
La particolare posizione della penisola coreana, però, ha avuto spesso conseguenze nefaste per i suoi abitanti. Strategicamente importantissima, a mezza via com’è tra la Cina e il Giappone (e recentemente anche la Russia), la Corea è stata inevitabilmente oggetto di attenzioni non sempre amichevoli da parte delle potenze più forti, prime fra tutte i due Imperi: quello cinese e quello giapponese. Così, se fino al X secolo i coreani erano stati abbastanza forti da resistere alle pressioni straniere, da quel momento in poi rappresenteranno il classico vaso di coccio tra vasi di ferro o, come recita un proverbio locale, “il gambero tra le balene”. La Corea conoscerà così un gran numero di invasioni, alcune delle quali addirittura disastrose in termini di vittime, deportazioni e danni patrimoniali. La Corea viene così invasa da Khitan, Jurchen, Mongoli, Giapponesi e Mancesi, senza contare l’endemico eppur gravissimo problema rappresentato per secoli dalla pirateria, soprattutto quella giapponese. Paradossalmente, però, sarà proprio nel XX secolo che la Corea perderà quell’indipendenza che in passato era sempre avventurosamente riuscita a conservare: con la vergognosa complicità delle potenze occidentali, infatti, la Corea diventerà protettorato giapponese nel 1905 e poi colonia (sempre del Giappone) nel 1910. Il dominio coloniale durerà trentacinque anni e finirà solo nel 1945, con la sconfitta giapponese nella Seconda Guerra Mondiale. Ma i problemi non finiranno qui: l’importanza strategica della Corea ne provocherà la divisione prima ideologica e poi politica e territoriale, rimasta tale anche dopo la guerra del 1950-53 e a tutt’oggi perdurante. Controllare la penisola coreana, soprattutto nell’era dei missili balistici, vuol dire tenere facilmente sotto tiro la Cina, la Russia e il Giappone. Non per caso gli americani mantengono ancora una forza di circa 28.000 militari in Corea del Sud la cui presenza, a dispetto della propaganda occidentale, è votata proprio al controllo della Cina e della Russia, prima ancora che della Corea del Nord.
Possiamo affermare che la guerra di Corea ha rappresentato l’inizio della Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica?
Questo si dice spesso, ma si tratta in buona parte di una semplificazione ad uso della didattica. Molto più probabilmente è vero il contrario, ossia che la Guerra di Corea fu una delle prime e più drammatiche conseguenze della Guerra Fredda, della quale fu anzi vero e proprio sigillo. Di fatto, già le atomiche di Hiroshima e Nagasaki possono essere considerate un atto cruento della Guerra Fredda (che in realtà “fredda” non fu affatto): il Giappone stava già trattando sottobanco la resa e, in ogni caso, eventi bellici precedenti come il bombardamento di Dresda avevano ampiamente dimostrato come la distruzione totale di una città potesse essere effettuata anche con mezzi convenzionali. Nell’occasione, il maramaldeggiare degli USA su un Giappone ormai a pezzi costituì soprattutto un avvertimento a Stalin sul potenziale bellico di Washington e un tacito invito a non approfittare della situazione a guerra finita.
Non bisogna poi dimenticare che al tempo della Guerra di Corea pesanti conflitti armati di matrice ideologica si stavano svolgendo al di fuori dello scacchiere europeo: basti pensare solo alla Guerra civile in Cina e al conflitto per la liberazione del Vietnam a danno dei colonizzatori francesi. Furono proprio il trionfo di Mao in Cina e le difficoltà affrontate dai Francesi in Vietnam a convincere gli americani a non rinunciare assolutamente alla Corea, anche a costo della guerra, della divisione della penisola e di tutti i drammi umani conseguenti. Nell’ottica occidentale, infatti, non era assolutamente ammissibile che, oltre alla Cina continentale, si consegnasse al comunismo anche la penisola coreana. Certamente, oggi la frontiera di P’anmunjŏm è l’unico posto del mondo dove ancora i rappresentanti dei due vecchi blocchi si guardano negli occhi, anche se in realtà non è proprio così: le guardie nordcoreane evitano infatti il contatto visivo volgendo lo sguardo parallelamente alla linea di confine, mentre le guardie sudcoreane hanno un atteggiamento decisamente più provocatorio, guardando direttamente il territorio nemico con occhiali scuri e nella posizione di partenza dei combattimenti di T’aekwŏndo.
Come si è imposta a nord la dinastia dei Kim?
La storia è fatta di corsi e ricorsi e ciò si nota maggiormente in Oriente. L’ascesa del fondatore della dinastia Kim, ossia quel Kim Sŏngju che poi sarà universalmente noto come Kim Ilsŏng (1912-1994), non è molto dissimile da quella di Yi Sŏnggye (1335-1408), eroe della lotta contro i pirati giapponesi e fondatore della dinastia Yi del periodo Chosŏn (1392-1910). Di fatto, entrambi si affermano grazie soprattutto alle imprese militari. Discendente da una famiglia del sud della penisola (pare che suo nonno fosse della regione del Chŏlla e si sia trasferito al nord nel 1860), Kim Ilsŏng nasce, almeno secondo la versione ufficiale, nei pressi di P’yŏngyang agli inizi della colonizzazione giapponese. La sua famiglia non è ricca, ma è comunque decorosa e sensibile nei confronti della crisi che attanaglia il Paese, al punto da stabilirsi in Manciuria intorno al 1920. Kim alterna lo studio all’attività rivoluzionaria, e questo gli costa l’arresto e la sorveglianza dei giapponesi prima di intraprendere, insieme all’azione politica, anche la lotta armata. Già negli anni ’30 si distingue nella guerriglia antigiapponese, e intanto si guadagna la stima dei cinesi (anch’essi impegnati nella lotta armata contro i giapponesi) e dei sovietici, che alla resistenza coreana di matrice socialista offrivano aiuti economici e militari. Kim Ilsŏng è buon politico e miglior arringatore e ha un’istruzione superiore alla media dei cittadini coreani del tempo, soprattutto quelli delle zone economicamente e intellettualmente depresse del nord: a tale proposito, pare che avesse qualche conoscenza del russo e parlasse anche un ottimo cinese. Nessuna meraviglia, perciò, che dopo la liberazione dai giapponesi egli divenga il candidato dei sovietici alla guida dei comunisti della penisola, pur in presenza di altri autorevoli (e più anziani) personaggi come Pak Hŏnyŏng (1900-1955?). La divisione della penisola e la guerra civile esaltano l’esperienza militare di Kim e dei suoi fedelissimi rispetto a quei comunisti che negli anni della colonizzazione avevano per più svolto solo attività politica rimanendo in patria, e per questo egli non solo esce rafforzato dal conflitto, ma si trova anche ad accogliere quei comunisti del sud che intanto si erano rifugiati presso di lui. Il resto viene da solo: l’opposizione interna al partito viene presto eliminata e Kim si ritrova padrone assoluto del Paese. Ma il “comunismo” nordcoreano ha comunque le sue radici nella società confuciana della Corea classica, per molti versi simile alle idee di Kim e alle quali lo stesso Kim, più o meno coscientemente, finisce col collegarsi: una società laica, il più possibile autosufficiente, dove tutta la terra era di proprietà dello stato (concetto tipicamente “socialista”), guidata da un sovrano assoluto il cui potere si trasmetteva per via ereditaria. Trattandosi di una cultura laica, era l’uomo a essere divinizzato, nella fattispecie il fondatore della dinastia che assumeva il titolo postumo di T’aejo o “Grande Antenato”, la cui personalità diventava oggetto di culto. Il tempo, poi, veniva misurato a partire dalla fondazione delle dinastia stessa. Se ci si pensa, è esattamente ciò che è accaduto nella Corea del Nord: il sistema politico nordcoreano e la “dinastia Kim” si spiegano proprio così.
Quali fasi storiche ha attraversato la penisola coreana?
A dispetto delle date tradizionali relative alla fondazione della “nazione” e dei primi regni, la Corea entra pienamente nella storia nel IV secolo d.C. È allora che si comincia a diffondere la scrittura cinese e che molte ex confederazioni tribali si aggregano a formare precise entità statali, come Paekche e Silla, che affiancano il regno di Koguryŏ, già esistente da qualche secolo e in grado di occupare un territorio che, partendo più o meno dal trentottesimo parallelo, si estendeva a nord fino ad occupare una parte della Manciuria. Si creerà anche un piccolo regno, all’estremo sud della penisola tra Silla e Paekche, che è conosciuto come Kaya. Nel IV secolo fa il suo ingresso nella penisola anche il Buddhismo, destinato ad avere un impatto notevolissimo nel pensiero coreano. La vicinanza con la Cina fa progredire rapidamente la penisola coreana, che presto diventa anche capace di esportare cultura nelle vicine isole giapponesi, allora con una civiltà più arretrata. I regni coreani sono spesso in conflitto fra loro (una litigiosità interna che i coreani non hanno mai dimenticato) e alla fine la spunta Silla, che sconfiggendo tutti i rivali riesce nel 668 a unificare la penisola fin quasi all’altezza dell’attuale P’yŏngyang. Più a nord si creerà invece un regno abitato da coreani e altri popoli tungusi, come i Malgal, che prenderà il nome di Parhae e resisterà fino al 926.
Il periodo detto di Silla Unificato (668-935) vide fiorire una civiltà ricca di beni e di arte, oltre che multiculturale quale forse mai si sarebbe vista nei secoli successivi. La capitale Kyŏngju è la “città d’oro” e Silla intrattiene rapporti con vari Paesi anche lontani, mentre i suoi monaci buddhisti si spingono fino all’India alla ricerca delle Sacre Scritture. Alla fine, però, le aristocrazie lontane della capitale si aggregano a formare un vero e proprio contropotere capace anche di contare su forze armate autonome. Si ricreano così gli antichi Tre Regni, con il sorgere di un Nuovo Koguryŏ e un Nuovo Paekche che lotteranno tra loro e, contemporaneamente, contro il potere centrale. Alla fine la spunterà Nuovo Koguryŏ che riunificherà la penisola fin circa all’altezza del trentanovesimo parallelo e trasferirà la capitale a Kaesŏng, oggi in territorio nordcoreano. Comincia così il periodo Koryŏ (nome abbreviato di Koguryŏ e alla base dell’attuale “Corea”), spesso detto anche “Medioevo coreano”. Il credo ufficiale continua a essere il Buddhismo, ma la Corea perde molto del suo antico splendore e presto si trova sulla difensiva, a fronteggiare le numerose invasioni di popoli mongoli e tungusi. Riesce a resistere, ma turbolenze interne, come il micidiale colpo di Stato militare del 1170, che porta all’instaurazione di una sorta di shogunato, ne minano la struttura sociale. Nel 1231 cominciano le ripetute invasioni mongole, terrificanti, di fronte alle quali il governo militare rifiuta di piegarsi a dispetto della spoliazione di risorse e uomini sofferta del Paese. Alla fine, a quasi un secolo dalla sua nascita, la dittatura militare è rovesciata e il sovrano, di nuovo a capo del Paese, pur conservando l’indipendenza accetta di divenire vassallo dei Mongoli, che intanto hanno creato in Cina la dinastia Yuan. Nel mentre, però, la corruzione e il dissesto sociale hanno visto moltiplicarsi i simpatizzanti del Confucianesimo, e saranno proprio alcuni di essi, dopo la caduta dei Mongoli, a preparare la piattaforma ideologica del colpo di Stato che nel 1392 porrà fine alla dinastia Wang di Koryŏ a favore della famiglia Yi, il cui periodo di regno è conosciuto come “Chosŏn” (che peraltro era pure un antico nome della Corea fin dai tempi pre-dinastici).
La nuova dinastia elegge il Neoconfucianesimo a ideologia di Stato, limitando fortemente i poteri e i privilegi del clero buddhista. Per circa due secoli la Corea vive un vero “rinascimento”, anche perché rimane buona amica della Cina dei Ming e al riparo da guerre rovinose. È in questo periodo che viene inventato l’alfabeto nazionale e un gran numero di opere enciclopediche vengono scritte su commissione governativa. La svolta, tragica, avviene alla fine del XVI secolo, quando un Giappone appena uscito dalle lotte interne che l’avevano dilaniato, invade la penisola, forse col fine ultimo di conquistare addirittura la Cina, dove i Ming erano in chiara decadenza. La Corea supera anche questa crisi, grazie al valore dei suoi soldati e all’aiuto dei cinesi, ma alla fine si ritrova con un territorio devastato e impoverito. A dare il colpo di grazia ci pensano i mancesi, che invaderanno la Corea due volte, nel 1627 e nel 1636, nell’ambito di quel progetto espansionistico che li avrebbe portati a conquistare la Cina e a fondarvi la nuova dinastia Qing. Per la Corea è l’inizio della fine: rimasta chiusa e isolata (soprattutto per volere della Cina) al punto da venire conosciuta in Occidente come “Paese eremita”, rimasticherà se stessa in una deriva di degrado e immobilismo che la farà trovare completamente impreparata quando, nella seconda metà del XIX secolo, sarà costretta ad aprirsi all’estero. Il resto è storia recente: del tutto incapace di difendersi militarmente, la Corea diventerà subito osso da spolpare per le Grandi Potenze antiche ed emergenti (come il Giappone). Proprio il Giappone, dopo la vittoria sulla Russia del 1905, si farà padrone della penisola, riducendola prima a protettorato e poi addirittura a colonia. Per la prima volta nella sua storia la Corea avrebbe così perso l’indipendenza. Infine, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la liberazione dai giapponesi, la divisione, la guerra civile e il nuovo percorso storico delle due Coree.
La Corea del Sud attraversa ormai da anni una profonda crisi politica: quali le cause e quale la possibile evoluzione?
A dispetto dei successi economici (peraltro mai al riparo da rovinose cadute) è possibile dire che la società sudcoreana si trovi in uno stato di crisi permanente dal momento della stessa fondazione della Repubblica di Corea, il 15 agosto 1948. Da allora il Paese è passato attraverso le dittature di Yi Sŭngman (1875-1965), Pak Chŏnghŭi (1917-1979) e Chŏn Tuhwan (1931-), durante le quali tutto il Paese divenne un immenso campo di lavori forzati. Il boom economico della Corea del Sud è fondato sul sangue di milioni di lavoratori, vissuti e spesso morti in condizioni disumane. Le dittature finiscono nel 1987, ma non le crisi: del resto sull’atteggiamento dei grandi gruppi industriali verso la politica del lavoro valgono per tutte le ciniche dichiarazioni di Yi Kŏnhŭi, padre-padrone della Samsung, secondo il quale “un’azienda deve sempre comportarsi come se si fosse in un periodo di crisi”. Dolore di vivere, suicidi, alcolismo, malattie mentali (problemi per i quali i sudcoreani sono ai primi posti nel mondo) sono il prezzo che ancora oggi viene pagato all’ultraliberismo del sistema politico che si accompagna ai gravissimi problemi strutturali della società, spesso pesante eredità della tradizione. Si tratta del sistematico abuso di potere figlio del kapchil, l’immutabile rapporto tra chi comanda e chi ubbidisce, della corruzione, del settarismo, del classismo, del clientelismo e del nepotismo. Sono piaghe che non risparmiano nemmeno le più alte autorità dello Stato: in Corea del Sud, infatti, spesso la fermata successiva al soggiorno nel Palazzo presidenziale è la morte violenta o la galera. L’ultimo a varcare la soglia del carcere, pochi giorni fa, è stato l’ex presidente Yi Myŏngbak (1941-), l’anno scorso era toccato alla presidente Pak Kŭnhye (1952-) e prima ancora agli ex presidenti Chŏn Tuhwan e No T’aeu (1932-). E non si dimentichi che l’ex presidente No Muhyŏn (1946-2009) finì suicida, il presidente Yi Sŭngman finì in esilio e il presidente Pak Chŏnghŭi, padre di Kŭnhye, fini ammazzato ancora nel pieno del suo mandato. In una simile situazione, è difficile prevedere il futuro del Paese: quel che è certo è che esso si trova in una fase di transizione nella quale la tradizione si affianca alla modernità producendo una sorta di “anomia” durkheimiana capace di portare a fenomeni di dissociazione mentale, culturale e politica dalle conseguenze disastrose. Credo perciò che riguardo a un sensibile miglioramento della situazione occorra ragionare su tempi lunghi.
A Suo avviso, si arriverà alla riunificazione delle due Coree?
Difficile dirlo, anche perché a decidere non potranno essere certamente solo le due Coree, ossia le dirette interessate. E a conti fatti, una riunificazione della Corea potrebbe non essere gradita a molti. Non sarebbe gradita agli Stati Uniti, che con una Corea unita perderebbero il pretesto per mantenere un forte contingente di truppe nella penisola attualmente destinato a controllare, più che la Corea del Nord, la Cina e la Russia. Non sarebbe gradita alle stesse Cina e Russia, per le quali l’attuale Corea del Nord rappresenta un prezioso cuscinetto (oltre che oggetto di scambio nelle trattative) fra loro e il mondo capitalistico di stampo occidentale. Non sarebbe gradita al Giappone, che a quel punto, almeno nei primi anni successivi alla riunificazione, avrebbe un formidabile concorrente commerciale in una Corea unita che fosse capace di accoppiare la tecnologia sudcoreana con i bassi costi della manodopera nordcoreana, dato per scontato che la Corea difficilmente potrebbe riunirsi sotto la bandiera del socialismo. Da qui l’altro corno del dilemma: quale fisionomia politica avrebbe un’eventuale Corea unita? Si dice che il leader nordcoreano Kim Chŏng’ŭn vagheggi una Corea sullo stile della Svizzera: una confederazione neutrale e super partes nei confronti dell’allineamento ideologico e politico/strategico, forse ispirato al modello “un Paese, due sistemi”. Certo è che le differenze tra le due Coree, già rimarchevoli prima della divisione politica, si sono ingigantite a dismisura negli ultimi settant’anni, e non solo in termini di economia, ma anche con riguardo al pensiero, alla familiarità con la tecnologia e addirittura all’unità linguistica. È un problema complesso, che nel peggiore dei casi potrebbe avere la devastante soluzione del mantenimento sine die dell’attuale spartizione, con una Corea del Sud ormai definitivamente occidentalizzata nell’orbita statunitense e una Corea del Nord destinata a diventare quasi un protettorato cinese. E da più parti si teme che i “Grandi” si siano già accordati in tal senso.