“Storia mitica del diritto romano” a cura di Aglaia McClintock

Prof.ssa Aglaia McClintock, Lei ha curato il volume Storia mitica del diritto romano edito da Il Mulino: perché si può affermare che il vero protagonista della storia mitica di Roma è il diritto?
Storia mitica del diritto romano, Aglaia McClintockSe si guarda alla storia di Roma con gli occhiali del giurista, si nota subito che la gran parte dei racconti che la compongono fungono da charter myth di istituzioni giuridiche. Si tratta di storie il cui fine è dare autorità, giustificare o spiegare la comparsa delle principali istituzioni giuridiche. Esse sono ancora ben presenti nel nostro immaginario come esempi di coraggio, dedizione, intransigenza, ma nella loro formulazione antica sembra che siano state pensate proprio da legislatori. Platone aveva bandito dalla sua città ideale i poeti, perché in grado di incantare con le loro parole e, suscitando emozioni, capaci di svilire i comportamenti degli uomini. In una città perfetta solo i legislatori avrebbero dovuto ‘incantare’ e dettare i comportamenti consentiti. Ecco, la storia di Roma sembra dimostrare, per usare le parole di Platone che il diritto è “il dramma più bello che soltanto la vera legge può per natura compiere”. A Roma come a Magnesia, la città ideale di Platone, c’è posto solo per il ius, “la più nobile delle tragedie”. E infatti le leggende romane sono drammatiche, intrise di violenza e di colpi di scena. Quando siamo inclini a pensare che un certo comportamento sarà punito con ferocia siamo sorpresi da una forma di compromesso finale, quando siamo sicuri che i Romani decideranno per la colpevolezza dell’imputato, invece lo assolvono; quando infine le emozioni suscitate dal racconto ci fanno sperare che il colpevole venga risparmiato, la sanzione si abbatte su di lui inesorabile. E allora come non pensare che siamo di fronte a “favole per giuristi”? Favole in cui il diritto parla direttamente agli uomini e, a differenza che in altre società antiche, gli dèi sono tenuti a debita distanza. I Romani non pongono un dio alla base delle norme che regolano la loro condotta perché sanno che sono state prodotte dagli uomini. Non ci sono in questi racconti un’Atena che presiede all’Areopago o un profeta come Mosè che riceve i comandamenti direttamente da Dio; tutt’al più si incontrerà un legislatore fraudolento come Appio Claudio che finisce i suoi giorni in prigione per aver attentato all’onore di Virginia, una giovane cittadina.

In che modo il ratto delle Sabine condiziona la nascita dell’istituto matrimoniale e il conseguente statuto della donna romana?
La violenza perpetrata dai Romani a danno dei Sabini trova la sua composizione non in un inasprimento del conflitto ma in un nuovo istituto giuridico, il matrimonio, che costruisce le basi per la fine della guerra. Ed ecco che si manifesta l’eccentricità dei Romani: la prima unione coniugale non avviene con una concittadina ma con una straniera e le conseguenze giuridiche sono l’accesso alla cittadinanza delle donne e della loro prole, nonché nuove e ‘inedite’ relazioni parentali con i nemici. Continuando la guerra con i Sabini i Romani rischiano di uccidere i padri e i fratelli delle loro mogli. Ma il matrimonio, nonché lo statuto di privilegio concesso alle Sabine, conduce alla progressiva inclusione della popolazione nemica all’interno della compagine sociale romana. La ‘prima donna’ cui assegnare privilegi è quindi una ‘straniera’, e le prime nozze sono celebrate con i riti introdotti dalle spose. Maurizio Bettini ci mostra che è per una Sabina che vengono definiti i tratti pertinenti che “a Roma fanno di una donna una matrona onesta, rispettata e rispettabile”. Ancora una volta i Romani stupiscono per la loro società a vocazione ‘aperta’, per il particolare status che assegnano alle donne e per il livello di integrazione a cui le portano, a patto però che si sposino e osservino i comportamenti richiesti. Anche il luogo dove il ratto si è consumato nei pressi del Circo Massimo riarticola “sotto forma di linguaggio religioso le componenti fondamentali dell’evento mitico” con la presenza di ben tre divinità – Consus, Murcia e Venus Verticordia – a rappresentare il concepimento del piano (Consus), la calma che si ristabilisce dopo la violenza (Murcia) e la concordia che si instaura fra i coniugi (Venus Verticordia)”. I significati propri di questo mito fondativo non sono tramandati solo in forma di narrazione, sono iscritti direttamente in un luogo preciso della Città, evocati dalle divinità che vi sono onorate.

Quando e come maturò il primo scambio commerciale tra cittadini e stranieri?
Le leggende dei primi scambi commerciali sono discusse nel libro da Cristiano Viglietti. Sono storie che precedono la fondazione di Roma e si articolano intorno alla nascita del Foro Boario, il grande mercato dell’Urbe dall’età dei Tarquini. Anche in questo caso – esattamente come per il ratto delle Sabine – il protagonista principale è uno straniero, l’eroe Ercole, che arriva da terre lontane con le sue mandrie, e ancora una volta a svolgere il ruolo di villain è un indigeno, Caco, abitante dell’Aventino, descritto da alcune fonti come pastore, da altre addirittura come un mostro. Caco ha rubato il bestiame di Ercole. L’eroe. recuperati i propri animali, lo uccide davanti a testimoni che non solo reputano giustificata la sua reazione ma lo ringraziano per averli liberati da un temuto brigante. Ercole è accolto come hospes/ξένος e, nel luogo in cui ha ucciso Caco, edifica un grande altare, la Ara Maxima. Più tardi l’intera area circostante, dove l’eroe avrebbe insegnato per la prima volta alle popolazioni indigene “a sacrificare bovini consacrando la decima dei suoi armenti e introducendo il suo culto basato su rituali di origine greca”, sarà designata Forum Boarium o Bovarium. Viglietti ci mostra come questa leggenda connoti da sempre il Foro Boario nei termini di un port of trade, uno spazio di scambio in cui valgono regole specifiche tese a garantire il buon esito dei commerci proprio con gli stranieri. I peregrini infatti erano particolarmente esposti quando volevano vendere e acquistare quella particolare categoria di beni denominata a Roma res mancipi (in cui ricadevano beni immobili, schiavi e i buoi), beni necessari al sostentamento della famiglia, la cui titolarità non solo era riservata ai soli cittadini ma che erano protetti da norme tutte a favore dei Romani. Un po’ come era successo per le spose Sabine, il ius attrae donne e buoi stranieri verso Roma e, se possibile, evita il flusso contrario senza tuttavia incoraggiare pratiche troppo protezionistiche che potrebbero paralizzare gli scambi con gli stranieri. Perché una comunità a vocazione espansiva possa crescere l’autarchia non è una strada percorribile.

In che modo le relazioni famigliari si intrecciano con i doveri verso la civitas?
L’intrecciarsi delle relazioni famigliari con i doveri verso la civitas è descritto in una maniera paradossale e tragica come se fosse stato concepito da Sofocle stesso. Romolo uccide il gemello Remo, Orazio la sorella Orazia. Bruto il console condanna e a mette a morte il figlio. Virginio è costretto a uccidere la figlia per sottrarla a una sentenza iniqua. I racconti si dipanano in famiglie complicate in cui i personaggi sono messi di fronte a contrasti inconciliabili tra relazioni affettive, obblighi verso la collettività e mantenimento dell’onore familiare. Lo dimostrano con grande chiarezza Graziana Brescia, Mario Lentano e Gianluca De Sanctis. Eppure l’accento non batte sulla psicologia dei singoli, sui conflitti interiori, sulla lotta con l’inevitabile, ma sulla concretezza delle azioni e sulle loro ripercussioni. I personaggi stessi non attingono alla singolarità, sono piuttosto lo stereotipo di ruoli: il padre, il figlio, la sorella, il lussurioso, la vergine, il ladro. Come ha osservato a suo tempo Theodor Mommsen la stilizzazione dei personaggi è una conseguenza della rigida disciplina morale romana che impone che tutte le idiosincrasie umane si estinguano in modo che ciascun cittadino sia già istruito e pronto a prendere il posto del padre, in un avvicendarsi continuo che non contempla alcuna personalità spiccata o geniale.

Quando e in che circostanze si svolge il primo processo penale della storia di Roma?
Il primo processo penale celebrato sotto il re Tullo Ostilio scaturisce dal tentativo della città di salvare a tutti costi dalla pena di morte, Orazio, l’eroe che ha dato ai Romani la supremazia nella Lega Latina, ma che ha ucciso la sorella per aver pianto il fidanzato nemico. La storia, da sempre oggetto di attenta analisi degli studiosi, pone numerosi interrogativi giuridici. Perché Orazio è imputato di alto tradimento e non di omicidio, perché riesce a ottenere un processo, perché viene assolto, nonostante abbia assassinato la sorella? Sta di fatto che a questo racconto è legata la nascita della più grande garanzia costituzionale del cittadino contro il potere pubblico: la provocatio ad populum, la possibilità del civis sottoposto a una pena capitale o corporale da parte di un funzionario/magistrato, di richiedere il giudizio del popolo. Luigi Garofalo privilegia un aspetto trascurato dalla dottrina romanistica: il rifiuto posto da Orazia alla richiesta del bacio da parte del fratello. Il casto bacio sulle labbra che ogni donna romana non poteva negare ai parenti entro il sesto grado (gli stessi cioè con cui vigeva il divieto di matrimonio) costituiva un vero e proprio ius la cui violazione, seppur non sanzionata con la morte, era severamente punita dal pater familias in quanto rappresentava una palese dimostrazione del rifiuto del vincolo famigliare. Il rifiuto di Orazia spiega in maniera finalmente efficace perché il fratello fu imputato di perduellio, ovvero di alto tradimento contro la civitas, e non di omicidio: si era sostituito al pater nel punire l’inosservanza di un obbligo familiare. Il sol fatto che Orazia avesse pianto pubblicamente il fidanzato morto era un movente davvero troppo fragile per giustificare una reazione tanto violenta. Inoltre Luigi Garofalo mette in luce come dopo la sentenza di morte pronunciata dai duumviri (i magistrati preposti a giudicare sull’alto tradimento) si giunga al processo grazie a una serie concatenata di decisioni politiche e giuridiche del re che coinvolge il popolo in veste di organo decidente. Per lo studioso l’assoluzione è frutto di una disapplicazione la legge nei confronti dell’imputato.

Quale evento tragico segna l’inizio della repubblica?
A solo un anno dalla sua instaurazione la neonata repubblica deve affrontare il tradimento di alcuni giovani nobili che desideravano il ritorno della monarchia. Tra essi vi era anche il figlio di Bruto, uno dei due consoli. Sventata la trama, Bruto non esita a procedere all’esecuzione dei congiurati che non solo hanno messo in pericolo la civitas, ma che hanno contestato la validità stessa del ius. Tra di essi vi sono appunto i suoi figli. Questa è proprio una delle storie esemplari che citavo in apertura in cui la narrazione ti spinge a desiderare clemenza per i figli traditori. Invece l’esecuzione si abbatte su di loro inevitabile. La questione che ci poniamo da giuristi è se Bruto mettendoli a morte stesse esercitando il suo potere di console o invece il suo ius vitae ac necis di padre. Carlo Pelloso ci mostra come sia proprio l’intreccio tra le prerogative di pater e di consul a creare una imago fondante di dedizione a Roma e a convogliare il messaggio dell’inesorabilità della punizione. Se Bruto avesse operato da semplice console, mettendo da parte il suo ruolo di padre, avrebbe diminuito l’esemplarità della condanna; se si fosse comportato solo da padre, sottraendo i figli alla punizione della civitas, avrebbe messo in dubbio la sua dedizione alla repubblica, concedendo loro una morte pietosa tra le mura domestiche e lontano dagli occhi della folla. Bruto invece rinuncia al privilegio di uccidere i propri figli, “vantaggio che Roma concede ai suoi patres, e non, in termini assoluti, un atto eroico e memorabile che i patres concedono a Roma”. In questa rinuncia “starebbe l’autentica, tragica severitas del primo console che exuit patrem, ut consulem ageret”. Secondo lo studioso Bruto è pater anche mentre agisce da console perché avendo emesso il giudizio domestico non avrebbe consentito né l’intercessione dell’altro console né la richiesta del figlio di un giudizio del popolo. Giurisdizione domestica e pubblica si sovrappongono per esprimere una severitas che non ammette vie di fuga.

Il volume si chiude emblematicamente con il furto di un libro, quello delle azioni processuali dall’archivio dei pontefici: qual è l’importanza del gesto di Gneo Flavio?
Gneo Flavio, il segretario personale di Appio Claudio Cieco (discendente dell’empio legislatore) intorno al 304 a.C. rubò il libro delle azioni processuali dall’archivio dei pontefici, che detenevano il monopolio sul ius e sulla sua interpretazione, per darlo al popolo. Inoltre rese noti i giorni in cui si poteva agire in giudizio che per un profano erano assai difficili da stabilire. La consulenza dei pontefici non sempre era facile da ottenere, né era dovuta. Alcune versioni accentuano il coinvolgimento di Appio nell’impresa. Certo, Gneo Flavio non fu perseguito per il suo furto e anzi come un novello Prometeo ricevette onori per aver reso accessibile un sapere specialistico detenuto per secoli nelle stanze segrete del collegio dei pontefici. Le innovazioni prodotte furono grandi: la rottura del segreto pontificale e la “pubblicazione” del libro delle azioni portò alla comparsa dei giuristi laici, professionisti del diritto, e all’inizio della letteratura giuridica ‘scritta’. Il racconto è pieno di curiose inversioni: Appio Claudio è un cieco a cui i Romani attribuiscono la paternità sia della scrittura letteraria che di quella giuridica; Gneo Flavio è uno scrivano che per poter essere eletto magistrato giura che non scriverà più. L’eroe di questo racconto non è più un integerrimo magistrato o un legislatore corrotto ma geniale, ma un umile tanto furbo da poter sottrarre ai più sapienti la loro scienza. Non deve imporre l’ordine ma deve turbarlo. È un trickster, un personaggio che si incontra nella mitologia di numerosi popoli e che ha la caratteristica di sconvolgere regole presenti e rispettate, per poter aprire la strada all’innovazione. Ma per me, Gneo Flavio, da quando studentessa l’ho incontrato nelle aule universitarie, resta il Robin Hood del diritto, un uomo in grado di rubare ai pontefici un libro segreto per darlo al popolo.

Aglaia McClintock insegna Istituzioni e storia del diritto romano nell’Università del Sannio a Benevento. Giurista e storica, ha un profondo interesse per l’antropologia del mondo antico, soprattutto per quanto riguarda le sue interazioni con la storia del diritto romano. Tra i temi di ricerca si segnalano la condizione giuridica dei condannati a pene capitali durante l’impero romano; la condizione giuridica delle donne; le rappresentazioni iconografiche e religiose della giustizia romana. Della sua produzione ricordiamo la monografia Servi della pena. Condannati a morte nella Roma imperiale (Napoli, ESI, 2010) e per Il Mulino la cura di Giuristi nati. Antropologia e diritto romano (2016).

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