“Storia economica della felicità” di Emanuele Felice

Prof. Emanuele Felice, Lei è autore del libro Storia economica della felicità edito dal Mulino: che relazione c’è fra sviluppo economico e felicità?
Storia economica della felicità, Emanuele FeliceCredo che intanto bisogna chiarire cosa intendiamo per felicità. Se la felicità fosse solo uno stato di piacere individuale, o una sensazione di benessere psico-fisico, allora il problema sarebbe già risolto. Diremmo che lo sviluppo economico ha posto tutti nelle condizioni di essere felici: al limite, basta una pillola al giorno, che costa poco ed è ormai alla portata anche dei più poveri. Nei numerosi libri che si pubblicano ogni anno sulla felicità, alcuni anche di autorevoli studiosi, è proprio questa la visione della felicità di gran lunga prevalente. Ma se fosse così semplice, che cosa ne parliamo a fare? Ai giorni nostri c’è la chimica ad aiutarci! Ti senti triste? Prendi un antidepressivo. Provi dolore fisico? Prendi un antidolorifico. Droghiamoci tutti, di farmaci o di vere e proprie droghe: saremo tutti felici. Fra l’altro, saremmo anche più produttivi. In parte già avviene, basti guardare ai consumi mondiali di antidepressivi o di eccitanti.

Sennonché a questo punto si svela l’inganno. Ben pochi vorrebbero vivere in una società in cui si va avanti solo grazie alle medicine, o a qualche tipo di droga; ben pochi direbbero che quella è la società ideale. Il mio libro riconosce quest’inganno. E parte da una visione di felicità diversa, rispetto a quella oggi egemone anche nella vulgata popolare. È in sostanza l’idea che avevano gli illuministi, o almeno una parte di loro. Libertà, anche dalle necessità materiali e dal dolore; relazioni sociali; senso della vita. La felicità – che non vuol dire stare contenti per un po’, ma sentire di vivere una vita che vale la pena di essere vissuta – è tutte e tre queste tre cose insieme.

E allora la relazione fra sviluppo economico e felicità si fa un po’ meno scontata. Lo sviluppo economico e tecnologico, quello dell’economia capitalista, ma non solo, può portarci all’«abisso», all’autodistruzione (ne abbiamo avuto diversi esempi del Novecento); che sia o meno questo l’esito dipende anche dal significato che sentiamo di dare alla nostra esistenza (e quindi anche a quel tipo di sviluppo), cioè dalla nostra idea di felicità. Ma quello stesso sviluppo può creare le condizioni affinché un numero sempre più ampio di persone possa essere felice, nel senso che ho ricordato: affinché, liberati dal bisogno e dalle necessità materiali, magari dedicati a professioni che noi abbiamo voluto intraprendere e che ci realizzano, possiamo considerare le altre persone, e gli animali, come fini in sé, non più come strumenti; e affinché possiamo vivere ciascuno la vita che preferiamo, secondo il significato, o i significati, che vogliamo darle (anche i più diversi). È un’utopia? A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, osservando le trasformazioni intercorse negli ultimi due secoli, in parte tutto ciò si sta già verificando. Certo, è una sfida aperta, fra l’abisso e la felicità. Spetta a noi giocarcela: per questo sono fondamentali la cultura, le istituzioni e, in ultima analisi, la politica.

Quali grandi rivoluzioni economiche ha vissuto l’uomo nel corso della sua storia?
La rivoluzione agricola migliaia di anni fa, poi quella industriale. Ma sono cose note. Più interessante è osservare come queste rivoluzioni si colleghino a diverse visioni della felicità, di volta in volta prevalenti: nel mondo agricolo-stanziale, l’idea che la felicità sia possibile solo per ascetica ricerca individuale (le scuole filosofiche-religiose orientali o anche, nella civiltà greco-romana, gli epicurei e i cinici); oppure la convinzione che la felicità autentica non sia di questa terra, ma possibile solo in una vita ultraterrena (le grandi religioni monoteistiche). Risultano queste visioni comuni a tutte le civiltà agricole, le quali non a caso – tutte, nessuna esclusa, in qualunque angolo del Pianeta – si fondano sulla disuguaglianza e sulla discriminazione dei sessi: quelle visioni della felicità sono ideologie che servono a puntellare un tale stato di cose. Ma per una serie di ragioni, anche fortuite, a un certo punto – in Europa occidentale, nell’età moderna – la «teologia» della felicità inizia a cambiare: la felicità diviene possibile qui, su questa terra, e come dimensione collettiva o sociale (gli illuministi parlano di «felicità pubblica»), non più solo ascetica o individuale. Sarà questa una leva potente per il mondo moderno. Combinandosi con la conoscenza utile e con l’uguaglianza giuridica, darà vita alla rivoluzione industriale.

Quali idee della felicità convivono nella nostra società contemporanea?
Due molto diverse, almeno in apparenza. Ne accennavo già nella prima risposta. Una è fondata sul piacere. L’altra invece è una dimensione etica, fondata su una qualche visione di impegno che dia significato alla vita, un impegno (e un senso) spesso da condividere con altre persone. In verità entrambe le visioni hanno una qualche ragione, ma nessuna da sola è sufficiente. La buona notizia è che il progresso tecnologico rende oggi conciliabili, almeno in linea di principio, la felicità fondata sul piacere e quella etica. La notizia brutta è che il progresso tecnologico si incardina in un assetto culturale e istituzionale che pone al centro della propria realizzazione l’arricchimento personale: e quest’ultimo, che pure è stato utile in passato per mettere in moto la rivoluzione industriale, è oggi in contrasto con il perseguimento della felicità, sia individuale che collettiva.

In che modo la globalizzazione influisce sul nostro concetto di felicità?
Non direi sul nostro concetto, ma proprio sulla nostra felicità. Penso che la peggiori. Questa globalizzazione. Specie per chi fa parte del Sud del mondo: giacché è una globalizzazione squilibrata, in cui capitali e merci possono muoversi, ma non altrettanto le persone; e a chi rimane intrappolato nei paesi poveri questa globalizzazione spiattella in faccia il problema, gigantesco, delle disuguaglianze fra paesi, e della profonda ingiustizia a essa correlata, creando per loro un profondo senso di frustrazione (ma ripeto: questa globalizzazione, rimasta monca della sua gamba più importante). In aggiunta, con riferimento al ceto medio dei paesi avanzati – che è in fondo una minoranza dell’umanità, relativamente privilegiata – la globalizzazione ha, probabilmente, comportato un peggioramento anche della condizione economica (mentre ha fatto migliorare quella dei ceti medi dei paesi emergenti, peraltro molto più numerosi).

La globalizzazione è però inevitabile, almeno nei suoi risvolti tecnologici; in un certo senso è perfino giusta. Scaturita dallo sviluppo economico, è un’opportunità gigantesca per l’umanità: amplifica la libertà degli esseri umani, moltiplica le loro relazioni, a ben vedere riduce anche le disuguaglianze fra Nord e Sud. Ma richiede istituzioni, culture e politiche in grado di gestirla. Peraltro l’alternativa alla globalizzazione l’abbiamo già vista nella storia: la guerra, mondiale.

Viviamo nell’epoca più felice della storia?
Io penso che misurare la felicità sia sbagliato. Profondamente sbagliato. E forse, al fondo, anche un po’ nazista (è una provocazione, ma neanche tanto: misurare la felicità tradisce un’aspirazione al controllo delle coscienze che è propria dei regimi totalitari; con l’aggiunta di un’ideale di perfezione, agevolato dalla scienza, che era proprio del nazismo). Si possono, si devono misurare i diritti umani, la possibilità che viene data a ognuno di vivere liberamente la propria vita: fra tutti il diritto a ricercare la felicità, come dicevano gli illuministi. Da questo punto di vista, oggi ci sono più diritti che in passato, la condizione umana è enormemente migliorata, anche se si sono creati problemi nuovi, o gravi pericoli: la disuguaglianza, che oggi è soprattutto fra gli stati e stride con un’ideologia liberal-democratica che invece proclama che tutti gli uomini (e le donne) dovrebbero avere gli stessi diritti; la proliferazione nucleare; il collasso ambiente. Sfide del genere palesano il rischio dell’abisso, che si spalanca fra i melmosi fondali della psiche umana e il progresso tecnologico. Noi tutti che ricerchiamo la felicità, camminiamo in bilico sull’abisso.

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