
A dispetto della sua apparente democraticità (tutti i gruppi stanno in un regime di parità e di rispetto reciproco – laddove il “rispetto” significa sostanzialmente “indifferenza”), il multiculturalismo si rivela molto problematico. Infatti, la coabitazione pacifica di gruppi differenti che, all’interno di un’ottica che potremmo chiamare relativista, si limitano a non interferire negativamente l’uno con l’altro, regge sufficientemente bene in tempi ‘normali’ ma in presenza di tensioni sociali si trasforma immediatamente in scontro; l’indifferenza reciproca è infatti potenziale diffidenza pronta a divampare improvvisamente in forma di violenza. Lo vediamo sia nel mondo greco, dove Aristotele ci informa delle sedizioni avvenute in diverse città (Sibari, Turi, Zancle, Bisanzio etc.) che avevano accolto un gran numero di stranieri provenienti da uno stesso luogo, sia nell’attualità dei nostri Paesi multiculturali (ricordo, solo a titolo esemplificativo, i casi dei disordini – per non dire rivolte – di Los Angeles nel 1992, Parigi nel 2005, 2015 etc., Rosarno nel 2010, Stati Uniti (2016, e le tante altre fino a quelle in occasione dell’uccisione del nero George Floyd da parte di un poliziotto bianco nel 2020). La multiculturalità, o diviene intercultura, relazione e meticciamento, insomma incontro, scambio e trasformazione reciproca delle parti in causa, o resta semplice somma, aggregazione meccanica in un equilibrio precario, pronto a venir meno alla prima occasione e a degenerare in conflitto violento. Platone aveva chiaro che, “per […] una massa eterogena che confluisca in uno stesso territorio […], il fatto di dover affiatarsi (sympnéusai, letter.: respirare insieme) e, come si suol dire, sbuffare al pari di una coppia di cavalli ognuno nella stessa direzione richiede tempo e pone difficoltà” (Leggi 708d).
Beninteso, a rigore non si tratta di far convivere in modo meticciato identità culturali differenti, perché è la nozione stessa di identità culturale a essere infondata: essa rimanda ad una delimitazione di confini che non corrisponde ad alcuna realtà. Esiste però, ed è questo che bisogna far cambiare, la percezione dell’identità culturale: essa è il modo di vedere “Noi” e gli Altri che si acquisisce e si fabbrica attraverso l’educazione e può quindi essere indirizzata. La prova più chiara della sua costruzione è fornita dal fatto che anche uno stesso gruppo non dà sempre la stessa definizione di sé o degli Altri ma la varia, consapevolmente o no, in funzione dello scopo che persegue. Così, nel V sec. a.C., il siracusano Ermocrate, volendo aggregare i Greci della Sicilia contro la minaccia degli Ateniesi, davanti a tutti i Sicelioti (appartenenti a stirpi diverse) ricorda loro che essi sono legati dal fatto di coabitare un’unica terra che deve difendersi da stranieri, mentre quando parla nella città dorica di Camarina fa appello al fatto che essa, come la sua Siracusa, è di stirpe dorica. In breve, una volta l’identità è disegnata in termini di unità geografica e un’altra in termini di unità di stirpe.
Il partito italiano della Lega non ha operato molto diversamente quando prima ha costruito la propria identità (di “Nord”) in termini di differenza – e di differenza screditante dell’Altro – rispetto al Sud (“terrone”, etc.), per poi cambiare narrazione (parlando di identità italiana) quando ha cercato di affermarsi in territorio nazionale e ha costruito altre alterità cui contrapporsi screditandole (l’Europa “oppressiva della sovranità nazionale”, i migranti africani “terroristi, stupratori” etc.). L’identità è sempre una costruzione ad hoc, non la descrizione di una realtà, e valori identitari, di fatto, si declinano come si vuole. Essi non esistono in se stessi ma sono il frutto della selezione di quei tratti di volta in volta utili a disegnare l’unità e la coesione degli individui … che, attraverso l’esclusione di Altri, si vogliono rendere uniti e coesi.
Furono i Greci a coniare il termine «barbari» per indicare i popoli diversi dal loro: qual era la concezione dello straniero per gli antichi Greci?
Il termine greco più comune per indicare lo straniero è xénos (nei poemi omerici spesso un profugo o un naufrago o un mendicante), che designa al contempo anche l’ospite, cioè l’individuo verso il quale si ha l’obbligo di accoglienza e assistenza. Tale obbligo è sancito religiosamente: gli dèi stessi spesso prendono le sembianze appunto di uno xénos per verificare se gli uomini sono pietosi accogliendo uno straniero oppure no. Esso nasceva dalla consapevolezza che, in un mondo in cui, appena si usciva fuori dai confini della propria polis, la precarietà della propria sicurezza diventava subito chiara a ognuno, la condizione di estraneità e di bisogno veniva riconosciuta come un rischio che in un certo momento stava correndo l’Altro ma in un altro poteva essere toccare a se stessi. Probabilmente, il fatto che oggi Noi mostriamo spesso di non provare alcuna empatia per chi si trova nella dolorosa condizione di straniero, profugo, naufrago è dovuto al nostro stato di benessere e di sicurezza (noi non corriamo il rischio di diventare profughi e naufraghi…).
L’idea greca dell’obbligo di ospitalità non significa che quel mondo non conoscesse il razzismo o la chiusura verso l’Altro. In certe condizioni conobbe sia l’uno sia l’altra, anche se in forma per certi versi differente da come li conosciamo noi. Studiarne l’origine e le dinamiche ci può aiutare a vedere meglio che, come dicevo prima, la percezione dell’identità e dell’alterità non ha nulla di naturale – non rinvia ad una “realtà” dell’identità e dell’alterità – ma è dovuta a motivi storici, prendendo consapevolezza dei quali possiamo, se vogliamo, cambiare la nostra percezione.
La storia della parola bárbaros illustra perfettamente il meccanismo che in ben precise condizioni ha portato alla costruzione di un’alterità connotata in senso negativo. Originariamente per i Greci bárbaros è semplicemente chi parla una lingua che essi non comprendono e che quindi, al loro orecchio, arriva come una serie di suoni senza significato (bar-bar). Quindi, dire che qualcuno era bárbaros non aveva nulla di offensivo; significava nient’altro che quel qualcuno parlava una lingua i cui suoni per un Greco erano privi di significato: bárbaros indicava banalmente il non-Greco. Ma, nel particolare contesto della guerra tra Greci e Persiani (499-479 a.C.), cioè quando chi, come i Persiani, parla una lingua incomprensibile, adesso è nemico in senso stretto, militarmente, ecco che allora il termine bárbaros viene caricato di una connotazione eticamente negativa e acquisisce il significato di “incivile, crudele” e insomma viene a designare tutti gli epiteti che ‘legittimamente’ possono essere attribuiti ad un invasore. Dunque, per definire l’identità dell’Altro, adesso, si seleziona il tratto denigratorio che è dovuto semplicemente al fatto che con quello si è entrati in guerra e quindi va visto nei suoi elementi che lo possano opporre ai Greci ideologicamente.
È da notare inoltre che gli antichi Greci, come anche noi oggi (a differenza di quanto accadeva nell’Ottocento e nel Novecento e di quanto continua ad accadere all’interno di frange, spero ristrette, di suprematisti bianchi), erano fautori di un razzismo non fondato sul colore della pelle ma sulla (pretesa della) cultura. Il loro, come il nostro, è un ‘razzismo democratico’: da un lato si vanta (come Pericle!) di offrire il proprio territorio aperto agli stranieri, e dall’altro proclama che “Noi” siamo progrediti culturalmente, nel modo di vivere, di pensare, nelle istituzioni politiche, nella religione etc., mentre “gli Altri” sono rimasti incolti a tutti questi livelli. Basti citare un paio di esempi che danno ragione delle analogie ma anche delle differenze: come gli Ateniesi si vantavano di non andare più in giro, nella vita quotidiana, armati, come invece continuavano a fare i ‘barbari’, o rimproveravano a questi ultimi di essere abituati a regimi dispotici, così oggi (quando alcuni chiedono che diventi legge il diritto di andare in giro armati!) possiamo vantare che Noi abbiamo la democrazia ed esercitiamo la tolleranza mentre gli Altri sono abituati a istituzioni oppressive e a modi di pensare violenti e maschilisti (naturalmente omettiamo il fatto che, oltre a questi difetti, gli Altri hanno a volte anche pregi che Noi non abbiamo: un più spiccato senso comunitario, un maggiore rispetto per gli anziani o un migliore rapporto con la natura).
I Greci antichi erano «nazionalisti»? Qual era la loro consapevolezza della propria identità etnica?
L’idea di una “identità etnica” forte si sviluppò, come dicevo, in occasione delle guerre persiane e si strutturò intorno all’unità di sangue, lingua, religione e usanze. Il che era una costruzione essa stessa: lo stesso Erodoto, nella cui opera la troviamo formulata, mostra nel corso delle sue ricerche che molte credenze religiose venivano alla Grecia dall’esterno, e in particolare dall’Egitto. L’idea dell’unità greca si riaffaccia ogni volta che si perora la guerra contro i Persiani (come fa nel IV sec. a.C. anche Isocrate), mentre di solito si propaganda l’idea dell’identità cittadina, cioè della singola polis, che giustifica le guerre che appunto le singole città conducono contro altre singole città; oppure, come abbiamo visto sopra – e sempre in ottica bellicista – l’identità di stirpe (ionica vs. dorica) o territoriale (la Sicilia vs. la Grecia continentale).
Nell’antica Atene, gli stranieri erano esclusi dalla partecipazione politica, relegati al rango di meteci: in cosa consisteva lo status giuridico di stranieri?
Le parole xénos e bárbaros non erano le uniche con cui veniva categorizzato lo straniero; ce ne sono diverse altre. Una di queste era métoikos, “meteco”, che si applicava a chi occupava lo status giuridico, concesso dalla polis in cambio del versamento di una tassa, di “residente” (questo, appunto, il significato etimologico del termine in questione). Il meteco risiede in una polis che non è la sua ma non ha diritto di cittadinanza; dunque, non può agire autonomamente in tribunale ma ha bisogno di un “patrono” cittadino che lo rappresenti formalmente, e soprattutto non ha il diritto di proprietà del suolo (posseduto soltanto dal cittadino), sicché può esercitare esclusivamente mestieri di ‘servizio’ per la pubblica utilità (ma, appunto per il loro carattere di servizio, cioè di lavoro dipendente – come quello schiavile – screditate): non l’agricoltura, riservata appunto ai cittadini, bensì l’artigianato, il commercio, l’attività bancaria.
In che modo l’analisi delle pratiche di un tempo lontano da quello odierno può far luce sul nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri?
Direi: attraverso l’individuazione di analogie e differenze tra quel mondo e il nostro. Spero di averne dato un esempio chiaro e concreto in queste mie Risposte, e ancor più nel mio libriccino Stranieri. La comparazione ci offre la possibilità di riflettere autocriticamente meglio: non perché nell’antica Grecia possiamo trovare (presunti) modelli da imitare; bensì perché il materiale storico ci permette di ‘vedere’ problemi e soluzioni confrontabili con i nostri e esperienze e idee che possiamo rielaborare e declinare in modo adeguato ai nostri tempi – esperienze e idee che non solo si aggiungono numericamente a quelle già prospettate da chi sul Presente riflette direttamente, senza ricorrere all’orizzonte diacronico della Storia, ma che a volte permettono di immaginare sia soluzioni sia impostazioni di problemi qualitativamente diverse e dunque più originali di quelle che nascono solo dall’analisi del Presente e all’interno delle categorie mentali in esso vigenti che, nell’appiattimento e conformismo dilaganti, rischiano di essere sempre più ristrette e conseguentemente di carattere apparentemente tecnico, mentre sono soltanto tecnocratiche. L’indagine storica può funzionare come un lampione: questo, mentre illumina gli oggetti che gli stanno intorno, illumina anche se stesso, la ricerca storica, almeno se svolta in un certo modo, può illuminare il tempo di cui ha scelto di occuparsi e al contempo se stessa e il proprio tempo.