“Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis

Nel 1868 l’editore Morano di Napoli propose a De Sanctis di scrivere un manuale scolastico contenente la rapida sintesi della storia letteraria italiana. Nel corso della composizione il progetto si allargò e, dal volume unico previsto, si giunse ai due volumi; De Sanctis ne avrebbe voluto comporre un terzo per la letteratura dell’Ottocento, ma incontrò il deciso rifiuto dell’editore. La vicenda della composizione si riflette sull’opera, in quanto l’ultima parte si chiude in maniera affrettata con alcuni cenni su Manzoni e Leopardi.

La Storia desanctisiana è uno dei libri fondamentali per la cultura italiana dall’Ottocento ad oggi, perché essa è molto di più che una semplice storia letteraria; infatti l’autore, tenendo presente anche la destinazione scolastica che faceva dei giovani il pubblico privilegiato dell’opera, intese parlare alle coscienze degli italiani, tracciando, a partire dal punto di vista letterario, un quadro della vicenda nazionale.

Alla base c’è l’idea che gli intellettuali e gli artisti sono la coscienza critica dell’intera nazione e perciò nell’alternarsi di momenti di fulgore e di vigore della letteratura a quelli di degrado ed infiacchimento, si trova la traccia chiara ed evidente delle vicende di un intero popolo. De Sanctis, uomo formatosi nell’età risorgimentale, è convinto che la dirittura morale di uno scrittore sia in stretta relazione all’insegnamento che egli trasmette attraverso le sue pagine, al suo impegno civile, alla sua capacità di educare il gusto e lo spirito. Tutte convinzioni che nascono da un profondo senso patriottico e che sono la causa principale dell’importanza culturale della sua Storia, ma anche dei difetti che rendono inattuali alcune scelte ed alcuni giudizi: terminata la fase storica della formazione non solo politica, ma anche civile e culturale dell’Italia, finita anche l’egemonia dello spiritualismo crociano, oggi la letteratura appare sotto una luce diversa da quella prospettata da De Sanctis
e il gusto e le tendenze critiche battono altre strade. Ma l’opera rimane un vero monumento, un punto centrale della nostra storia nazionale, alla quale vale la pena di rivolgersi per trovare la testimonianza di una voce che seppe veramente essere la coscienza di una nazione che stava formandosi.

Riassunto

La Storia della letteratura italiana si sviluppa in venti capitoli secondo alcune grandi coordinate che fanno da filo conduttore a tutta la materia. Nei primi due capitoli — I siciliani e I toscani l’autore passa in rassegna le forme e le personalità della scuola siciliana e del dolce stil nuovo, di cui, a parte i meriti linguistici e le qualità culturali, rileva il «peccato originale», vale a dire il carattere dotto, l’astrattezza dei contenuti e la sostanziale lontananza «dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare». Dopo un’analisi abbastanza veloce della prosa del Duecento (giudicata piuttosto rozza ed inadeguata ad esprimere i fermenti della società) e dei misteri e delle visioni (di cui viene sottolineata la natura allegorica), vengono studiate le due tendenze prevalenti nel Trecento, quella ascetica e quella didattica e dottrinale, ambedue viziate da una eccessiva elaborazione retorica. Nel settimo capitolo sulla Commedia dantesca viene messa in rilievo la stretta connessione tra Dante e la cultura della civiltà medievale di cui egli offre la più alta e completa rappresentazione. La materia del poema appare così condizionata nel suo contenuto filosofico, dottrinario e allegorico, da quel retroterra culturale e tuttavia lo supera trasmutandosi in una forma che è «reale» oltre le intenzionalità del poeta.

Nasce da queste pagine una lettura della Commedia che ha condizionato per moltissimo tempo la critica successiva: una svalutazione eccessiva dei canti e dei passi dottrinali del poema (visti come i momenti in cui l’ispirazione e la forza del poeta non hanno saputo sottomettere e governare l’astrattezza del contenuto), una sopravvalutazione dell’Inferno (la cantica delle forti personalità, degli eroi, anche se negativi, dell’umanità e delle sue passioni) rispetto al Purgatorio e al Paradiso (la cantica in cui prevale una coralità ed in cui tende a essere preminente l’aspetto filosofico). Nella Commedia De Sanctis vede «il medioevo realizzato come arte», l’opera suprema di un’età in quanto ne esprime la tensione più alta, quella della spiritualizzazione dell’uomo. Nel capitolo successivo, intitolato Il Canzoniere, viene compiuta l’analisi della crisi dei valori dell’età chiusasi con Dante: si spegne il fervore politico legato alla vita dei Comuni, il recupero della classicità comincia a rendere meno salda e più problematica la fede religiosa, inizia una ricerca estetica che porterà al culto della forma. Tutti elementi che si ritrovano nell’opera del Petrarca, visto come colui che ebbe piena coscienza della crisi ma che non seppe trovare le forze per superarla («l’uomo è minore dell’artista», dice De Sanctis). Il critico coglie lucidamente i caratteri che fanno grande la poesia dell’autore, distingue l’opera del Petrarca da ciò che poi si chiamò «petrarchismo»; ma sottolinea anche la presenza di quella «malattia», cioè della mancanza di un vigore morale e civile, che Petrarca trasmetterà a gran parte degli intellettuali italiani venuti dopo di lui.

Anche il Decamerone viene interpretato come il frutto di un’età di transizione: c’è in esso la dissoluzione dei valori medievali, l’affermazione della cultura della nuova classe borghese, ma per De Sanctis Boccaccio risolve tutto questo nel comico perché l’autore vive questa trasformazione, ma non ne ha una visione lucida e precisa.

Per quel che riguarda il Quattrocento il giudizio di De Sanctis è netto: l’età è segnata dalla crisi della borghesia, che perde capacità imprenditoriale e politica; è il momento dello sviluppo delle corti, nelle quali gli intellettuali trovano rifugio, perdendo di vista la realtà sociale e culturale del popolo. La frattura tra letteratura colta e popolare si allarga. Nel Quattrocento l’esaltazione dell’arte e della cultura si accompagna ad una sostanziale indifferenza per la religione, per la morale e per la politica.

Il Cinquecento si collega al secolo precedente, amplificandone i caratteri; l’affresco di Raffaello «la scuola d’Atene», S. Pietro in Roma e l’Orlando furioso ne sono le tre sintesi, sia per gli aspetti positivi che per quelli negativi. L’Ariosto viene presentato da De Sanctis come il cortigiano scettico e indifferente alla problematica soprannaturale: la sua specificità di poeta viene indicata nell’ironia che origina il «riso serio e profondo su ogni metafisica». In questo senso l’Ariosto è un precursore della nuova scienza. Di fronte al «disimpegno» ideologico dell’intellettuale cortigiano, ma anche alla grandezza dell’Orlando furioso (definito «colonna luminosa nella storia dello spirito umano»), De Sanctis individua la serietà dell’Ariosto nell’alta concezione che egli ha dell’arte e nel culto della bella forma.

L’altro gigante che domina la scena culturale del Cinquecento è Machiavelli: non è un caso che l’aggettivo effettuale, così ricorrente nella critica desanctisiana per indicare l’opera realizzata, sia derivato proprio dell’autore del Principe. In Machiavelli viene indicato il prototipo dell’uomo moderno, che si applica alla risoluzione del problema politico con atteggiamento scientifico, mosso dai grandi ideali di patria, di indipendenza e di laicità dello Stato, ma senza abbandonarsi mai all’illusione. Per questo De Sanctis distingue la grande lezione dello scrittore fiorentino da ciò che poi fu chiamato «machiavellismo».

L’espressione più forte del risentimento di De Sanctis nei confronti di un’arte e di una letteratura lontane dalla moralità la si trova nel capitolo dedicato a Pietro Aretino, emblema della corruzione di un’intera età. L’estraneità del critico ai caratteri di questa letteratura si traduce in una freddezza che gli impedisce di cogliere quanto vi è di originale nell’opera dell’Aretino.

Anche nelle pagine successive la preoccupazione maggiore è quella di mostrare l’inaridimento della cultura nell’età della Controriforma: cessata ogni possibilità da parte degli scrittori e dei poeti di essere «seri», di affrontare cioè argomenti degni della grande letteratura, l’unica corda che può ancora vibrare è quella dell’amore; ed in questo ambito si trova un altro grande, Torquato Tasso, uno dei maggiori esponenti della poesia idillica, in una Italia «più simile a museo che a società di uomini vivi». De Sanctis propone quindi una lettura piuttosto riduttiva del Tasso, soprattutto se si tiene presente la dimensione eccezionale che questo poeta aveva assunto nella cultura romantica europea. Naturalmente, date queste premesse, la poesia del Seicento non poteva non apparire al critico come il punto del massimo disimpegno, della mancanza di serietà: Marino è colui che fa trionfare la forma priva di contenuto, la parola fine a se stessa.

La Storia si conclude con due lunghi capitoli, intitolati La nuova scienza e La nuova letteratura. Nel primo De Sanctis cerca di individuare un filone di pensiero che si afferma e si irrobustisce tra Seicento e Settecento; non propriamente legato alla letteratura, ma alla scienza e alla filosofia. Si tratta di un insieme di uomini (uomini nuovi nel senso baconiano) che si opposero al clima di conformismo ipocrita predominante dalla Controriforma: «la storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia della lenta ricostruzione della coscienza nazionale». Secondo questa direttiva De Sanctis scopre una linea di sviluppo che partendo da Bruno, Campanella e Telesio, preannuncia la scienza sperimentale di Galileo e il realismo storico di Paolo Sarpi. Corroborata poi dalla filosofia di Locke e di Vico, si esprime pienamente nell’ Illuminismo di Giannone, Beccaria, Verri, Filangieri. In questa sintesi è facilmente riconoscibile ciò che il critico giudica positivo e progressista: nell’ambito filosofico ogni tipo di pensiero che si presenti in opposizione all’impostazione metafisica, come appunto il naturalismo e l’immanentismo di Bruno e di Campanella; nell’ambito culturale ogni ideologia ed ogni opera che tenda a collegare la riflessione teorica con la pratica, rifuggendo da ciò che per De Sanctis è una delle grandi iatture della mente umana, l’astrattezza. In questo senso troviamo l’esaltazione dell’Illuminismo ed una interpretazione piuttosto generosa e benevola della Rivoluzione Francese (atteggiamento che si presenta come un ribaltamento della posizione assunta da De Sanctis nella sua giovinezza).

Nel capitolo finale, liquidata come rigurgito idillico l’esperienza dell’Arcadia, De Sanctis elenca quegli autori che, prima in modo indiretto, poi con sempre maggiore chiarezza d’intenti, contribuirono a rigenerare la letteratura in Italia, segnando la rinascita della «pianta uomo». Goldoni, innanzi tutto, che per primo tornò ad un’arte «vera» e «naturale»; quindi Parini, la cui scelta satirica nel Giorno sta a dimostrare, secondo De Sanctis, che l’impegno morale non aveva ancora trovato una forma adeguata e moderna. Alfieri è presentato come la chiave di volta del processo di rinnovamento della letteratura: in lui si ritrova uno scrittore che «prende sul serio la vita» e con le sue tragedie «infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante». Insomma Alfieri è «l’uomo nuovo in veste classica». Sulla stessa linea si colloca Foscolo, anche se con una connotazione nuova: egli rappresenta l’intellettuale ed il poeta deluso dalla Rivoluzione che dice le cose che «sente», con una sensibilità muova. De Sanctis inizia così il discorso sul Romanticismo; nell’ottica del rinnovamento morale e civile dell’Italia, la cultura che si afferma in Europa viene vista come un’«esagerazione» che si manifestò come reazione alle esagerazioni della Rivoluzione Francese. Ma De Sanctis è molto più portato a cogliere gli elementi di continuità tra Settecento ed Ottocento, così che la figura di Manzoni, con la sua opzione per il realismo, per la verità storica, per il moderatismo progressista e per la sua stessa esperienza di vita appare come il grande momento di sintesi tra Illuminismo e Romanticismo. Le ultime pagine della Storia sono dedicate a Leopardi, il poeta che liquida definitivamente il mondo teologico-metafisico, e che, attraverso l’analisi dei propri sentimenti, afferma la nascita di una nuova moralità, quella moderna, fondata non sul soprannaturale, ma sulla visione diretta del vero e del reale.

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