
Dove sono state adottate le prime misure di confinamento?
L’uso del termine lockdown per indicare le restrizioni imposte contro il Covid-19 comincia con l’isolamento di Wuhan, la metropoli cinese dove il virus Sars-Cov-2 è stato identificato per la prima volta alla fine del 2019. Dopo settimane di inazione dovute ai tentativi di insabbiamento delle autorità locali e all’inerzia del governo centrale, che contribuiscono in modo determinante all’espansione del focolaio iniziale, alle 2 del mattino del 23 gennaio del 2020 il Quartier generale per la lotta all’epidemia emette un comunicato che vieta agli 11 milioni abitanti di lasciare la città e ordina lo stop dei collegamenti aerei e ferroviari. Il provvedimento viene subito esteso a tutta la regione circostante, ma non si tratta ancora di un lockdown totale. Nonostante l’isolamento dal mondo esterno, infatti, all’inizio a Wuhan è ancora possibile muoversi liberamente, mentre le scuole e gran parte delle attività erano già chiuse per le vacanze del Capodanno lunare. Nei giorni successivi, di fronte al continuo aumento dei casi, le autorità irrigidiscono progressivamente le misure, fino ad arrivare all’inizio di febbraio a decretare la “gestione chiusa” delle comunità residenziali, una forma di confinamento domiciliare molto più rigida di quella che sarà sperimentata nella maggior parte degli altri paesi. Il modello elaborato a Wuhan, che comprende anche l’isolamento forzato dei pazienti in apposite strutture, viene applicato in quasi tutti i principali centri del paese e ottiene un successo spettacolare: nel giro di poco più di un mese la circolazione del virus viene messa sotto controllo e le restrizioni sono gradualmente allentate. Al contrario della maggior parte degli altri paesi, però, anche dopo la riapertura parziale il governo resta determinato a mantenere a zero i contagi, attraverso una strategia basata sulla chiusura totale delle frontiere, su un sistema di sorveglianza e tracciamento dei contatti estremamente pervasivo e sull’imposizione di test di massa e lockdown mirati ogni volta che emerge un nuovo focolaio.
Come hanno via via reagito i vari paesi alla prima ondata di Covid-19?
Nonostante la scoperta del nuovo virus venga comunicata all’Organizzazione mondiale il 3 gennaio 2020, la notizia passa praticamente inosservata in gran parte del mondo. Solo i paesi dell’Asia orientale sembrano prendere sul serio la minaccia: oltre alla vicinanza geografica e all’elevato volume di collegamenti diretti con la Cina, il motivo è soprattutto l’esperienza recente con altre due malattie virali, la Sars e la Mers, che hanno insegnato ai governi della regione l’importanza di agire tempestivamente per evitare un’epidemia incontrollabile. A metà gennaio, quando si cominciano a individuare i primi casi al di fuori della Cina, molti di questi paesi hanno già attivato procedure di emergenza che gli permettono di contenere con successo l’ondata di contagi legata al focolaio iniziale senza ricorrere a misure restrittive, puntando sui test di massa e sul tracciamento dei contatti. È il cosiddetto “modello sudcoreano”, che molti paesi si sforzeranno inutilmente di imitare nei mesi successivi. In occidente, invece, il virus è per lo più considerato un problema distante. Il lockdown di Wuhan attira per la prima volta l’attenzione internazionale sull’epidemia, ma la maggior parte dei governi si limita a imporre controlli alle frontiere e divieti d’ingresso dai paesi colpiti, che si riveleranno quasi inutili. Solo con la scoperta del focolaio di Codogno alla fine di febbraio e l’esplosione dei contagi nel nord d’Italia il Covid-19 schizza in cima alle priorità globali, ma per vincere le esitazioni bisognerà attendere l’iniziativa del governo Conte, che il 9 marzo impone il lockdown su tutto il territorio italiano. La pressione politica creata da questa decisione clamorosa scatena un effetto domino che si estenderà prima agli altri paesi europei, poi all’America Latina e infine ai paesi in via di sviluppo in Africa e Asia sudorientale, molti dei quali non hanno ancora registrato livelli significativi di contagio. Meno di un mese dopo più di quattro miliardi di persone, oltre la metà della popolazione mondiale, sono sottoposti a forme più o meno rigide di lockdown. In Europa la maggior parte delle misure sarà revocata già in tarda primavera con la fine della prima ondata, mentre in altre regioni del mondo i contagi continueranno ad aumentare e molti paesi si troveranno di fronte alla difficile scelta tra prorogare indefinitamente le restrizioni o allentarle rischiando un’epidemia incontrollata.
Quale quadro globale emerge sui modi in cui i governi di tutto il mondo si sono trovati a dover decidere sull’opportunità di limitare le libertà fondamentali per far fronte a una minaccia dai contorni ancora indefiniti?
Dopo più di due anni di continui dibattiti sul Covid-19, è facile dimenticare quanto fossero limitate e incerte le informazioni su cui le autorità politiche e sanitarie hanno dovuto basare le loro decisioni all’inizio della pandemia. Una parte della responsabilità ricade ovviamente sulla scarsa trasparenza del governo cinese, ma l’esempio dei paesi dell’Asia orientale dimostra che l’occidente avrebbe certamente potuto farsi cogliere meno impreparato se avesse ascoltato gli avvertimenti degli scienziati, che da anni consideravano imminente una pandemia causata da un nuovo patogeno, e avessero predisposto piani adeguati. Per molte settimane, invece, alcuni dei paesi più ricchi e potenti del mondo – il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti – sono rimasti praticamente ciechi di fronte ai primi segni della circolazione del virus perché non disponevano di un numero sufficiente di kit diagnostici. I dati provenienti dalla Cina erano considerati inaffidabili, e in mancanza di stime realistiche sulla contagiosità e sulla letalità del virus quasi tutti hanno finito per sottovalutare il problema. Solo con il focolaio di Codogno ci si è resi conto di trovarsi di fronte a una minaccia concreta. Ma anche se l’approccio cinese appariva ormai l’unico modo di contenere i contagi, in Europa la prospettiva di limitare le libertà costituzionali di base appariva come un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili: in tutto il continente dieci anni di crisi del debito avevano gravemente minato la stabilità dei sistemi politici e la coesione sociale, e molti leader erano convinti che i divieti avrebbero scatenato disordini o sarebbero stati semplicemente ignorati. A far crollare le resistenze è stato soprattutto lo studio realizzato dall’Imperial college London sulla base dei dati della Lombardia, pubblicato il 16 marzo, che prevedeva milioni di morti in caso di diffusione incontrollata del virus: di fronte a questi numeri anche i leader più recalcitranti, come Boris Johnson e Donald Trump, hanno dovuto prendere atto delle possibili conseguenze non solo politiche ma anche penali della loro inazione.
Quali fattori hanno determinato le radicali differenze nelle strategie adottate?
È difficile tracciare delle dicotomie precise: la scelta di ricorrere o meno al lockdown, soprattutto nella prima fase della pandemia, non è stata un riflesso diretto del grado di sviluppo economico, politico e sociale dei singoli paesi, della loro posizione geografica, dell’orientamento dei loro governi o di altri indicatori classici, ma il risultato di una complessa interazione di fattori che ha condotto contesti apparentemente simili in direzioni talvolta molto diverse: basti pensare alle radicali divergenze tra la strategia adottata dalla Svezia e quelle degli altri paesi scandinavi. Molte delle democrazie più avanzate hanno finito per applicare con zelo una misura elaborata dal regime comunista cinese, seppure con radicali differenze, mentre altre si sono allineate a sistemi autocratici e illiberali nella scelta di resistere a ogni costo al lockdown. Con il passare dei mesi, invece, si è delineata sempre più chiaramente una distinzione basata sull’aspetto economico: se i paesi ricchi hanno potuto permettersi di reimporre di volta in volta misure restrittive anche molto rigide per affrontare la ripresa dei contagi, per quelli in via di sviluppo le conseguenze finanziarie e umane del primo lockdown si sono rivelate insostenibili, e la maggior parte di essi si è dovuta rassegnare a lasciar correre le ondate successive del virus con risultati spesso catastrofici. Un’altra tendenza chiaramente identificabile emerge analizzando l’efficacia delle misure adottate: in generale, i paesi che sono riusciti a evitare la politicizzazione del dibattito sul lockdown hanno ottenuto un’adesione più alta da parte dei cittadini e un effetto più marcato sulla circolazione del virus, che ha permesso loro di revocare più rapidamente le misure. Dove invece ha prevalso la strumentalizzazione politica, la sfiducia della popolazione ha vanificato gli sforzi delle autorità, innescando un circolo vizioso di restrizioni e malcontento che si è autoalimentato per i mesi successivi, e si è finito per perdere di vista la ragion d’essere originaria del lockdown, che era quella di “appiattire la curva” per guadagnare il tempo necessario a mettere a punto strategie sostenibili a lungo termine. È il caso della Cina, dove il lockdown permanente è diventato uno dei pilastri ideologici del regime di Xi Jinping e il principale strumento della sua campagna di rifondazione autoritaria dello stato, nonostante gli enormi costi economici e le crepe sempre più evidenti nel consenso sociale.
Gabriele Crescente, giornalista, lavora per “Internazionale”