
Quale ruolo svolgono le istituzioni ecclesiastiche nella conservazione del patrimonio librario?
Le istituzioni ecclesiastiche hanno svolto nel Medioevo e nei secoli seguenti un ruolo fondamentale nella conservazione dei patrimoni librari europei e nelle possibilità offerte agli studiosi di accedervi senza grandi difficoltà. Già dalla seconda metà del sesto secolo dopo Cristo, negli anni del pontificato di Gregorio Magno, dopo la dispersione delle antiche istituzioni municipali romane, la Chiesa cominciò a svolgere una sorte di supplenza in ogni campo della vita civile e culturale. Dopo l’affermazione del Sacro Romano Impero alla compagine statale erano affidati compiti prevalentemente militari e politici, mentre ogni altra forma di impegno in campo religioso e culturale rimaneva appannaggio esclusivo della Chiesa, soprattutto quando si trattava di istituzioni che non esaurivano la loro azione nella vita presente ma, come le biblioteche, dovevano trasmettere i loro patrimoni di vita e di pensiero alle generazioni future. Da questo punto di vista le istituzioni ecclesiastiche hanno svolto un ruolo fondamentale nella trasmissione dei libri dall’antichità fino ai nostri giorni. Va tuttavia tenuto presente che le loro preferenze, com’è naturale, andavano ai testi che erano in armonia con il messaggio cristiano (le litterae divinae di Cassiodoro) e che quindi avevano maggiori probabilità di conservazione. Non erano tuttavia esclusi i libri profani (le litterae humanae) dapprima come mero strumento di corredo alla lettura e alla comprensione dei testi sacri e poi, in modo più decisivo a partire dalla Rinascita del XII secolo, furono garantite loro maggiori possibilità di sopravvivenza.
Quale concetto di biblioteca sviluppa Francesco Petrarca?
Francesco Petrarca fu il primo nell’Europa occidentale a ritenere che fosse compito delle autorità civili e non di quelle ecclesiastiche gestire le biblioteche aperta all’uso pubblico. Nel maggio del 1362 non accolse la proposta che gli aveva fatto Giovanni Boccaccio di unire i loro libri per lasciarli in uso a futuri studiosi in un convento o in un monastero. Fin dal 1346 riflettendo non solo sul pensiero ma anche sulle istituzioni dei Romani, aveva ricordato in una lettera a Giovanni da Incisa i meriti di Asinio Pollione per aver aperto a Roma una biblioteca pubblica. Nel mese di Agosto del 1362, pochi mesi dopo la proposta del Boccaccio, Petrarca espresse in una lettera a Benintendi de’ Ravegnani l’orgoglio di aver proposto per primo l’apertura di una biblioteca pubblica alla repubblica di Venezia, a un’autorità statale come ai tempi dei Romani. Il Senato veneto accolse la sua proposta il 4 settembre 1362. Ma non se ne fece nulla perché nel 1368 Petrarca si trasferì ad Arquà su richiesta di Francesco da Carrara. La Biblioteca Marciana di Venezia fu aperta molto più tardi sui libri che il Cardinal Bessarione, secondo l’usanza bizantina, aveva donato alla Repubblica di Venezia nel 1468.
Quale rilevanza assumono le biblioteche ecclesiastiche nell’età della Controriforma?
Nei paesi che aderirono alla Riforma le comunità aprirono abbastanza per tempo biblioteche cittadine dopo la chiusura dei conventi e la dispersione delle loro biblioteche. In area cattolica, invece, i conventi e i monasteri che fino ad allora avevano risposto alle esigenze cittadine di studio e di lettura mettendo a disposizione di tutti i loro libri, si pensi almeno a Santa Giustina per Padova o a San Domenico per Bologna, cominciarono, in linea con il rigore religioso della nuova stagione controriformistica, a limitarne l’accesso ai non religiosi e a tenere chiusi o a bruciare quelli ritenuti più pericolosi per le loro anima. Un netto rifiuto fu posto anche all’accesso delle raccolte librarie messe insieme da studiosi o da professionisti che da secoli andavano ad arricchire le biblioteche dei religiosi. Per questo, a partire dal Cinquecento per circa tre secoli, assistiamo alla dispersione di non pochi patrimoni librari che non trovano più spazio negli antichi conventi e non vi sono ancora istituzioni pubbliche ad accoglierli.
In che modo gli Stati cominciarono a riappropriarsi delle istituzioni culturali?
La convinzione che lo Stato dovesse rispondere non solo alle necessità politiche e militari ma anche alla vita civile e alla felicità, come si cominciò a scrivere assai per tempo, dei loro amatissimi sudditi, si manifestò molto lentamente. Questo processo giunse a maturazione in Italia nel corso del diciottesimo secolo quando le autorità statali cominciarono a favorire il rinnovamento degli studi prima di tutto in ambito universitario e poi, a caduta, anche nei livelli inferiori di istruzione. La cacciata dei Gesuiti nei paesi cattolici ne è il segno più evidente. La formazione dei ceti dirigenti non sarebbe più affidata a istituzioni ecclesiastiche ma allo Stato. Un solo esempio: il complesso gesuitico di Brera (biblioteca, pinacoteca, orto botanico) si trasformò a partire dal secondo Settecento nel principale polo culturale dello Stato nella città di Milano.
Quando e come nascono le biblioteche popolari?
Fino ai primi dell’Ottocento l’affermazione di nuove tipologie di biblioteche aveva seguito un andamento che dall’alto andava, per così dire, verso il basso. A mano a mano che nuovi ceti di cittadini si avvicinavano all’istruzione e al sapere, nuove biblioteche venivano aperte per loro: dalle statali e dalle ecclesiastiche a quelle dei collegi e delle università fino ad approdare, per lo meno dal Seicento, a quelle comunali. Nell’Ottocento la necessità di avere mano d’opera qualificata nelle industrie, nell’artigianato, nei commerci e ben presto anche nelle campagne, pose il problema non solo di intensificare l’istruzione di base, spesso risucchiata dall’analfabetismo di ritorno, ma di garantire un sapere minimo a questi lavoratori. Le piccole bibliotechine popolari, già diffuse in vari paesi europei, cominciarono a sorgere, specialmente dopo l’unificazione, anche in Italia. Una delle prime, modello a tutte le altre, sorse a Prato nel 1861 per l’iniziativa di Antonio Bruni che con i suoi scritti se ne fece banditore in tutta Italia.
Come si articola lo sviluppo della biblioteca moderna in Italia?
Dopo l’unificazione le biblioteche italiane erano distribuite in modo diseguale sul territorio nazionale. La loro quantità, la loro natura e le loro funzioni si erano stratificate nel tempo e rispondevano alle diverse esigenze degli stati preunitari. In alcuni di essi, come in Lombardia, si era seguito il modello decentrato austriaco che mirava ad avere una biblioteca statale in ogni città, altrove ci si era attenuti al modello napoleonico con prevedeva una sola grande biblioteca dello Stato e una miriade di biblioteche municipali. Ciò non impedì che alcune di queste biblioteche si mostrassero, nell’organizzazione e nei servizi in armonia con lo sviluppo delle migliori biblioteche storiche europee, come ad esempio buona parte delle antiche biblioteche statali e alcune grandi biblioteche di enti locali, come la Biblioteca Civica di Torino sorta nel 1869.
Quali vicende segnano il passaggio alla biblioteca pubblica?
Mentre altri paesi, come ad esempio la Francia, operarono negli anni Trenta il passaggio, fisiologico, dalla biblioteca popolare alla moderna biblioteca pubblica per tutti, in Italia lo smantellamento delle biblioteche popolari da parte del Fascismo fece avvertire, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, un grande vuoto istituzionale nel campo della lettura. Numerosi furono i tentativi per colmarlo da parte di autorità statali e locali. Ma il modello della public Library di matrice americana, cui generalmente ci si ispirava, presupponeva alcune condizioni che in Italia furono raggiunte solo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: un livello di istruzione diffusa grazie alla scuola obbligatoria; un’ampia partecipazione dei cittadini alla vita culturale e civile; e infine la vicinanza dei centri di decisione politica che si ebbe con la nascita delle regioni. Fu così che da allora, nel giro di alcuni decenni, biblioteche pubbliche aperte a tutti i cittadini si andarono moltiplicando sull’intero territorio nazionale in comuni grandi e piccoli.
Giorgio Montecchi, già professore ordinario di Bibliografia e di Biblioteconomia presso l’Università Statale di Milano, dirige dal 2006 la rivista “Bibliologia. An International Journal of Bibliography, Library Science, History of Typography and the Books”. Tra le pubblicazioni si ricordano: Manuale di biblioteconomia con Fabio Venuda (Milano, Bibliografia dal 1995), Il libro nel Rinascimento (2 voll., Roma, Viella, 1997-2005); Itinerari bibliografici (Milano, FrancoAngeli, 2001); Storia del libro e della lettura dalle origini ad Aldo Manuzio (Milano, Mimesis, 2015).