“Storia di Hester e Vita di Tubia” di Lucrezia Tornabuoni, a cura di Luca Mazzoni

Prof. Luca Mazzoni, Lei ha curato l’edizione critica e il commento del libro Storia di Hester e Vita di Tubia di Lucrezia Tornabuoni, pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura. Nel panorama letterario del Quattrocento sono davvero poche le donne scrittrici: come si sviluppa la produzione della madre di Lorenzo il Magnifico?
Storia di Hester e Vita di Tubia" di Lucrezia Tornabuoni, Luca MazzoniLa religione è l’orizzonte esclusivo delle opere di Lucrezia Tornabuoni, che in totale assommano a una canzone, otto laudi e cinque poemetti (va aggiunto anche un sonetto d’occasione). La canzone rielabora temi biblici legati alla nascita di Cristo, mentre le laudi presentano le caratteristiche tipiche di questo genere letterario nel Quattrocento: inviti ai pastori ad adorare il Messia appena nato, l’ingresso di Gesù a Gerusalemme con la successiva Passione e Crocifissione, la discesa di Cristo nel Limbo per salvare i patriarchi e i bambini morti prima del battesimo (la celebre Ecco el Re forte), un invito a meditare sulla Passione di Cristo, l’effusione dello Spirito Santo, un dialogo con il diavolo in cui si dichiara di rinunciare alle sue lusinghe. I poemetti costituiscono la resa poetica di alcune storie bibliche: oltre a quelle di Ester e Tobia, troviamo, sempre in terzine, quella di Susanna, mentre sono in ottave quelle di Giuditta e san Giovanni Battista (quindi tutte storie tratte dal Vecchio Testamento tranne quella del Battista, il santo patrono di Firenze). In generale, i poemetti sono molto vicini al testo biblico, ma presentano alcune interessanti variazioni. Le donne scrittrici nel panorama letterario del Quattrocento sono davvero poche, ma l’ambiente laurenziano sembra averne favorito l’apparizione: oltre a Lucrezia, dobbiamo ricordare Antonia Tanini (1452/54-1501), moglie di Bernardo Pulci (fratello del più celebre Luigi), autrice di sacre rappresentazioni che furono fra le prime opere letterarie scritte da una donna a essere stampate. Anche le laudi di Lucrezia vennero stampate nel Quattrocento, insieme a quelle di altri autori, mentre i poemetti rimasero inediti.

Quali affinità presentano i due poemetti con le opere poetiche scritte nell’ambiente del Magnifico?
Lo studio di queste due opere ha permesso di trovare moltissimi echi di espressioni contenute in opere poetiche che circolavano nell’ambiente di Lorenzo: principalmente nel Morgante, il poema di Luigi Pulci che fu commissionato proprio da Lucrezia (un esempio: nel poema di Pulci si afferma che «meglio è morir che stare in contumace [cioè ‘in esilio’]», XV 14 8, e nella Vita di Tubia: «mi par che sia / me’ di morir che stare in contumace [cioè ‘nella colpa’]», III 32-33). Ci sono somiglianze anche con altre opere quali le Rime di Poliziano (cito a titolo d’esempio un suo verso – «co’ tuo begli occhi, anzi duo vive stelle», Rime XIV 6 – che è praticamente uguale a «Vedo le suo luci, anzi duo stelle!», Storia di Hester VII 138 –), o con le opere poetiche dello stesso Magnifico, che com’è noto non fu solo un sagace uomo politico ma anche un prolifico scrittore. Meno frequenti, stranamente, i parallelismi con Feo Belcari, un altro autore dell’ambiente di Lorenzo, peraltro assai vicino a Lucrezia anche nella scelta di comporre opere poetiche di natura religiosa (un esempio: «perch’egli è medicina al nostro male», sonetto Parmi veder l’arcangiolo Gabriello 11, va confrontato con «a quel mal si trovò la medicina», Storia di Hester III 24). Sfortunatamente, tutte queste opere, incluse quelle di Lucrezia, non hanno una collocazione cronologica precisa, per cui è molto difficile dire quale sia la direzione in cui corrono le influenze. Possiamo esserne certi solo nel caso di una delle ultime opere di Lorenzo, la Rapresentatione di san Giovanni e Paulo (guarda caso un’opera religiosa), composta nel 1490-91, quindi circa dieci anni dopo la morte di Lucrezia. In questo testo troviamo alcune affinità lessicali con i poemetti della Tornabuoni: per esempio, «Metti ad effetto i pensier’ santi et magni» (Rapresentatione 96 7) può essere paragonato a «et missonsi in effetto i pensier’ sani» (Vita di Tubia VII 88).

Quale peso hanno i prestiti danteschi e petrarcheschi e le formule della tradizione canterina e cavalleresca nella parola poetica di Lucrezia?
Un peso assai rilevante: nei poemetti trapelano spessissimo le espressioni dantesche e petrarchesche e le formule tipiche della tradizione dei cantari, direi anzi che sono due ingredienti fondamentali della poetica di Lucrezia. Nel primo caso, troviamo un buon numero di espressioni che, ancora una volta, leggiamo anche nelle opere coeve del Magnifico, Poliziano e Pulci; tanto per fare un esempio, un verso che termina con «[…] in men che non balena» (Inferno XXII 24) è sia in Storia di Hester VIII 143 sia in Poliziano, Stanze per la giostra II 23 4, Pulci, Morgante XIX 61 6. Nel Simposio di Lorenzo abbiamo la lieve variante «[…] in men che ’n un baleno» (V 72). A volte Lucrezia adotta prelievi danteschi e petrarcheschi che sembrano essere stati produttivi di suggestioni letterarie per lei in particolare, dato che non li troviamo nelle altre opere della cerchia del Magnifico. È inoltre frequente in Lucrezia la scelta di attingere dalle formule fisse presenti nei cantari: l’appello agli ascoltatori, la professione di indegnità poetica, il ricorso alla brevitas per non annoiare, il topos dell’evento senza precedenti, ma anche, più minutamente, la descrizione di un edificio costruito con pietre talmente sfavillanti da illuminare la notte, i paragoni donna-stella, donna-angelo, e così via, sono tutti artifici retorici ampiamente sfruttati dagli autori di una letteratura “di consumo” come quella dei cantari (e alcuni di questi cliché tornano, oltre che in Lucrezia, anche nelle opere del circolo laurenziano).

Cosa rivela il confronto con i due volgarizzamenti della Bibbia pubblicati nell’agosto e ottobre del 1471?
In quell’anno vennero pubblicati due incunaboli di fondamentale importanza: il primo di agosto l’editio princpes della Bibbia in volgare, tradotta dal veneto Niccolò Malerbi, monaco camaldolese, il cui volgarizzamento, però, incorpora almeno in parte traduzioni precedenti; il primo di ottobre venne stampato un altro volgarizzamento, il cui autore non ci è noto, che si rifà ad altre versioni precedenti (almeno fino a un certo punto, a partire dal quale attinge alternativamente dalla traduzione del Malerbi e dai volgarizzamenti). I volgarizzamenti dei libri biblici di Ester, in queste due edizioni, sono diversi fra di loro, mentre quelli del libro di Tobia dopo un certo punto tendono a essere praticamente uguali, e confrontando il loro testo con quello dei poemetti di Lucrezia si è presentata una situazione piuttosto complessa, che riassumerei così: Lucrezia conosce il testo latino della Vulgata – un dato significativo, a quest’altezza cronologica: Lucrezia è una donna istruita, che sa di latino – e lo segue abbastanza fedelmente, ma nella Storia di Hester talvolta segue da vicino il volgarizzamento del primo di ottobre 1471; potremmo dire che lo stesso accade con la Vita di Tubia, ma in quest’opera Lucrezia prende spunto anche dalla versione del primo agosto 1471. Due esempi: la versione del primo ottobre, nel momento in cui sta descrivendo la pena inflitta ad Amam, consigliere del re Assuero che intendeva sobillare il re contro gli Ebrei, inserisce una massima tratta da un altro libro biblico, quello dei Proverbi, massima che recita così: «Qui volvit lapidem, revertetur ad eum» (“il sasso tornerà indietro a chi lo fa rotolare”, cfr. Proverbi 26,27). Ebbene, queste parole si trovano anche in Storia di Hester VIII 146-147 («et ben è ver che chi la pietra gitta / a llui ritorna, non perdendo lena»). Invece, nel caso della Vita di Tubia, le aspre parole dell’ancella a Sara, cui sono morti sette mariti («O micidial, sette mariti ha’ morti!», III 50) sono più vicine alla versione del primo di agosto («Oh micidial deli tuoi mariti, de te più non videamo figliuolo, over figliuola sopra la terra») che a quella del primo di ottobre («Cierto di te non vedimo figliuolo né figliuola sopra terra, o ucciditrice d’i tuoi mariti»). La Vulgata legge «Amplius ex te non videamus filium, aut filiam super terram, interfectrix virorum tuorum» (Tobia 3,9).

Sempre riguardo al rapporto con le fonti bibliche, il libro di Ester presenta le cosiddette parti deuterocanoniche: alcune sezioni presenti solo nella versione greca, non in quella ebraica. San Gerolamo, l’autore della Vulgata, la traduzione latina della Bibbia, inserì queste parti alla fine del testo, in coda alla vicenda. Nello stesso modo si comportano le due edizioni della Bibbia in volgare del 1471, così come altri volgarizzamenti contenuti nei manoscritti: le parti deuterocanoniche sono in coda al testo. Lucrezia invece si discosta da questi modelli, perché nella Storia di Hester le parti deuterocanoniche sono collocate all’interno del testo. Come mai? Non è realistico pensare che Lucrezia attingesse da versioni bibliche diverse dalla Vulgata di san Gerolamo (per esempio dalla Vetus Latina), né che conoscesse il greco; dobbiamo pensare che abbia agito di propria iniziativa, il che è plausibile, dato che le parti deuterocanoniche si inseriscono facilmente nel corso di alcuni snodi della narrazione. Può anche darsi che Lucrezia si sia giovata di qualche esperto di greco antico presente a Firenze in quegli anni, magari lo stesso Poliziano.

Quali caratteristiche presentano grafia, lingua e prosodia dei poemetti per come appaiono nel manoscritto originale?
La lingua dei due poemetti di Lucrezia per come appaiono nell’unico manoscritto che ce li ha tramandati (il Magliabechiano VII.338 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) è specchio fedele di buona parte dei caratteri tipici del fiorentino cosiddetto “argenteo”, cioè quattrocentesco: gli articoli el/e, i plurali femminili in -e di nomi (es. queste gente, lode mondane) o aggettivi (es. dolce parole, opere forte), i plurali palatalizzati come fanciugli, i possessivi invariabili mie, tuo, suo (es. suo occhi), i numerali con il tipo cinquanzei, duo in luogo di due, i passati remoti in misse, il dileguo della v in arò, arei, i tipi abbiano per abbiamo, potreno per potremo, chiamamo per chiamammo, presono e vorrebbono per presero, vorrebbero, fussi per fossi, conosceresti per conoscereste, la prevalenza di dia, stia su dea, stea, i congiuntivi presenti in -i, -ino alla prima, terza e sesta persona (aggi, facci, intendino), i congiuntivi imperfetti in -i, -ino alla terza e sesta persona (avessi, dovessino), il tipo rafforzato in sul, in sulla e in sun un. I poemetti di Lucrezia, naturalmente, non rispecchiano in toto la fisionomia del fiorentino quattrocentesco: è limitato, per esempio, l’esito palatalizzato di -ng- davanti a vocale palatale (giugnete); minoritarie le desinenze in –ono alla sesta persona dell’indicativo presente e imperfetto; assenti tanto il tipo lavarò, lavarei quanto il condizionale in –ia; solo un’attestazione di drento, a fronte del maggioritario dentro. Tutti i tratti linguistici argentei precedentemente citati, comunque, accomunano i poemetti di Lucrezia all’usus linguistico degli autografi di Poliziano, Lorenzo e Pulci. È soprattutto nella sintassi che i due poemetti presentano caratteri decisamente popolareggianti: la sconcordanza soggetto plurale-predicato singolare (es. non mancò vivande scelte), il participio assoluto non concordato (es. et non finito ancora queste parole), e soprattutto la frequenza degli anacoluti (es. comandato ha gli sia mozzo la testa chi va al palazzo senz’esser chiamato), la paraipotassi (es. insuperbito molto in pensier’ vani, et da ciascun voleva riverenza), l’affastellarsi delle coordinate, la mancanza del che pronome o congiunzione (es. le limosine davi, ti priego qui m’aspetti), tutte caratteristiche della lingua parlata, sono tratti tipici di una sintassi narrativa di tipo popolare che avvicinano la Storia di Hester e la Vita di Tubia, dal punto di vista sintattico, a opere coeve tipiche di questo genere quali i Motti e facezie del piovano Arlotto e i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli.

Quanto infine alla prosodia, i poemetti presentano alcune caratteristiche tipiche dell’epoca: sono molto frequenti gli endecasillabi con schema dattilico (cioè con accenti sulla quarta e settima sillaba), meno tradizionale rispetto a quello con accenti sulle sillabe pari, ma ampiamente diffuso nella poesia epica e popolareggiante del Quattro e Cinquecento. Inoltre, alcuni versi sembrano apparentemente ipometri, ma la sillaba mancante è facilmente integrabile inserendo le cosiddette vocali prostetiche o epitetiche (cioè all’inizio o alla fine di una parola, es. [i]stimava, allor[a]). Ciò accade, in particolare, con i nomi propri ebraici, che vanno letti inserendo le vocale finale (es. Tebeth, da leggere Tebette, Nabuc, da leggere Nabucco o Nabucche). Piuttosto diffuso anche il fenomeno contrario: alcuni versi sembrano ipermetri, ma possono essere corretti ipotizzando che il copista abbia completato parole contratte o inserito particelle superflue (es. «et togliestici allora la libertade», Storia di Hester VI 39, «che potremo noi dare a questo baron dotto», Vita di Tubia VIII 27).

Luca Mazzoni è docente a contratto di Filologia italiana presso l’Università di Verona e cultore della materia di Letteratura italiana e Filologia italiana presso l’Università Cattolica di Milano. Oltre a svariati articoli, ha pubblicato i volumi Postille di Pio Rajna alle «Origini dell’epopea francese». Trascrizione e studio (2008), Dante a Verona nel Settecento. Studi su Giovanni Iacopo Dionisi (2012), Fra Dante, Petrarca, Boccaccio e studi eruditi. Carteggio Giovanni Iacopo Dionisi – Bartolomeo Perazzini (1772-1800) (2015). I suoi interessi di ricerca riguardano prevalentemente Dante, la letteratura in volgare del Trecento e la sua fortuna nei secoli successivi, la letteratura fiorentina del Quattrocento, la storia della filologia nell’Otto e Novecento.

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