
Come nella società odierna, anche in quella romana il sistema giuridico impiegò parecchio tempo prima di riconoscere ufficialmente i beni comuni. La consapevolezza sul tema è molto anticipata e più diffusa nella società civile rispetto agli sviluppi della scienza giuridica; i giuristi romani, che non vivevano certo isolati in una torre d’avorio, furono influenzati proprio dalle concezioni filosofiche presenti nel patrimonio culturale romano, grazie alle quali crearono una nuova categoria giuridica, le res communes omnium (cose comuni di tutti).
Non è una novità che la giurisprudenza romana sia stata debitrice di speculazioni teoriche elaborate a livello filosofico, anche se di rado essa dichiara espressamente tale debito; tuttavia, non credo che per i giuristi romani l’opportunità di considerare comuni certi beni poggiasse già su un’idea, radicata e condivisa, di giustizia e di humanitas. L’introduzione della nuova categoria giuridica fu resa necessaria piuttosto da esigenze pratiche, in primo luogo dal mutamento di significato subito dal concetto di ‘pubblico’, il quale nel passaggio dall’epoca repubblicana a quella imperiale si era svuotato dell’idea di popolare che vi era implicita: mentre sotto la repubblica i beni si dividevano in privati e pubblici e questi ultimi erano intesi anche come beni di tutto il popolo, sotto l’impero le res publicae cominciarono a essere considerate solo come beni appartenenti all’ordinamento statale. Ciò impose la creazione di una terza dimensione, quella appunto delle res communes omnium, categoria fondata sullo ius naturale, ossia sull’idea di un diritto comune a tutti i popoli, concetto che consentì ai giuristi romani di considerare l’umanità stessa come soggetto collettivo, al pari del populus e delle comunità cittadine.
Qual è la natura del possesso nel diritto romano classico?
Secondo la concezione moderna per possesso si intende l’esercizio di fatto di un diritto reale: possiede il diritto di proprietà o un altro diritto reale limitato chi lo esercita, a prescindere da chi abbia la titolarità dello stesso.
La possessio romana era concepita, invece, come semplice signoria, egemonia su di una res, come utilizzo della cosa fatto dall’uomo. Anche la derivazione etimologica da pot-sedere (pot da potis, potio, potestas, potentia) indica l’idea di risiedere, insediarsi su di un bene con la forza. Ancora più chiaro il paragone prospettato dal giurista della tarda epoca classica Giulio Paolo: come non possono due persone stare sedute nel medesimo posto allo stesso tempo, così il possesso non può essere tenuto contemporaneamente da due soggetti.
Naturalmente, perché il potere di fatto esercitato dall’uomo sulla cosa fosse rilevante per il diritto, esso doveva essere volontario e quindi il soggetto doveva essere capace di intendere e volere: non avrebbe avuto nessun valore la disponibilità fisica di una cosa esercitata da un pazzo o da un bambino.
Quale riflessione si sviluppa nell’antichità intorno a corpus e animus della possessio?
Oltre alla coscienza e volontà della materiale disponibilità del bene, in molte fonti si parla di un possidere corpore e di possidere animo, testi che hanno portato alla concezione del possesso come unione di un elemento fisico e dell’intenzione di possedere. Secondo la nota teoria di Friedrich Carl von Savigny – che ha condizionato tutta la successiva dottrina romanistica e civilistica, fino alla metà del secolo scorso – corpus e animus indicherebbero due componenti essenziali del possesso, la detenzione della cosa (corpus possessionis) e l’intenzione di esercitare sulla stessa il proprio diritto di proprietà (animus domini o rem sibi habendi).
Questa teoria si scontra però contro il dato sopra evidenziato per cui il possesso romano non è l’immagine esteriore di un diritto, ma piuttosto un semplice rapporto materiale con la cosa: se così stanno le cose, i giuristi romani non possono aver concepito un elemento soggettivo nell’ambito possessorio inteso come intento di esercitare un dato diritto reale.
Da uno studio attento delle fonti classiche risulta, invece, che i due termini corpus e animus facevano riferimento soltanto a due distinti mezzi con i quali l’uomo poteva operare sulla cosa: quelle espressioni stavano a indicare semplicemente le parti di cui è costituito l’essere umano, tramite le quali egli può interagire con le cose e averne il possesso. Dal momento che il possesso non era un diritto, per esso non valevano le regole previste in materia di acquisto, conservazione e perdita dei diritti; bisognava allora individuare delle modalità maggiormente confacenti alla particolare natura della possessio, fortemente connotata dalla fisicità: questi schemi alternativi vengono trovati facendo riferimento alla dimensione fisica dell’uomo, la quale è composta, secondo una tradizione filosofica consolidata nell’antichità, di corpo e mente, di corpus e animus.
I Romani parlano, dunque, di un possidere corpore, cioè con il proprio corpo, e non già di un corpus elemento del possesso.
D’altro lato, il termine animus nell’ambito della possessio romana sta a indicare proprio l’animo del possessore, tramite il quale egli esercita sulla cosa una sorta di ‘forza mistica’ quando la disposizione materiale, per un motivo o per un altro, non sia attuabile: usando un’allegoria, si può dire che tramite la vista l’oggetto viene portato dentro l’animo della persona e in questo modo egli ne acquista il possesso.
Qual era il ruolo della fides nei fenomeni aggregativi in Roma antica?
Tra i principii che regolano il comportamento dell’uomo romano in tutti gli aspetti della sua vita sociale, privata e pubblica, il più importante è senza dubbio la fides: si tratta della qualità di un soggetto che appare ‘affidabile’ rispetto ai suoi comportamenti e alle sue parole, è la virtù cardine delle promesse e dei giuramenti, definita da Cicerone come il fondamento della giustizia, quella dote che garantisce la stabilità e la sincerità degli impegni e degli accordi.
I Romani associano alla fides la garanzia dell’ordine sociale e della distribuzione del potere; essa è il presupposto di tutte le relazioni di reciprocità, il criterio che rende vincolanti non solo i giuramenti e le promesse, ma anche i patti e le alleanze, i negoziati e i commerci; la violazione della fides è considerata atto di estrema gravità, sanzionato con conseguenze religiose e giuridiche.
Perciò, si può ben dire che la fides sia un principio fondamentale non solo nell’ambito del contratto di società, ma in tutti i fenomeni aggregativi; essa è la base di qualunque relazione sociale, è quella dote che permise al popolo romano di raggiungere la grandezza che tutti conoscono.
Come si configurava nel diritto romano l’actio de dolo malo?
Bisogna innanzitutto osservare che il termine dolo è connotato da una profonda ambiguità semantica, oggi come ieri: esso può indicare in generale la coscienza e volontà di commettere un’attività illecita oppure l’inganno che vizia la volontà contrattuale. Nel mondo romano poi esso rappresentava una categoria ancora più ampia, priva di rigorosi confini concettuali: in questo modo gli strumenti processuali contro il dolo potevano proteggere una grande varietà di situazioni e interessi. In particolare, l’actio de dolo serviva a colpire qualunque condotta che arrecasse un danno, qualora la vittima non potesse utilizzare alcun altro strumento giudiziario per ottenere tutela e il magistrato ritenesse che la posizione del danneggiato meritasse protezione. In altre parole, potremmo dire che essa sanzionava qualunque comportamento con il quale un soggetto arrecasse ad altri un danno ingiusto e pretendesse di non risarcirlo, giovandosi del fatto che l’ordinamento non prevedeva una specifica sanzione per il suo contegno.
Come si è sviluppata la sistematica del codice civile italiano in tema di responsabilità civile?
Nell’ultimo capitolo del libro affronto un tema centrale per la civilista moderna, la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, prospettando provocatoriamente la possibilità che essa in realtà non esista, in quanto non è imposta dal nostro codice civile, anzi da una lettura sistematica delle norme contenute nel libro quarto del codice risulterebbe il contrario.
La cosiddetta responsabilità contrattuale, regolata dagli articoli 1218 e seguenti del codice civile, è infatti responsabilità per inadempimento di qualunque obbligazione, quale che sia la fonte dalla quale l’obbligazione inadempiuta derivi: può trattarsi di un contratto come di un fatto illecito ovvero di un altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico, secondo l’elencazione contenuta nell’articolo 1173.
Il nostro codice distingue tra obbligazioni contrattuali e obbligazioni extracontrattuali, non invece tra diversi tipi di responsabilità, perciò ritengo più corretto parlare di un’unica responsabilità civile per designare la responsabilità regolata dal diritto privato, che si contrappone alla responsabilità penale e a quella amministrativa.
Questa conclusione è coerente col fatto che oggi l’obbligo di risarcire il danno arrecato da un fatto illecito e quello derivante dall’inadempimento di un contratto hanno la medesima funzione: in entrambi i casi la finalità è quella di esercitare un controllo qualitativo sulla circolazione della ricchezza, così da consentire una equa ridistribuzione delle risorse attraverso il risarcimento del danno. Sia l’obbligo di risarcimento derivante da un illecito sia quello derivante dall’inadempimento di un contratto hanno la funzione di riparare la lesione di un interesse meritevole di tutela; nel diritto romano si distingueva, invece, tra azioni reipersecutorie e azioni penali proprio in base alla loro diversa funzione: caduta la funzione penale, nel nostro ordinamento non c’è più ragione di distinguere tra le due forme di responsabilità.
Paola Lambrini è professore ordinario di Diritto romano presso l’Università di Padova e presso la Facoltà di diritto canonico San Pio X di Venezia; ha al suo attivo numerosi saggi e monografie dedicati al diritto antico e vigente.