
L’enfasi che il titolo pone su questi due aspetti va dunque intesa soprattutto come sollecitazione in direzione di un incontro, di un confronto interdisciplinare, auspicabile e ‘necessario’. Il più noto e pervicace tra tutti gli stereotipi antiebraici, su cui torneremo, è infatti economico: l’ebreo usuraio. Ed economica era la giustificazione addotta dalle autorità per istituzionalizzare la presenza ebraica: il prestito calmierato ai meno abbienti. Questo non toglie che la questione della presenza ebraica sia molto più sfaccettata e complessa: inizia prima dell’ebreo usuraio e finisce dopo di lui. È quest’ultima la chiave di lettura che, con gli altri autori, è stata scelta per comporre il volume e che stiamo cercando di sviluppare nell’ambito di un Progetto di ricerca di interesse nazionale dedicato al tema della convivenza tra diversi: The Long History of Anti-Semitism. Jews in Europe and the Mediterranean (X-XXI centuries): Socio-Economic Practices and Cultural Processes of Coexistence between Discrimination and Integration,Persecution and Conversion.
Quale rapporto esiste tra ebrei ed economia moderna?
La fioritura dei banchi di prestito in seno all’economia degli stati della penisola italiana, che si delinea tra i secoli XIV e XVI coincide con una fase di trasformazione in senso oligarchico delle istituzioni governative locali. Nel contempo si abbina ad una mutazione dell’economia finanziaria nel senso di una riorganizzazione fiscale e finanziaria degli stati medesimi e della progressiva costituzione di un mercato a cui parteciparono anche gli ebrei. Confinati istituzionalmente nell’ambito del banco e impegnati, in subordine, nel correlato settore della strazzeria gli ebrei hanno trovato gli strumenti e la forza per giocare una partita più difficile ed estesa. L’opportunità di stabilizzare la propria presenza entro le mura cittadine imponeva loro di mettersi in gioco su più tavoli: nel prestito ai comuni o ai principi (dunque nel finanziamento del ‘debito pubblico’), nel sostegno al conspicuous consumption e negli appalti. Quando le circostanze lo consentivano, essi erano impegnati in prima persona dell’esercizio di attività produttive mentre rivestivano un ruolo primario nell’ambito dei commerci anche grazie al loro coinvolgimento in circuiti e reti intra-statuali ed iter-statuali, intra-etnici ed inter-etnici, come dimostrato, ad esempio, nel caso di Ferrara. In molti casi è stata proprio la versatilità e la ampiezza di una organizzazione economica che poteva disporre anche di ramificazioni sovranazionali che ha reso desiderabile la loro presenza all’interno dei diversi stati di cui ha contribuito alla trasformazione politica ed economica.
Come nasce la tradizione storiografica che ha relegato gli ebrei alla mera attività creditizia?
Si può ricordare, in maniera molto sintetica, come questo approccio abbia risentito di una duplice influenza. Da un lato abbiamo infatti le ricadute della riflessione teologica medievale dall’altro il tipo di fonti che per prime sono state utilizzate per studiare il tema: le condotte.
Le condotte erano licenze all’esercizio dell’attività feneratizia emanate dall’autorità costituita (e questo, generalmente, le ha rese di più agevole reperimento) che fissavano le condizioni operative per l’esercizio del banco e, con quelle, la durata e i limiti giuridici della qualità di ‘cittadino’. Questo privilegio concedeva, all’atto pratico, la ‘patente di ebreo’ (tollerato) ai prestatori e alle loro famiglie. L’ovvia conseguenza è stata che sul piano giudico e, a cascata, storiografico sono rimaste a lungo in ombra tutte quelle figure, e quelle attività, che si riparavano sotto l’ombrello del prestatore oppure esistevano -senza specifiche garanzie istituzionali – indipendentemente dalla condotta. La difficoltà del potere politico di percepire la presenza ebraica come ‘comunitaria’ è peraltro il prodotto di una concezione tutta ‘italiana’ che la rende differente, ad esempio, dal modello spagnolo che giurisdizionalmente assegna l’appartenenza degli ebrei al sovrano.
Quali stereotipi e luoghi comuni demolisce il libro?
Come accennato nell’introduzione del volume, e ribadito particolarmente negli interventi di Marina Caffiero e Giacomo Todeschini, il punto di vista dal quale siamo partiti è stato il concetto di stereotipo mutuato dalla psicologia sociale: “un discorso sull’altro condiviso da una società o da un gruppo” costruitosi per stratificazione; in quanto tale descrive, e plasma, una certa realtà. Essendo, per definizione, un luogo comune nonché la cifra espressiva di una certa sensibilità collettiva, esso costituisce senz’altro un buon punto di partenza per una indagine sugli ebrei in Età moderna. Quelle che sono le sue potenzialità esplicative costituiscono, tuttavia, anche i suoi limiti posto che propone una lettura estremamente scarna, schematica, di un contesto denso e fluido, articolato e opaco. Di nuovo il riferimento è al più comune tra degli stereotipi che, prima e dopo Shylock, identifica gli ebrei come gli usurai nell’ambito di una società che, in ogni sua fibra, in ciascun interstizio -in misura inimmaginabile per un contemporaneo- era permeata dal credito e dal debito. Come dimostrato anche dalle recenti ricerche di Maria Muzzarelli, piuttosto che di Laurence Fontaine, le organizzazioni e gli operatori istituzionalmente impegnati nel credito erano del tutto inadeguati, sia numericamente, sia sul piano delle oggettive disponibilità economiche, a fronteggiare l’immensa e capillare domanda di denaro che proveniva dalla società intera. Il risultato era lo stupefacente proliferare di circuiti informali: tutti -dagli artigiani ai conventi, al clero- prestavano e prendevano a prestito, con o senza pegno, chiedendo una qualche forma di interesse. In questa cornice gli ebrei rappresentavano solo un tassello, ben visibile anche in quanto regolamentato, di un mondo più ampio, innervato da un pluralità di circuiti privati (ma ben noti) e legato al credito da nodi solidi, durevoli, stretti e trasversali. Le attività economiche, dunque. E il banco, ma non solo. Anche quella parte di commerci che afferiva alla strazzeria, un’altra tipica professione praticata dagli ebrei di cui l’etimo ha il torto di evocare squallore e cianfrusaglie cela, in molte città, un business capace di arricchire molte famiglie e di permettere ad alcuni attori economici, nel nostro caso ebrei romani, di acquisire un certo rilievo sociale. La loro rilevanza economica, e la perfetta conoscenza della legge, permisero ai protagonisti di questa storia di sgusciare dalle maglie della giustizia in occasione di un processo che li vedeva imputati del vizio nefando di sodomia. Non solo. Uno di loro potrà permettersi di non comparire mai a testimoniare di fronte al tribunale.
Contrariamente ad un luogo comune che vuole la minoranza ebraica compatta e solidale in molti dei casi esaminati si dimostra come la vita comunitaria, prima e durante l’Età dei ghetti, soprattutto nelle aggregazioni più vaste, esprimesse un mondo gerarchizzato, socialmente sfaccettato, talora spaccato. A Roma come ad Ancona (in minor misura) il contesto è teso, talora conflittuale. A Mantova, in qualche modo, gli stessi contorni istituzionali del gruppo ebraico, che dovrebbero essere fermi, sono incerti. Talora, come osservato da Germano Maifreda, sembrano in forse “la coesione, l’identità e il significato stesso della Comunità”. E la specializzazione professionale, idealmente ‘pietrificata’, viene progressivamente erosa dallo stesso potere costituito che, anche in relazione alle proprie necessità, sbriciola con cura la normativa rendendola progressivamente più complessa e meno intellegibile ma, proprio per questo, idonea a tutelare anche interessi contrapposti.
Alcune analisi condotte su fonti d’archivio non tradizionali, come i processi e i manuali di mercatura, mostrano come l’interpretazione della natura della convivenza tra diversi in termini di tolleranza-intolleranza (quest’ultima talora destinata concretizzarsi in politiche anti-ebraiche) richieda una lettura da sviluppare sul piano dell’interazione quotidiana la cui buona o cattiva qualità fornisce allo studioso indicazioni più precise, anche se ‘granulari’, sul carattere della reciproca percezione. Così, ad esempio, nel caso volterrano, emerge come le vicende processuali che, nel Quattrocento, coinvolgono gli ebrei del posto non siano correlate a un preciso intento discriminante, ma denotino piuttosto una situazione di conflittualità reciproca, esistente tra una parte della popolazione ed un singolo ebreo. Anche la manualistica mercantile, una letteratura destinata a formare professionalmente gli operatori economici cristiani, riserva delle sorprese. Questi testi trattano infatti diffusamente di prestiti e di crediti, ma quando utilizzano l’esempio dell’ebreo banchiere, se escludiamo alcune eccezioni, non lo presentano come usuraio (lo stereotipo!) ma come legittimo operatore professionale proponendo una chiave di lettura sostanzialmente neutra.
Anche l’approccio storiografico, si tratta di una questione ben nota, è stato lungamente declinato temi stereotipati. La storia gli ebrei d’Italia si è spesso sintetizzata nel paradigma usurario cosa che ha favorito una rappresentazione incentrata, “sulla falsariga di antichi stereotipi teologici”. In altri casi la Natio Hebreorum è stata, per così dire, spacchettata: i nuclei diasporici della Penisola hanno così perso il loro carattere di snodi della “Res Publica Haebreorum” per acquisire una dimensione locale e atomizzata incapace di restituire una coerenza diversa da quella propria di un precipitato religioso o cultuale. In entrambi i casi siamo di fronte a schematismi che hanno relegati gli ebrei a cascame funzionale alle necessità di una società e di un’economia a maggioranza cristiana culturalmente compatta ed etnicamente impermeabile. Come precisato da Giacomo Todeschini la coerenza interiore di queste interpretazioni ha comportato che la presenza ebraica fosse giustificata sulla scorta di esigenze e accomodamenti interamente esterni spiegabili con le caratteristiche di un’ideologia cristiana che si è voluta appoggiata su presupposti, e su custodi, inflessibili. E gli ebrei non sarebbero stati null’altro che un espediente preposto a risolvere un problema etico-economico: “esponenti di una economia residuale che non poteva essere esplicitamente impersonata da finanzieri e commercianti cristiani” (Todeschini, 2016, p. 17)[1].
Qual era l’importanza delle reti di relazione nei rapporti tra ebrei e cristiani?
La condizione di minoranza storicamente discriminata propria del popolo ebraico ha contribuito a plasmare un complesso di comportamenti adattativi che nel tempo si sono declinati nel senso di privilegiare una dimensione cooperativa, informale, rivolta a potenziare le risorse collettive a disposizione degli attori. Le limitazioni istituzionali a cui i singoli e le comunità dovevano soggiacere, il conferimento di una cittadinanza monca e il serrato incidere delle norme sulla sfera socio-economica hanno disegnato un recinto di vincoli e di opportunità che da un lato ha connesso la condizione minoritaria ad alcuni specifici percorsi produttivi e professionali e dall’altro ha condotto gli ebrei ad operare, spesso, in rete. Il sistema dei network relazionali (forme aggregative costruite attraverso matrimoni, rapporti di parentela e collaborazioni professionali) e i suoi nodi (le famiglie e banchi, di cui sosteneva l’operatività), viene pertanto a configurarsi in una forma che oggi definiremmo “capitale etnico”, un patrimonio non divisibile e non appropriabile a livello individuale, i cui vantaggi, a partire dalla circolazione dell’informazione per finire alla fiducia, si distribuivano sui singoli nodi della rete.
In che modo è necessario ripensare il modello storiografico classico relativo ai ghetti?
Descritto all’inizio del Novecento come “luogo d’origine di un’economia ambigua” il termine ghetto identificava, ai suoi esordi, un’idea di spazio degli ebrei’ che esisteva, non solo a Venezia, già precedentemente all’emanazione delle ‘bolle infami’. Esso indicava l’area urbana in cui si addensavano le loro abitazioni, che nella maggior parte dei casi è venuta a costituire, in seguito, il recinto vero e proprio. Il tema della ‘necessità’, per la maggioranza cristiana, di relegare gli ebrei in un quartiere specifico, che le mura separavano dal resto della città è stato sollevato, già nel 1991, da Robert Bonfil che lo individua come la sola modalità compatibile con la mentalità dell’epoca per metabolizzare, stabilizzandola, la presenza ebraica negli stati italiani. Con i primi secoli dell’Età moderna si chiude il periodo delle condotte mentre si guarda istituzionalmente, con maggior chiarezza che in passato, agli ebrei come collettività. Il ghetto sarebbe dunque, ad un tempo, espressione della crisi della relazione ebraico-cristiana e di una ‘soluzione’ della medesima coerente con la cultura e la sensibilità dell’epoca. La sua nascita inoltre non va considerata isolatamente. Esiste infatti un nesso forte con la nascita e la diffusione della banca pubblica cristiana, emanazione dei Monti di pietà. Il carattere sovrastatuale di queste istituzioni rappresenta inoltre un tratto culturalmente unificante nell’ambito di una collettività multicentrica e centrifuga come l’Italia delle cento città.
In merito al tema della cittadinanza degli ebrei, quali evidenze storiche sottolinea il libro da Lei curato?
Il tema della cittadinanza costituisce un ambito di indagine estremamente complesso e vivamente dibattuto. Natura e contenuti delle concessioni, more solito, variavano nel tempo e nelle diverse realtà e si declinavano diversamente rispetto al privilegio concesso agli altri ‘stranieri’ residenti ed operanti negli stati e nelle città italiane. Come abbiamo accennato, per tratti molto stilizzati, si trattava di un riconoscimento ascrivibile a motivazioni di ordine economico. La condotta garantiva agli ebrei (generalmente denominati cives) un’appartenenza temporalmente e operativamente limitata, che, soprattutto inizialmente e per le comunità più piccole, era circoscritta ai prestatori e alle loro famiglie. Altrove, come dimostrato, ad esempio, dal pionieristico studio di Antonio Ivan Pini dedicato alla Bologna bassomedievale, vivevano, più o meno stabilmente, ebrei la cui esistenza non era regolata da un privilegio. Ricondotti sotto la categoria giuridica di habitatores, essi erano sottoposti al diritto comune. Una volta di più la regola è che è difficile individuare regole. Peraltro anche dopo l’istituzione dei ghetti, un passo teoricamente risolutivo, almeno sul piano della stabilizzazione della residenza, troviamo delle eccezioni: ebrei che lavoravano e vivevano stabilmente al di fuori dalle mura del claustro.
[1] G. Todeschini, La banca e il ghetto. Una storia italiana, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 17.