
Una data scelta accuratamente per i suoi valori simbolici: il 25 Marzo del 421 è il giorno dell’Annunciazione di Maria. In questo modo Venezia era concepita lo stesso giorno del concepimento di Gesù, la Madonna era quindi sua madre e protettrice prima ancora che San Marco si affacciasse all’orizzonte. Nel complicato equilibrio dei Santi, la Madonna rimarrà protettrice (difatti appare sulla cupola della salute con il bastone di comando di Capitano Generale da Mar) e San Marco sarà dominus di Venezia, con il Doge a sua rappresentanza.
Una data di nascita costruita e sostenuta nei secoli, a fronte di un processo di formazione ben più lungo; in realtà Venezia è più vecchia e più giovane allo stesso tempo. Più vecchia come centro di comando bizantino della ex X Regio Venetia et Histria e più giovane perché in realtà diventa urbs nell’811, quando Agnello Parteciaco sposta la sede ducale nel suo castello (oggi il Palazzo Ducale) ed assume la sua forma politica definitiva solo nel 1297, con la Serrata del Maggior Consiglio.
Secolo più, secolo meno, la longevità di Venezia è quindi al tempo stesso leggendaria e reale.
Il segreto di questo record, a mio parere, è una visione moderna, spregiudicata, straordinariamente innovativa associata al pervicace perseguimento della propria indipendenza.
Proprio l’indipendenza è una delle colonne della longevità di Venezia. Dopo secoli di tira e molla tra impero e Bisanzio culminati con il Pactum Lothari del’840 da una parte e la crisobolla del 1082 dall’altra, nella città finalmente libera si forma una classe dirigente unica: il patriziato. Rifuggendo dalla regola che solo il papa o l’imperatore potessero conferire la nobiltà, l’aristocrazia veneziana si autoelegge, coniando un titolo tutto suo, Nobilis Homo, abbreviato in NH. I titoli feudali sono proibiti, i patrizi sono tutti uguali nella gestione della cosa pubblica. Venezia diventa quindi una SpA con una formula unica di governance: gli azionisti/NH sono dirigenti e responsabili, i cittadini originari sono i quadri, il popolo è la forza lavoro protetta e garantita dal patriziato. Non c’è un Principe, un Chief Executive Officer ma un altissimo Magistrato che però ha poteri limitatissimi. Questa impostazione, che trova la sua definizione alla fine del ‘200, è ineguagliata dal Medioevo al Barocco e rappresenta il primo fattore alla base del successo di Venezia.
Venezia dunque non appartiene a nessuno salvo che a se stessa. Anche nella religione: pur essendo cristianissima, la Repubblica ha come capo religioso il Doge, vicario di San Marco in terra. Il Papa è sì rispettato ma è pur sempre un antagonista, un “Prencipe dalle mani longhe” e abbiamo visto che a Venezia il concetto di Principe non può esistere.
A questa indipendenza si aggiunge e si lega la spregiudicatezza. L’Azienda Venezia non esita a cambiare le leggi quando esse non funzionano (da cui la calunnia “leze venexiana – dura una semana), non esita, in momenti di particolare necessità, a effettuare tre “aumenti di capitale” includendo nel patriziato nuove famiglie alla cifra esorbitante di 100.000 ducati (circa dieci milioni di euro). Venezia non esita a compiere complicate giravolte di alleanze che trasformano i nemici in amici o addirittura a considerare (ma poi non lo farà) ad accettare aiuto dall’eterno avversario, la Sublime Porta. Venezia non esita a colpire con la massima durezza chiunque la tradisca, fosse egli anche il suo Doge. Così come non esita, come nel caso di Antonio Foscarini giustiziato innocente, ad ammettere pubblicamente l’errore. Venezia non esita a cogliere l’occasione a proprio vantaggio, come nella IV Crociata, sfidando la scomunica papale. A proposito di questo, Venezia più di una volta non esiterà a sfidare apertamente l’autorità papale. Venezia non esita a costruirsi accuratamente un mito per ribadire a se stessa ed al mondo la propria superiorità e, di nuovo, la propria indipendenza.
Infine, la resilienza. Con in corollario la capacità di trasformare i problemi in opportunità.
Questo si può osservare fin dagli inizi, con la colonizzazione di una serie di isolotti in una palude percorsa da un braccio della Brenta e la trasformazione di tutto questo in un miracolo ingegneristico ed architettonico. È un percorso lungo e continuo, durante il quale succede di tutto: guerre, pestilenze, terremoti, inondazioni, eppure Venezia mai si arrende ma risorge ogni volta più forte. Si veda ad esempio la guerra di Chioggia, con il nemico alle porte e Venezia che capovolge improvvisamente la situazione uscendone vincitrice. Si veda il periodo attorno alla crisi della Lega di Cambrai, quando tutto il mondo si schiera contro Venezia e il nemico arriva fino alle “acque salse”, travolgendo tutti i domini di terra della Serenissima. Si veda il periodo che seguirà, con la perdita di Cipro ed il riscatto di Lepanto. In mezzo a tutto ciò, sorgono i più meravigliosi capolavori architettonici della Serenissima e Venezia diventa, per citare un amico scrittore, la Splendida. Capacità di reazione (in latino resilire significa letteralmente rimbalzare) e capacità di comunicazione a se stessa ed al mondo: in piena tempesta si costruisce, si abbellisce, si investe in meraviglia.
Come si articolò la strategia di marketing e comunicazione veneziana?
La comunicazione veneziana si rivolge a due target: uno interno, per aggregare e fidelizzare, ed uno esterno, per trasmettere i valori e le grandezze della Repubblica.
La comunicazione interna prevedeva ricorrenze, feste, cortei legati ad episodi salienti della storia della Repubblica. Scrive Giustina Renier Michiel, donna di formidabile cultura vissuta alla fine del XVIII secolo, autrice del fondamentale “Origine delle Feste Veneziane”: “Il precipuo scopo di queste feste, che appo noi corsero, era quello di avvertire ogni Veneziano che egli avea una Patria, che tutto in essa risiedeva, e che questa patrie che dovea adorare non era un essere ideale e chimerico, ma che era il cittadino stesso che la formava, egli stesso che la sosteneva.”
Ciascun momento di comunicazione era legato ad un fatto preciso. Per esempio: il processo e la decapitazione del toro e dei dodici porci il Giovedì Grasso commemorava la vittoria del 1162 su Ulrico di Treffen, Patriarca di Aquileia ribelle eletto dell’Imperatore, e i suoi dodici diaconi. La festa delle Marie, derivata dalla festa bizantina dell’Hypapante, era al tempo stesso memoria della vittoria del 948 contro i pirati narentani e simbolo dello Stato che protegge e assiste le giovani coppie. Altre feste avevano un significato politico ammonitorio: il 16 Aprile, giorno di Sant’Isidoro, si commemorava la fallita congiura e decapitazione di Marin Falièr, comunicando che neppure in doge sfugge alla giustizia di Stato, mentre il 15 Giugno, giorno di San Vio, si commemorava una più antica fallita congiura, quella di Bajamonte Tiepolo.
La Festa della Sensa, l’Ascensione, addirittura, rappresentava quattro feste in una ed aveva una valenza di comunicazione sia interna che esterna. Centrale era lo Sposalizio del Mare, con il tradizionale lancio dell’anello tra le onde e la formula di matrimonio in cui Venezia (lo sposo) domina il mare (la sposa). Si è molto scritto su questa festa: secondo alcuni è la continuazione cristiana di un rito pagano propiziatorio a Poseidone, trasformato poi nella devozione a San Nicolò (Nicola di Bari) protettore dei naviganti; altri ancora attribuiscono le origini all’anello donato da papa Alessandro III in occasione della Pace di Venezia. Per Giustina Renier Michiel invece la festa è legata alla spedizione del Dux (non ancora Doge) Pietro II Orseolo in Dalmazia, iniziata proprio il giorno dell’Ascensione del 998 o secondo altri del 1000. Il giorno dell’Ascensione segna quindi l’inizio del potere veneziano sull’Adriatico, confermato dallo Sposalizio del Mare nato nel 1177. La festa è fondamentale dal punto di vista della self promotion perchè in un colpo solo comunica una gloria bellica, una gloria diplomatica, una gloria politica e una gloria religiosa. A questi significati, utilissimi anche per comunicare all’esterno del mondo veneziano, si coglieva la grande opportunità di un evento fieristico di portata internazionale. La Fiera della Sensa. Per 15 giorni l’Azienda/Stato mostrava il meglio della sua produzione artigianale, industriale ed artistica, in eleganti edifici in legno, disegnati da valenti architetti, costruiti per l’occasione e disposti in un’ellisse a riempire la Piazza. C’era veramente di tutto: vetrai ed orefici ostentavano le loro più splendide e costose creazioni; i tessitori, i setaioli, i fabbricanti di panni di lana esponevano i loro migliori prodotti, tra cui ricchi broccati e stoffe intessute d’oro e di argento. I calegheri, i calzolai, che avevano una propria scuola di devozione, esponevano calzature all’ultima moda. C’era anche l’arte degli zavateri, i ciabattini, di cui è rimasta memoria in una pietra nel selciato di Piazza che delimitava la propria zona di esposizione Fabbri e calderai, stagnini ed ottonai, cestai, fabbricanti di giocattoli, merlettai, vetrai, tutti insomma, persino Antonio Canova che alla Fiera della Sensa espose il suo gruppo statuario di Dedalo e Icaro. Oltre naturalmente a prodotti dei domìni oltremarini e di tutto il mondo conosciuto. come racconta Jules Lecomte: “Una città mobile ingombrava la Piazza (…) con le sue strade le sue botteghe ridondanti di tutti i tesori che le navi recavano allora a Venezia da tutte le parti del mondo. Erano mercanzie venute da Oriente e da Occidente: i veneziani frammischiavano a questi prodotti stranieri i loro cristalli, i loro specchi, le loro perle, i loro vetri e i loro lavori di oreficeria celebrati per tutta Europa.”
Questa festa è esattamente a cavallo tra i due target. Per il mondo esterno esistevano i cortei, per l’elezione del doge o per festeggiare la dogaressa, oltre ai numerosi festeggiamenti per gli ospiti illustri, che dovevano mostrare l’opulenza della Repubblica. Una speciale menzione merita la visita del 1574 di Enrico III di Valois, Re di Polonia e futuro Re di Francia. Venezia SpA per la visita del futuro Re mette in moto un budget importantissimo, più le spese sostenute dai privati per le feste, gli abiti, le luminarie, le barche. Per esempio, per la luminaria della sera dell’arrivo era stato messo a disposizione dallo Stato per i privati un fondo speciale per l’olio delle lampade ma i patrizi non vollero fare la brutta figura di attingervi. Insomma: Venezia spende una cifra inaudita per i reali festeggiamenti, venticinquemila ducati, che però va considerato un investimento sia per ingraziarsi un personaggio che era sempre meglio avere amico che nemico, che per pubblicizzare i propri skill (abilità) nella maniera più spettacolare possibile. Per il futuro Re si mette in moto una macchina complessa che coinvolge alti funzionari di Stato. La nave stessa con cui viene portato a Venezia è la nave di Stato, il Bucintoro, un palazzo galleggiante ricco di ori e velluti, accompagnato da un ricchissimo corteo di navi e barche addobbate con il massimo dello sfarzo. Il Bucintoro di per sé comunica molto di più di una moderna berlina di Stato: se oggi il corteo degli ospiti è improntato alla sicurezza dell’ospite, a Venezia il corteo era dedicato esclusivamente a mostrare e farsi mostrare, in una esaltazione di lusso e ricchezza. Memorabili sono due episodi, entrambi all’Arsenale. Ad Enrico si fa visitare un cantiere ed apporre la firma su alcune parti di legno senza spiegare il perché. Poi lo si porta a pranzo, ed ecco la prima sorpresa: tutte le suppellettili sono di zucchero, persino i tovaglioli. Ora, lo zucchero era materia rara e costosissima, si vendeva addirittura nelle spezierie come medicinale. Possederne ed esibirne una grande quantità era uno status symbol. Il futuro Re è già abbastanza meravigliato quando alla fine del pranzo gli si presenta la seconda sorpresa: una galea da guerra perfettamente costruita ed armata, costruita durante il banchetto. Il re è incredulo ma gli si mostrano le travi con la sua firma e la meraviglia aumenta ancora. In questo caso si tratta di una vera e propria dimostrazione di forza, peraltro già dimostrata con l’armamento della flotta vittoriosa a Lepanto.
Questi sono solo esempi: in realtà tutto ciò che faceva Venezia era comunicativo. Bisognava che quella piccola città in una laguna si mostrasse uguale ai regni concorrenti. Ecco dunque che Venezia sceglie di comunicare con ogni possibile media. Anche con l’architettura.
In che modo l’architettura istituzionale della Serenissima ricalcava quella di una moderna multinazionale?
Se consideriamo Venezia una SpA e tutta la città come la sua sede, abbiamo due aspetti importanti: il centro direzionale e le abitazioni degli azionisti. Il centro direzionale contiene i palazzi simboli del potere temporale e religioso: il Palazzo Ducale, la Basilica, con la “super reliquia” di San Marco e i mosaici d’oro, i cavalli di Bisanzio, i ricchissimi arredi; le Procuratie, la Biblioteca, l’Orologio; infine le due colonne, porta ideale ma nello stesso tempo simbolo della giustizia. L’arrivo principale nella Serenissima, nel suo periodo più splendente, era dalla Laguna, con un impatto visivo totalmente differente da qualsiasi altra capitale del mondo allora conosciuto: niente mura, niente bastioni, niente porte, niente strade e stradine strette. Venezia diviene quindi Veni Etiam, vieni dunque in una città così sicura di sé di non aver bisogno di vistose difese: questa prima comunicazione già stupiva in prima battuta il visitatore. Improvvisamente ecco apparire meraviglie marmoree, strutture delicate e armoniose: una Venere sorgente dalle acque. Un vero e proprio shock visivo anche oggi, come ben sanno ahimè gli organizzatori delle crociere. Dovunque si volgesse lo sguardo: in contraltare, l’isola di San Giorgio Maggiore e più in là la palla d’oro della Fortuna che segna l’ingresso al Canal Grande. Tutta questa visione comunicava, e comunica ancora per chi la vuol vedere, i plus di Venezia. La maestà, col Palazzo Ducale; la ricchezza, con la Zecca; la cultura, con la Libreria di San Marco; la giustizia, con le due colonne in Piazzetta; il buongoverno, con le Procuratie; il potere spirituale, con San Marco. Persino la monumentale costruzione trecentesca dei Granai di Terra Nuova, demoliti sotto il dominio francese per far posto ai Giardini Reali, comunicavano opulenza. Il tutto in un armonico colpo solo. Quale altra sede aziendale, oggi, è in grado di comunicare così tanto?
Chi furono i testimonials della Serenissima e quale sorte spettava invece ai suoi detrattori?
Tra i testimonial c’è Francesco Petrarca che le dedica parole appassionate , come testimonia una sua lettera del 1321: ” Quale città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirannia e dalla guerra , possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita: Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza de’ figli suoi munita e fatta sicura”. Nel 1495 l’ambasciatore francese Philippe de Commynes la definisce “La più trionfante città che io abbia mai visto”: peccato che il suo re, Luigi XII, pochi anni dopo abbia cercato di prendersela con la forza. Girolamo Savonarola non amava poi così tanto Venezia eppure vorrebbe applicare alla neonata Repubblica Fiorentina il modello veneziano; Guicciardini, che prima era uno hater di Venezia, a guerra di Cambrai finita ci ripensa e canta le lodi del governo della Serenissima. In effetti la reazione alle sconfitte ed all’invasione della Lega di Cambrai è la dimostrazione che il governo, il sistema, tiene benissimo. Il fiorentino esule Donato Giannotti nel suo Libro de la repubblica de Vinitiani del 1542 annota positivamente il cambio di rotta dopo le traversie belliche: “La felicità d’una repubblica non consiste nella grandezza dello imperio, ma si ben nel vivere con tranquillità e pace universale” e il cardinale Gasparo Contarini, legato papale alla Dieta di Ratisbona, nel suo De magistratibus et republica Venetorum, mostra di aver capito benissimo il concetto di armonia tra aristocrazia, borghesia e popolo come base del benessere della Repubblica. Nel 1574 Lugi XIII afferma addirittura: “Se non fossi il re di Francia vorrei essere cittadino veneziano”. Voltaire nel suo Candide fa dire al suo protagonista “Andrò ad attenderti a Venezia: è quello un paese giusto e libero dove non c’è niente da temere, ne dagli Slavi, né dagli Arabi e nemmeno dagli inquisitori.” Meglio di così non si potrebbe sperare. Del resto da sempre i testimonials della Serenissima erano i componenti dell’aristocrazia nei loro frequenti viaggi all’esterno della Repubblica. La formazione completa del NH, che praticava la filosofia, parlava le lingue, era esperto di cose militari ma anche letterarie, era di per sé una testimonianza dell’altissima qualità della governance della Repubblica. Gli ambasciatori (Bàili) erano esempi illustri del patriziato, frequentavano in modo anche amicale le teste coronate di tutta Europa; la veloce rotazione delle cariche faceva sì che le corti europee avessero a che fare con un vasto campionario di gentiluomini/testimonial della Serenissima. La rinomanza ed il savoir-faire dell’aristocrazia veneziana poteva anche essere un grande vantaggio in situazioni estreme: ricordiamo come Andrea Gritti, preso prigioniero dai francesi durante la guerra della Lega di Cambrai, facesse amicizia con il re di Francia Luigi XII al punto da tenere a battesimo una sua figlia e da influenzarlo al punto da fargli cambiare alleanza a favore di Venezia.
Poi c’erano gli scienziati e gli artisti, accolti a braccia aperte (salvo il caso sfortunato di Giordano Bruno, che però aveva un carattere particolarmente difficile e deve aver provocato un po’ troppo un influente membro del governo). Il trattamento a loro riservato rappresentava una testimonianza dal potere comunicativo forte e redditizio: tutti a Venezia, dove ci si può esprimere al meglio e interfacciarsi con grandi artisti contemporanei e con un’aristocrazia colta e mecenatesca.
I detrattori di Venezia non venivano perseguiti né, come una certa letteratura di sensazione ha fatto credere, assassinati in qualche buia calle. Li si rimbeccava, si rispondeva, così come fece Giacomo Casanova con Amelot de la Houssaye che criticava il governo veneziano o, a Serenissima caduta, il NH Domenico Tiepolo che smascherò le falsità nella storia di Venezia del Daru. Anche durante la cosiddetta “guerra delle lettere” del 1606, che vide il Papa opporsi con decisione a Venezia utilizzando, oltre ad una scomunica che venne ignorata dal governo veneziano, lettere e documenti diffamatori, Venezia non ricorse ad altre armi che non fossero letterarie o diplomatiche.
In che modo la Serenissima coltivò la propria indipendenza dalla Chiesa romana?
L’indipendenza è una costante di tutta la storia di Venezia che la persegue fin dalle origini. Se all’inizio la contesa era tra impero e Bisanzio, man mano che Venezia si libera dei contendenti il papato tenta di assicurarsene il vassallaggio, anche con blandizie e doni. Eppure fin dall’arrivo delle reliquie di San Marco l’intenzione è chiara. La scelta del Santo è soprattutto politica: dopo il concilio di Mantova, pesantemente influenzato dall’imperatore, viene ristabilita la supremazia del Patriarcato di Aquileia, filoimperiale, su quello di Grado, filoveneziano. Venezia ha un patrono “debole”, San Teodoro di Amasea, di cui peraltro non ha neanche le reliquie. Viene scelto allora dal dux Giustiniano Parteciaco un Santo più potente, forse il più potente assieme a Pietro. Marco non solo ha conosciuto Gesù (seppure fosse un ragazzo) ma era stato il discepolo di Pietro, che lo chiamava “figlio dilettissimo”. Ha scritto il suo Vangelo a Roma, “sub dictatione Petri”, quindi la sua versione è quella di Pietro. Viene inviato ad Aquileia e fonda la prima diocesi vescovile di cui è primate Ermagora, poi martirizzato col suo diacono Fortunato (e Venezia se ne assicurerà le reliquie), quindi è il capostipite del Patriarcato di Aquileia. Giustiniano Parteciaco se ne assicura quindi le reliquie e lo onora non come patrono, ma come dominus, padrone di Venezia, ricreando la formula divinità/vicario. Marco è quindi equivalente di Pietro, e il doge rappresenta il papa, ricoprendo la carica di capo della Chiesa Veneziana perché dall’arrivo del Santo tutte le Chiese di Venezia dipendono da San Marco, che è la Cappella Ducale. Nell’esser unita fisicamente al Palazzo Ducale, primo luogo in cui furono ospitate le reliquie, rappresenta l’unione Stato/Chiesa e quindi l’indipendenza dal papato. Non da Cristo, sottolineo, ma dalla gestione romana dove, per i Veneziani, il papa era sempre un “prencipe dalle mani longhe”.
Dal quattordicesimo secolo, dal dogado di Andrea Dandolo, vengono ripetute e ribadite, oltrechè “montate” in sequenza, le leggende della Praedestinatio, della Translatio, dell’Apparitio. La prima in particolare ha un significato ed uno scopo fondante: al Santo dormiente in un’isoletta della laguna, dove si era rifugiato per sfuggire ad una tempesta nel suo viaggio da Aquileia ad Alessandria, appare un angelo che gli preannuncia “Pax tibi Marce, Evangelista meus. Hic requiescet corpuus tuum.” La leggenda localizza il Santo a Venezia e ne motiva la presenza. Inoltre, l’apposizione nel libro del Leone (mutuato dal Tetramorfo) della prima parte della profezia rende il Santo appartenente a Venezia ed ai veneziani. Numerose leggende seguiranno questa prima, a sottolineare il parallelo San Marco e San Pietro, e quindi tra la chiesa di Venezia e quella di Roma. Parallelo, non identità: due parallele non si incontrano mai.
L’indipendenza verrà ribadita più volte a fatti (la non considerazione delle scomuniche e degli interdetti lanciati su Venezia) ed a parole. Famosa è la risposta, freddamente ironica, dell’ambasciatore veneziano Girolamo Donà al papa Alessandro VI Borgia che chiedeva irritato dove fosse scritto che il mare Adriatico fosse il Golfo di Venezia: “Sta scritto sul retro della Donazione di Costantino, santità.” Altrettanto famosa è la “guerra delle lettere” del 1606, dove Venezia e Roma si sfidarono a colpi di teologi (Paolo Sarpi contro Roberto Bellarmino) per l’arresto di due prelati delinquenti di cui il papa voleva la consegna e Venezia voleva giudicare autonomamente. Per la verità Roma non si limitò alla diplomazia ma inviò anche dei sicari ad uccidere Paolo Sarpi. L’attentato fallì, Sarpi fu solo ferito in modo non grave e rimase sua l’ultima parola: “Riconosco lo stilo di madre Chiesa”.
Quale funzione svolgeva l’assetto urbanistico-monumentale della città lagunare?
Prendiamo ad esempio il Canal Grande. La fantastica sequenza dei palazzi dell’aristocrazia azionaria costruita a regola d’arte è ancora lì a comunicare la potenza e la capacità della classe dirigente di aggregare bellezza e ricchezza. Non a caso i cortei ufficiali si svolgevano sul Canal Grande e il senso originale di quello che noi oggi chiamiamo Regata era sfruttare in tutto il suo splendore lo scenario dell’aristocrazia veneziana. In queste manifestazioni appariva evidente l’opulenza del corpo degli azionisti, con le splendide facciate illuminate da torce e decorate a stoffe preziose. La funzione comunicativa è verso due target, due “bersagli” di pubblico: i soci / concorrenti diretti, cioè le altre grandi famiglie che esibiscono la propria capacità di spendere in immagine, e il pubblico esterno ed estero che, sfilando in corteo o semplicemente in gondola, si stupisce della interminabile passeggiata di stupore. Bene l’aveva capito perfino Napoleone, che durante la sua unica visita nel 1806 commentò “Je vois la puissance du commerce.”.
Inoltre molti dei palazzi erano realizzati dalle archistar delle diverse epoche e le facciate, create per stupire, offrivano la dimostrazione che il sistema di governo funzionava ottimamente. Straordinaria è la capacità delle grandi famiglie di aggiornare costantemente le facciate, che erano costruite con una tecnica che le concepiva come “applicate” al corpo del palazzo, in modo da poterle sostituire senza ricostruire tutto il corpo dell’edificio.
C’è un altro aspetto da osservare. La particolare struttura di Venezia, con case popolari addossate a palazzi patrizi, magari che guardano lo stesso campo, crea unità e coesione tra le differenti classi sociali, nel principio che “siamo tutti nella stessa barca. In questo modo si coltivava quella straordinaria armonia sociale che contraddistinse tutta la storia della Serenissima, dove mai ci fu una rivolta popolare non per la durezza dei controlli ma perché mancavano le motivazioni ed il disagio sociale per ribellarsi.
Quale rilevanza avevano le reti di spionaggio e diplomatica veneziane nell’assicurare alla Repubblica il proprio potere?
A parte il fatto che talvolta le due reti per il teatro internazionale coincidevano, come del resto anche oggi, credo che la rete diplomatica avesse un’importanza molto maggiore. La scelta dei personaggi destinati al servizio diplomatico (per quanto, ricordiamo, gli incarichi nella Repubblica non erano mai di lunga durata) cadeva sempre su uomini dotati di elevate doti e di vasta rete relazionale. Non necessariamente patrizi, ma molte volte anche cittadini originari: ricordiamo che Giovanni Dario, colui che edificò la ca’ Dario di immeritata fama, non era un patrizio ma un Segretario del Senato che però ebbe il merito di riuscire a strappare condizioni di pace favorevoli con il sultano Mehmed II. Certamente il posto più ambito, ma anche il più complicato, era Istanbul. Che poi i diplomatici riuscissero a stabilire relazioni potremmo dire amichevoli con la controparte anche in periodi di guerra, è certo: esempio ne è l’amicizia tra il bàilo Marcantonio Barbaro e il Visir Mehmed Sokollü, perdurata durante tutta la guerra di Cipro.
Venezia disponeva di diversi sistemi di spionaggio, oltre a quelli messi in atto dalla diplomazia. Quello forse più noto è il Consiglio dei Dieci, nato poco dopo la fallita congiura di Bajamonte Tiepolo e addetto alla security interna: più che alla CIA, come qualcuno ha scritto, è paragonabile all’MI5. Se ne sono esagerati i poteri, soprattutto nell’800, additandolo come una sorta di struttura “nera” occulta con propaggini ignote agli altri organi di Stato. In realtà, pur avendo acquisito sempre più potere nei secoli, era strutturato in modo tale che questo fosse impossibile, per la esigua durata dei suoi componenti e per i limiti ad essi imposti. È certo però che avessero un certo potere di vita e di morte sui nemici dello Stato, ma sempre sotto il controllo degli organi superiori. Gli Inquisitori di Stato invece avevano funzioni di controllo legate ad impedire la propalazione dei segreti di Stato a potenze estere, inteso nel senso più largo del termine. Ad essi era anche affidato il controllo dell’Inquisizione romana, perché non acquisisse un potere interferente con gli affari della Repubblica. Tutti i servizi veneziani, governativi o diplomatici, si avvalevano di collaboratori esterni free-lance coordinati dagli organi competenti. Spesso i sicari erano ex militari, gente usa alle armi. Altrettanto spesso per liberarsi in modo discreto di agitatori si usavano veleni che però quasi sempre non funzionavano o funzionavano malissimo. Si usavano già raffinati sistemi di crittografia e una vasta rete di messaggeri da ogni angolo dei possedimenti veneziani. Di questi si servì, ad esempio, Andrea Gritti durante il suo soggiorno a Istanbul, salvo però essere smascherato ed imprigionato, e liberato solo grazie all’intercessione del figlio del Sultano, suo amico e compagno di “merende”.
Il loro ruolo fu fondamentale per smascherare numerosi complotti, tra cui quello del doge Marin Falier e quello ordito dagli spagnoli nel 1617ordito dal marchese di Bedmar, che mirava a rovesciare il governo veneziano a favore della Spagna.
È interessante notare comunque come, al di là della rete di spionaggio moltissimi complotti siano stati sventati da, come diremmo oggi, “pentiti” o da confidenti o delatori o informatori volontari. Tutti questi, pur non essendo stipendiati, spessissimo agivano per puro patriottismo o comunque per timore di essere coinvolti in un gioco che, si sapeva o si supponeva, sarebbe inevitabilmente fallito. In sostanza, per evitare di finire appesi ad una forca.
In che modo, dopo la sua decadenza, la Serenissima è riuscita a tenere in vita il proprio mito?
La Serenissima dopo la caduta non è più esistita e con lei è crollata anche la complessa struttura che alimentava il suo mito. Che però è sopravvissuto, nella narrazione dei numerosi storiografi veneziani antichi e in quelli moderni che hanno ripreso la loro narrazione. Perciò non direi che la Serenissima è riuscita a tenere in vita il proprio mito: sono stati piuttosto gli studiosi amanti della Serenissima che, pur riconoscendone le caratteristiche leggendarie, lo hanno perpetuato perché elemento fondante della sua storia e prova della modernità e spregiudicatezza di Venezia, prima ancora che fosse Venezia. Il mito ci aiuta a capire la realtà, soprattutto quando si perpetua parallelamente a cronache e resoconti che ci presentano, al suo fianco, la realtà. Oggi Venezia è al suo minimo storico. Depredata da speculazioni, deprivata di abitanti, ridotta da città a centro storico di una realtà politica spampanata governata dalla terraferma, priva di quella classe dirigente che l’ha resa grande. A mantenerla in vita ci sono pochi cittadini resilienti e tanti scrittori che, con rigore storico e talvolta con spregiudicatezza, ne continuano a raccontare e spiegare la storia. Perché questo mondo di giochini narcisisti mediatici sappia che è esistita una civiltà che fin dai primi secoli del Medioevo ha avuto e realizzato una grande visione, con intelligenza, spregiudicatezza ed indipendenza.
Potrà succedere di nuovo? Forse. Non come la Serenissima ma meglio di come è ora, certamente.
Pieralvise Zorzi ha avuto una quarantennale carriera in comunicazione, culminata con la Direzione Creativa di importanti Agenzie di Pubblicità internazionali. Ha creato strategie e campagne vincenti per ogni tipo di prodotto e servizio. È stato autore e conduttore televisivo per Rai e Mediaset. Ha insegnato marketing e creatività, tra gli altri, a Confindustria e alla Luiss. Figlio dello storico Alvise Zorzi, ne continua l’opera con saggi, conferenze, articoli e libri. È considerato un esperto di Storia di Venezia, di cui ha saputo cogliere gli aspetti più spregiudicati e moderni.