
di Riccardo Brizzi e Michele Marchi
Le Monnier Università
«La storia francese, a partire dalla fine del XVIII secolo, è stata caratterizzata da una serie continua di rivolgimenti politici e istituzionali che hanno radicato nella storiografia contemporaneistica la tesi di un presunto eccezionalismo francese. Dieci regimi si sono succeduti tra il 1789 e il 1958, facendo in effetti della Francia un caso unico nel panorama politico-istituzionale europeo.
All’interno di questo percorso gli anni Settanta dell’Ottocento, in particolare a partire dal fallimento del «colpo di stato» del generale Mac-Mahon, rappresentano il momento in cui si afferma definitivamente l’opzione repubblicana. Nel corso dei due decenni successivi, nonostante le ripetute crisi che scuotono il Paese (boulangismo, crisi di Panama, affaire Dreyfus), l’istituzionalizzazione del modello repubblicano conosce un progressivo consolidamento.
Per consolidarlo definitivamente, nel corso degli anni Ottanta la nuova classe dirigente propone una serie di riforme volte ad affermare, anche a livello simbolico, il regime repubblicano: il ritorno delle Camere a Parigi, la scelta della Marsigliese come inno e la decisione di istituire il 14 luglio come festa nazionale. Se la transizione di fine secolo, con il succedersi di crisi e il riacutizzarsi della frattura religiosa, fa riemergere divisioni antiche che rimettono in discussione l’assetto istituzionale, con la Prima guerra mondiale la nazione si ritrova unita sotto il vessillo repubblicano in un clima di union sacrée.
Nel corso degli anni Venti e Trenta del Novecento, mentre la Francia si trova a fronteggiare l’instaurazione di regimi autoritari che si diffondono in Europa, la progressiva incapacità decisionale dei governi alimenta uno scontro politico sulla necessità di razionalizzare il parlamentarismo assoluto connaturato all’ideale repubblicano, rafforzando l’esecutivo. Ad accelerare il declino della III Repubblica intervengono la traumatica disfatta militare del 1940, il voto dei pieni poteri al maresciallo Pétain e l’ingloriosa parentesi del regime collaborazionista di Vichy.
Alla Liberazione, le due anime dello spirito resistenziale rappresentate dalla figura del generale de Gaulle e dai tre grandi partiti di massa (PCF, SFIO, MRP), non riescono a individuare una mediazione sul nuovo assetto istituzionale. L’improvvisa uscita di scena del Generale, in polemica con l’indisponibilità del «regime dei partiti» di accettare la sua proposta di razionalizzazione del parlamentarismo, conduce la nascente IV Repubblica a riproporre una Costituzione fondata sulla centralità dell’Assemblea rappresentativa e sull’onnipotenza dei partiti. I successi della ricostruzione post-bellica e l’impetuosa crescita economica (con l’avvio dei cosiddetti «Trente glorieueses», 1945-1975) sono rapidamente oscurati dall’instabilità governativa determinata in primo luogo dall’annoso problema della decolonizzazione. I ventidue governi che si succedono tra il 1946 e il 1958 cancellano, nell’immaginario collettivo, lo spettro del potere personale e creano un progressivo consenso attorno all’eventualità di riformare il sistema ponendo fine alla sua cronica incapacità decisionale. Solo in questo senso può essere compresa l’abdicazione compiuta dalla IV Repubblica, nella primavera del 1958, nei confronti del suo principale avversario.
Richiamato al potere in una fase drammatica, de Gaulle non si limita a risolvere una situazione di emergenza, ma si fa promotore di una radicale riforma delle istituzioni (che aveva già teorizzato a Bayeux il 16 giugno 1946) plebiscitata per via referendaria dall’opinione pubblica. La Carta del 1958 lascia peraltro aperte due possibili interpretazioni. La prima ispirata ad una concezione di parlamentarismo razionalizzato, la seconda di impostazione più tipicamente presidenziale. A imporsi è il secondo modello, favorito dalla centralità acquisita dalla figura del capo dello Stato nella fase decisiva della crisi algerina e consolidato definitivamente a seguito della riforma del 1962, che istituisce l’elezione a suffragio universale diretto del presidente della Repubblica.
Il «semipresidenzialismo» che ha preso forma nei primi anni della V Repubblica mostra la capacità di sopravvivere all’uscita di scena del Generale. Se il settennato interrotto di Pompidou si inserisce in linea di diretta continuità rispetto all’eredità gollista, l’arrivo all’Eliseo di Giscard d’Estaing, rappresentante di un’alternativa liberale al gollismo, costituisce un primo avvicendamento istituzionale all’interno della destra francese.
In questo percorso una cesura fondamentale è costituita dall’ingresso all’Eliseo di un antico oppositore della concezione gollista del ruolo presidenziale, Mitterrand, rifondatore del Partito socialista e leader della coalizione di sinistra in occasione delle vittoriose elezioni del 1981. Questo delicato passaggio è superato senza particolari traumi. Dal punto di vista economico il vessillo delle nazionalizzazioni, che ha costituito il tratto caratterizzante della campagna presidenziale di Mitterrand, è sacrificato sull’altare di una normalizzazione imposta dalla necessità di un approdo all’interno del sistema monetario europeo. Politicamente, invece, le elezioni legislative del 1986 producono uno scenario inedito con una maggioranza parlamentare di segno politico opposto rispetto a quella presidenziale. L’esperienza della coabitazione, che si ripropone anche nel corso del secondo mandato di Mitterrand, tra il 1993 e il 1995, pur non mettendo in discussione l’assetto semipresidenziale, contribuisce a rendere meno efficiente e chiaramente identificabile il sistema decisionale in una congiuntura critica sotto il profilo politico (con l’emergere di una destra xenofoba e anti-sistema guidata da Le Pen), economico (con il rallentamento della crescita e l’aumento della disoccupazione), sociale (con il profilarsi di seri problemi legati all’integrazione) e internazionale (con l’emergere di un crescente scetticismo nei confronti del progetto europeo e, in particolare, della prospettiva dell’allargamento).
I due mandati di Chirac all’Eliseo sono caratterizzati dall’aggravarsi di questo scenario e contribuiscono a diffondere l’idea – ampiamente veicolata dal mondo intellettuale – di un inevitabile declino nazionale. Il riproporsi di una lunga esperienza di coabitazione (1997-2002) e il succedersi di ripetute crisi politiche (arrivo di Le Pen al ballottaggio in occasione delle presidenziali del 2002 e bocciatura referendaria del trattato costituzionale europeo nel 2005) e sociali (ondate di scioperi nel 1996 e 2006, emergenza delle banlieues nel 2005), alimenta l’insoddisfazione nei confronti di un presidente irresponsabile e genera dubbi sull’efficienza complessiva dell’assetto della Carta del 1958. Proprio nel momento in cui, alla vigilia dei suoi cinquant’anni, non mancano le voci di una possibile transizione istituzionale (con il moltiplicarsi di proposte volte a creare una non meglio definita VI Repubblica), la V Repubblica fornisce una inattesa prova di vitalità in occasione della tornata elettorale del 2007.
Il dibattito sulle prospettive del Paese, presentato da più parti come il «malato dell’Europa», è parso interrompersi con la dinamica campagna presidenziale della primavera del 2007, caratterizzata da alta partecipazione, riduzione dei suffragi alle estreme e conclusa con la vittoria del leader neogollista Sarkozy, portavoce di un progetto di «rottura», sia rispetto all’eredità del suo predecessore, sia nei confronti delle strozzature che rallentano il rilancio del Paese. Questa inversione di tendenza è stata confermata dall’esito delle legislative del giugno successivo quando, per la prima volta dal 1978, la maggioranza uscente è stata confermata all’Assemblée nationale.
I primi tre anni di permanenza di Sarkozy all’Eliseo paiono invece ridimensionare la carica innovativa di cui si è fatto portatore il Presidente della Repubblica. Gli errori nella gestione della propria immagine e la scarsa coerenza dell’azione riformatrice dell’esecutivo sono alla base del calo di consensi nei confronti del capo dello Stato, ma anche di un più preoccupante fenomeno di disaffezione nei confronti della politica. Sotto questa luce, all’alba del nuovo secolo, la Francia ripropone la sua immagine ambigua. Da un lato il riemergere di un disincanto democratico e di un’impopolarità crescente delle élite dirigenti collocano il Paese all’interno di un trend comune alle principali democrazie occidentali. D’altra parte, invece, il prepotente riemergere di una grave questione sociale, che sempre più spesso degenera in forme di antagonismo violento, rilancia inevitabilmente l’immagine di una «febbre esagonale» che ha a lungo costituito il tratto distintivo del presunto eccezionalismo francese.»