), attraverso, ad esempio, percorsi formativi organizzati con gli stessi rappresentanti delle varie religioni e/o confessioni, o di associazioni culturali, interreligiose. Inoltre, di grande valore pedagogico sono le visite didattiche ai luoghi di culto (e.g. chiese, sinagoghe, moschee) che sollecitano anche occasioni di incontro con i fedeli che li frequentano e opportunità di scoprire il modo in cui le diverse realtà religiose creano un legame con il territorio in cui vivono
Quali scelte didattiche sottolineano i punti di contatto e gli intrecci storico-religiosi fra Occidente e civiltà arabo-islamica?
Antonio Cuciniello: Risponderei a questa domanda con un’altra domanda: come si potrebbe capire il cristianesimo senza l’ebraismo o l’islam senza l’ebraismo e il cristianesimo? Nel caso specifico dell’islam, partendo da un per corso con un taglio antropologico contestualizzato nell’area culturale mediterranea, andrebbe valorizzata la comune discendenza abramitica che può agevolare percorsi di collocazione del fenomeno religioso in un’ampia cornice. In questo senso, il contributo di testimonianze dirette dei ragazzi cosiddetti di “seconda generazione” è sicuramente molto prezioso. Al contrario, pur senza negare le specificità e le criticità, perpetuare quasi esclusivamente l’enfasi su un confronto impari solo su aspetti che dividono, anziché su elementi comuni che uniscono riflette una percezione frammentata e frammentaria della storia religiosa.
In che modo l’educazione interculturale può rappresentare un antidoto all’analfabetismo religioso a scuola?
Antonio Cuciniello: Anzitutto terrei a fare una premessa: all’interno di una società multireligiosa quale la nostra, accanto all’analfabetismo funzionale, quello di tipo religioso, non raramente sostenuto anche da luoghi comuni e pregiudizi, può comportare costi sociali non indifferenti in termini di incidenti (inter)culturali, se non addirittura conflitti nei luoghi del quotidiano. Specificamente negli spazi scolastici, la diversità religiosa attraversa le storie di chi li abita, pertanto la pedagogia interculturale è chiamata ad affrontare il tema del pluralismo religioso con un ruolo specifico, ossia riuscire a interpellare la scuola affinché il tema della diversità religiosa sia affrontato sul piano delle conoscenze, accanto a un dialogo sicuramente proficuo su principi, valori e intime convinzioni di ogni persona. In definitiva, la presenza di fedi minoritarie nello spazio pubblico richiama in modo particolare il decisivo ruolo che la scuola ha nei processi educativi. Senza dubbio, questa presenza coinvolge la discussione sull’educazione religiosa, nella quale una definizione ampia di cittadinanza può trovare conferma, o negazione, oltre a essere una fondamentale occasione per educare al pluralismo culturale e impedendo, per questa ragione, la formazione del pensiero radicale
Come è possibile contrastare l’islamofobia online e offline?
Stefano Pasta: Innanzitutto vi è una scelta metodologica che risponde a una lettura interpretativa. Online e offline vanno considerati, pur con le loro specificità, in netta continuità e reciproco rimando. L’opposizione della lingua italiana tra “reale” e “virtuale” è fuorviante se apre a forme di deresponsabilizzazione verso le azioni nell’ambiente digitale. Invece la Rete è “realtà aumentata”, ciò che agiamo nel Web è reale (e quasi sempre pubblico) e dice che tipo di comunità vogliamo essere. Siamo esseri umani definitivamente connessi, in cui offline e online non sono due dimensioni distinte ma si compenetrano. Riprendendo l’efficace espressione di Luciano Floridi, parliamo di “Islamofobia onlife” per indicare come la diffusione e propagazione di sentimenti di ostilità verso i musulmani avvenga in continuità e con reciproci rimandi tra online e offline. Nel capitolo dedicato al tema presentiamo uno spettro dell’islamofobia associato ai seguenti “discorsi”: l’identificazione di tutti i musulmani a potenziali terroristi; l’ostilità antimusulmana che si salda al sentimento xenofobo contro gli immigrati; uno scontro valoriale come forma di reazione alla presunta “islamizzazione” dell’Italia che confessionalizza la teoria della sostituzione etnica strettamente connessa al razzismo culturalista e differenzialista, basato sull’impossibilità della convivenza per un’inconciliabile differenza culturale (“i musulmani sono troppo diversi, è impossibile vivere insieme”); l’Islam per essenza anti-Occidente, ossia l’idea basata sull’accusa di antidemocraticità declinata verso una difesa laica dei diritti soggettivi tutelati dalla Costituzione, ai quali tutti i musulmani in Europa – secondo tale “vulgata” – non vorrebbero adeguarsi, in nome della presunta superiorità delle leggi religiose.
La recente legge sull’Insegnamento dell’educazione civica (92/2019) potrebbe essere un’opportunità per la scuola italiana per contrastare i sentimenti antimusulmani.
In che modo l’integrazione consente di prevenire le forme di radicalizzazione?
Stefano Pasta: Basterebbe ricordare che l’integrazione è nei fatti ciò che l’estremismo violento avversa, per capire come società coese socialmente siano la via per prevenire la radicalizzazione. Per i ragazzi musulmani lo sforzo di armonizzazione dei modi di comprendere e interpretare la realtà, di decostruzione/costruzione, adattamento, è simile a quello degli altri ragazzi con elementi culturali di differenza con la società maggioritaria. Ma la differenza religiosa può segnare in profondità la loro crescita e i processi di integrazione nell’ambiente circostante. Come per tutti, il rapporto con la fede è profondamente diverso: per alcuni un’eredità di cui lentamente liberarsi, per altri un elemento chiave della vita. Come molti coetanei italiani, possono mantenere un’identità religiosa “di facciata” senza partecipazione attiva alla comunità come tassello del mosaico identitario, ma la caratterizzazione del musulmano agli occhi esterni rimane significativa e incide sui loro processi di crescita. Per loro vale – forse più che per altri gruppi – il rischio di essere sempre considerati stranieri sul proprio territorio.
In questo quadro, Milena Santerini, responsabile scientifica dell’équipe di ricerca in Primed dell’Università Cattolica, riflette sul tema dell’estremismo giovanile. Sebbene riguardi un numero estremamente limitato di giovani in Europa, e ancor meno in Italia, il fenomeno di chi aderisce a ideologie violente in nome dell’islam è divenuto inquietante specie negli anni dal 2013, quando la sanguinaria avventura del Califfato ha attirato giovani da tutti i paesi del mondo.
È opportuno quindi distinguere, come propone Khosrokhavar, tra due categorie di giovani coinvolti in queste dinamiche. La prima è costituita dai giovani che soffrono a causa dell’emarginazione sociale, per lo stigma della diversità e la frustrazione collegata al pregiudizio diffuso antiislamico, per l’assenza di futuro. Il secondo gruppo proviene, invece, dalle classi medie e riguarda giovani che cercano una sicurezza e un’identità regressiva che trovano in norme restrittive, addirittura punitive, desiderando il fascino di un’autorità che la nostra società frammentata non fornisce più e cercando il sacro nella forma più regressiva e repressiva. Dal punto di vista educativo e sociale risulta inutile, se non controproducente, cercare di far corrispondere ad un profilo tipo le strategie di intervento. Ogni storia infatti presenta le sue particolarità e deve essere vista nel contesto in cui si colloca. Indubbiamente, come per ogni altra forma di disagio, occorre anzitutto evitare di trovare spiegazioni monocausali. Compito di chi vive e lavora con i giovani è capire i modi con cui si affermano nelle nuove generazioni intolleranza, insensibilità, abitudine all’umiliazione o alla derisione, liquide e banalizzate.
Che forma assumono festività, insegnamento e simboli religiosi alla prova del pluralismo sui banchi di scuola?
Stefano Pasta: Con il nostro testo vogliamo aiutare anche la scuola a fare i conti con l’ampio mutamento antropologico, già avvenuto, per cui “italiano” non coincide per forza con “cattolico”. Festività, insegnamento e simboli religiosi sono temi “spinosi” da questo punto di vista. Romeo Astorri dell’Università Cattolica vi dedica un capitolo che, da giurista, si muove tra giurisprudenza europea e legislazione nazionale. Parla di Islam, ma non solo: si pensi al kirpan rituale portato dai sikh. Di fronte ai problemi posti dalla globalizzazione, che porta molte più fedi a convivere nel medesimo spazio, il legislatore è costretto a bilanciare interessi che fanno capo a religioni, non solo differenti, ma anche non più accomunate dalla derivazione da una medesima origine. La sfida, che accomuna giuristi, educatori, insegnanti e cittadini in senso ampio, è garantire, anche tra i banchi, un pluralismo sociale che concili la libertà di ciascuno con una prospettiva interculturale di valori comuni.
Antonio Cuciniello è assegnista di ricerca in Storia dei paesi islamici presso l’Università Cattolica di Milano
Stefano Pasta è assegnista di ricerca in Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università Cattolica di Milano dove insegna Metodologia delle attività formative