
La scelta dei quotidiani di “inquinare” il lavoro intellettuale dei giornalisti con la “chiassosa” réclame fu molto dibattuta ma, come è intuibile, prevalse la logica economica, ovvero era diventata una necessità impellente l’incremento dei flussi dei ricavi e l’abbassamento dei prezzi della copia, al fine di aumentare la penetrazione nel mercato e favorire la diffusione della testata.
Sarà invece sicuramente merito di un farmacista, Attilio Manzoni, l’aver intuito la possibilità di lucrare in un mercato giovane ma dalle grandi potenzialità, come quello della réclame. Organizzò una delle prime concessionarie di pubblicità in Italia il cui obiettivo fu quello di acquistare spazi pubblicitari dai quotidiani e rivenderli agli inserzionisti. Tra i servizi innovativi che Manzoni offriva alla sua clientela c’era anche quello dell’impaginazione dei vari annunci commerciali, imponendo un’estetica sicuramente più ragionata e accattivante rispetto all’assemblaggio frettoloso e approssimativo di cui si accontentavano gli editori dei giornali.
I giornali però non furono i soli vettori della pubblicità, per molti anni le aziende si sono servite anche di un altro strumento di comunicazione: il cartellone pubblicitario. Erano oggetti più simili a delle opere d’arte con tanto di firma del cartellonista che l’aveva realizzato e che, in questo modo, ne sottolineava l’originalità creativa ma anche l’immediata riconoscibilità. Per Vittorio Pica, uno dei più attenti osservatori dell’epoca dell’arte grafica, la cartellonistica italiana doveva ancora maturare e, sebbene non mancasse di guizzi creativi, sempre secondo Pica, gli artisti dovevano imparare ad “asciugare” i cartelloni di troppi particolari abdicando a favore di disegni dai tratti più essenziali.
Quale importanza riveste il manifesto nella storia della pubblicità italiana?
Per avere un’idea di cosa abbia significato il manifesto nella storia della pubblicità italiana, forse è il caso di menzionare la Collezione Salce. Nando Salce, nacque nel 1878 a Treviso, riuscì a collezionare in circa settant’anni ben 24.580 manifesti, oggi affidati al Museo Civico di Treviso. Non siamo di fronte al risultato di una compulsiva passione di un collezionista, ma la Collezione è la testimonianza di un amore raffinato verso un oggetto, il manifesto, che Salce considerava un’opera d’arte e dalla quale fu attratto fin dall’età di diciassette anni. In quell’universo di cartelloni raccolti, ci risulta che il più antico risalga al 1844, un avviso d’opera del teatro La Fenice di Venezia, mentre il più vicino a noi è datato 1962.
Al di là dello sforzo di Salce di “sintetizzare”, secondo la sua sensibilità, la storia della pubblicità italiana, il manifesto restò per decenni un’importante forma espressiva con la quale il mondo delle merci poteva dialogare con i consumatori. Cartellonisti del calibro di Cappiello, Dudovich, Mataloni, Metlicovitz, solo per citarne alcuni, hanno impresso ognuno una propria “orma” stilistica al manifesto italiano che, pur non riuscendo a tracciare un percorso omogeneo come avvenne in Francia, riuscirono lo stesso a fare proposte artistiche ineguagliabili. Cappiello fu uno di quegli artisti che gli stessi francesi riconobbero come originale non solo per l’uso degli sfondi neri, ma anche per l’invenzione dell’arabesco che aveva l’obiettivo, assai delicato, di essere ricordato dal consumatore.
Quale evoluzione caratterizza la pubblicità in Italia durante la Grande Guerra?
La Grande Guerra fu il momento di interruzione di un sogno che l’Europa stava vivendo fino ad allora e in cui ci si illudeva che il benessere, indotto dal progresso scientifico e tecnologico, potesse continuare all’infinito. Come è noto l’Italia entrò in guerra nel 1915, un anno dopo lo scoppio del conflitto. Presto anche l’Italia comprese che non si sarebbe trattata di una guerra breve, ma di un’estenuante guerra di posizione. Durante il periodo di guerra dobbiamo distinguere due principali forme di comunicazione. Da una parte abbiamo gli investimenti pubblicitari delle imprese private che, sebbene ebbero un forte freno per via della crisi bellica, non mancarono di proporre esempi di annunci pubblicitari che, richiamando i temi cari al patriottismo, facevano leva sull’emotività dei consumatori per vendere i loro prodotti, casomai da spedire ai soldati al fronte. Dall’altra abbiamo la più importante propaganda di guerra la quale, durante il comando di Cadorna, e quindi fino alla drammatica disfatta di Caporetto, non fu mai considerata una delle “armi” a disposizione dell’esercito, con la quale si sarebbe potuto fiaccare la psicologia del nemico.
L’arrivo di Diaz ai vertici del Comando Supremo consentì di recuperare il tempo perduto. Ci fu l’istituzione dell’Ufficio P attraverso il quale intellettuali del calibro di Ojetti producevano materiali di propaganda come, volantini, manifesti, opuscoli, cartoline, ecc. per alimentare all’interno del paese la fiducia dei parenti dei soldati verso un esercito moralmente provato, o anche infondere la consapevolezza che l’Italia avrebbe vendicato con la vittoria i soldati morti in battaglia, o ancora denigrare il nemico e convincere i loro soldati a disertare. In questo periodo è appena il caso di ricordare anche l’ingente quantità di materiale di propaganda che fu distribuito tra la popolazione italiana per promuovere i prestiti di guerra. A tal riguardo, uno dei manifesti più famosi fu quello realizzato da Mauzan, l’immagine del fante con il dito puntato, che divenne un vero tormentone in tutte le città italiane e fu affisso ovunque, anche ricorrendo a gigantografie che coprirono intere facciate dei palazzi. L’immagine di quel dito che puntava verso l’osservatore, fu una costante anche in altri famosi manifesti come quello dello zio Sam americano o del baffuto inglese Horatio Herbert Kitchener. Non sappiamo se la proposta di Mauzan fu il frutto originale della sua creatività o ispirata in qualche modo dai lavori dei suoi colleghi inglesi e americani.
Quale ruolo ebbe la pubblicità durante il regime fascista?
Sicuramente il grande lavoro condotto dagli uomini dell’Ufficio P durante il primo conflitto mondiale, fu consolidato anche durante il Ventennio fascista per operare un’azione di persuasione delle masse. In questo periodo tornano di gran moda i testi che avevano studiato l’influenza delle masse. Molto attuale continuava a essere l’opera di Prezzolini, L’arte di persuadere, in cui l’Autore faceva affermazioni del tipo: «la bugia è il principale moltiplicatore dell’io. Per mezzo suo noi ci costruiamo dei nuovi io, alla cui vita a poco alla volta finiamo per credere, come tutti i bugiardi finiscon per credere alle loro bugie». Oppure il lavoro di Gustave Le Bon il cui libro, Psicologia delle folle, era sicuramente sul tavolo di Hitler come su quello di Mussolini.
In questo periodo la pubblicità italiana ebbe, con il beneplacito del partito fascista, la possibilità di organizzare nel 1933 il Congresso Internazionale della Pubblicità, in cui si cercò di riflettere sul fatto che la pubblicità non potesse più essere lasciata all’improvvisazione, ma necessitava di regole rigorose come quelle che da anni erano state messe in pratica in America. Lo sprone che veniva dagli esperti invitati al Congresso, accentuarono l’interesse verso il mondo della pubblicità. In questo periodo molte imprese, come la Perugina, si dotarono di uffici al loro interno in cui si creavano le immagini pubblicitarie dei loro prodotti.
L’aspetto che lasciava interdetti era la contraddizione che il mondo pubblicitario viveva tra un regime intento a creare miti e simboli che si sarebbero dovuti innestare nella società civile, completamente depurati di una qualunque influenza straniera, e dall’altra un antiamericanismo solo di facciata che invece tollerava che il mito americano serpeggiasse tra gli italiani. Lo stesso figlio di Mussolini, Vittorio, fu un sostenitore della cinematografia americana. Per qualcuno il fascismo fu in realtà vittima dello stesso nemico che voleva combattere: il consumo.
Una delle aziende sicuramente più aperte a qualunque forma di novità nel campo della comunicazione fu la Campari. Nel periodo fascista Depero ebbe modo di incontrare Davide Campari e tra loro per molti anni nacque un sodalizio assai proficuo. Deludente fu invece l’esperienza artistica che ebbe Depero in America, quando, aiutato da una comunità di italiani, organizzò un’esposizione nella Galleria d’Arte Italiana Guarino al 600 di Madison Avenue, ma in quella occasione dovette tristemente constatare che l’America non era pronta a capire la sua arte: la dogana americana sottopose gran parte delle sue opere, fatte arrivare dall’Italia, a una tassa elevata in quanto considerate alla stregua di beni commerciali e non opere d’arte.
Quando e come avviene la separazione tra pubblicità e arte?
La diatriba tra coloro che sollecitavano una pubblicità che ricorresse a metodi più scientifici, come già avveniva da tempo nei paesi anglosassoni, e chi invece sosteneva che la pubblicità dovesse essere lasciata al mondo degli artisti, era una costante che andava avanti da tanti anni. Le pressioni delle agenzie pubblicitarie internazionali si facevano sempre più forti. L’Italia con Carosello aveva messo in campo l’ultimo baluardo a difesa di un modo di fare pubblicità tutto in stile italiano. Il 1977 segnerà la fine di questo anomalo contenitore commerciale, ovattato e ideato per sopire l’imbarazzo dei dirigenti di un servizio pubblico che si vergognavano di favorire la promozione di prodotti di aziende private. Con l’interruzione di Carosello inizia l’era della televisione commerciale e il telespettatore assiste per la prima volta a programmi televisivi prodotti in America e già predisposti per prevedere interruzioni finalizzate a mandare in onda messaggi pubblicitari. Il successo di questo nuovo modo di fare pubblicità fu alimentato anche dall’entusiasmo di molte piccole imprese che, impossibilitate durante l’epoca di Carosello di servirsi del mezzo televisivo pubblico, ora si trovarono nella condizione di poter comprare spazi pubblicitari da mandare in onda e constatare la potenza della televisione che offrì momenti di notorietà a molti essi, anche in regioni italiane in cui prima di allora non avevano mai venduto i loro prodotti.
Quale significato assume la pubblicità nel mondo contemporaneo?
Con l’entrata della società contemporanea nel XXI secolo abbiamo iniziato a sperimentare l’incertezza come una costante della nostra quotidianità. L’evento drammatico dell’11 settembre 2001 non è stato solo un attacco terroristico che ha voluto enfatizzare un’ideologia o un credo religioso, ma ci siamo trovati di fronte, per la prima volta, a un nuovo stile di azione che è riuscito a minare le certezze che si erano stratificate nella mente di noi occidentali. Dopo quel crollo delle Torri Gemelle sono anche crollate le nostre sicurezze perché da quel momento ci siamo sentiti tutti più vulnerabili. Abbiamo capito che chiunque, in qualunque momento e ovunque avrebbe potuto replicare (come i fatti di cronaca hanno purtroppo dimostrato) un atto scellerato e omicida. Insomma le nostre paure sono oggi ancor più amplificate.
Questo scenario è diventato lo sfondo anche dell’economia che, nei prossimi anni, secondo Kotler e Caslione, dovrà fare i conti con altre grandi crisi che non faranno altro che accrescere il rischio e l’insicurezza nel mondo. In altre parole, accanto alle sfide quotidiane, i manager dovranno anche fare i conti con gli eventi che destabilizzeranno i loro piani. La normalità nei prossimi anni sarà proprio la turbolenza. Se pensiamo a quello che sta accadendo in questo periodo con la pandemia, potremmo quasi affermare che il pensiero dei due Autori è stato profetico.
Per il sociologo Bauman siamo in una società liquida in cui si è provveduto a smantellare quei valori che erano i punti fermi di una società e abbiamo permesso che si lasciassero entrare nella vita di ognuno di noi altri valori, nella speranza fossero migliori dei precedenti. Purtroppo anche questi ultimi vengono a loro volta smontati e sostituiti con altri valori, il tutto in un perenne processo di fusione e solidificazione.
La pubblicità è lo specchio di questa instabilità generale in cui si alternano messaggi che enfatizzano l’individualismo e, conseguentemente, l’edonismo, con altri che esaltano situazioni in cui si cerca spasmodicamente l’autenticità o ancora la ricerca delle radici in una società così veloce, così mobile, così liquida appunto. Siamo dunque di fronte a una pubblicità che sebbene non si discosti per finalità (vendere in un mercato super affollato) e funzioni (influenzare gli atteggiamenti e i valori dei consumatori) dalla pubblicità tradizionale, è comunque ancora alla ricerca di un’identità e, nel frattempo, prova a rimbalzare su media sempre più innovativi. Questa destabilizzazione del mondo della comunicazione ha fatto dire a Kotler che «il marketing è in pessima forma» alludendo proprio alla difficoltà di esprimersi in maniera convincente a livello pratico.
Antonio Farchione, è professore a contratto di Business planning nell’Università d’Annunzio Chieti-Pescara, dove è stato anche docente di Marketing. Da anni è consulente direzionale con incarichi nell’ambito del controllo di gestione e valutazione degli investimenti, segue aziende nella fase di start-up. Formatore nelle aree di finanza, marketing e vendite. Ha ricoperto incarichi nella pubblica amministrazione. Autore di libri, ha scritto, tra gli altri, per Amministrazione & Finanza, Pratica contabile e Pmi.