“Storia della comunicazione e dello spettacolo in Italia” a cura di Claudio Bernardi e Elena Mosconi

Storia della comunicazione e dello spettacolo in Italia, Claudio Bernardi, Elena MosconiProf. Claudio Bernardi, Lei ha curato con Elena Mosconi l’edizione della Storia della comunicazione e dello spettacolo in Italia, pubblicata da Vita e Pensiero, di cui è recentemente uscito il I volume, I media alla sfida della modernità (1900-1944): si può affermare che l’industria dei media moderna nasca nella prima metà del XX secolo?
Sì. E no. No, perché l’industria dei media in Italia nasce nel secondo Ottocento con l’avvento dei grandi gruppi editoriali. Per David Forgacs l’industrializzazione della cultura italiana inizia con la guerra delle tirature dei due maggiori quotidiani alla fine del secolo XIX: “Il Corriere della Sera” (fondato nel 1876) e “Il Secolo”, edito dal gruppo editoriale Sonzogno nel 1866. Fausto Colombo punta ad una data simbolica, quella relativa all’enorme successo della pubblicazione a puntate de Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1881-1883) di Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Per altre ragioni Michele Sorice preferisce come data simbolica il 1877, quando a Milano nasce il primo grande magazzino di abiti confezionati. Passando dalla logica distributiva delle botteghe artigianali a quella industriale della commercializzazione diffusa, si mette in atto una tendenza culturale di massificazione della produzione, consumo, distribuzione, mercificazione, che travalica gli abiti, le merci e le mode. L’industrializzazione, in generale, rende accessibili a molti beni prima riservati a pochi. L’industria culturale, in particolare, produce i beni immateriali dell’informazione, della cultura, delle arti, dello spettacolo. Sempre merci sono. E seriali. Prodotti di massa per masse.

Sì, l’industria dei media moderna in Italia nasce nella prima metà del XX secolo se consideriamo il balzo straordinario che fa l’industria culturale italiana, inclusa quella precedente dell’editoria e della stampa, con l’avvento del cinema, della radio, delle case discografiche, della stampa a rotocalco. Soprattutto, però, il boom dell’industria culturale è da collegare alla rivoluzione industriale che in Italia avviene in ritardo rispetto agli altri paesi più avanzati dell’Europa. Grazie alla costituzione delle banche di investimento e al sostegno politico del liberalismo giolittiano, l’Italia dalla fine dell’Ottocento al 1920 – aggiungendo alle precedenti industrie tessili e alimentari settori produttivi primari quali l’industria idroelettrica, siderurgica, automobilistica, aeronautica, chimica, ecc., – diventa, nel 1914, l’ottavo paese industrializzato al mondo.

Nel primo ventennio del Novecento l’industria dei media conosce una formidabile espansione all’insegna di esperienze ed esperimenti innovati­vi: quali novità caratterizzano la comunicazione e lo spettacolo dell’epoca?
Creato nel 1896 dai fratelli Lumière il cinematografo fa capolino in Italia soprattutto come fenomeno da baraccone, nelle esposizioni fieristiche. A partire dal 1905 con la creazione delle prime industrie italiane il cinema ottiene un successo popolare dilagante, costringendo il principe dello spettacolo di allora, il teatro, a cedere il suo primato nei gusti del pubblico. Nel campo del teatro musicale, Puccini è l’ultimo grande compositore. L’opera diventa sempre più rara di novità, dando lustro, per impulso della neonata industria discografica, agli interpreti, sia cantanti che direttori d’orchestra, come Enrico Caruso e Arturo Toscanini.

Il teatro d’opera è affiancato dagli altri due sistemi paralleli del teatro di prosa e del teatro minore, costituito essenzialmente nell’Ottocento dal teatro dialettale locale e dal filone filodrammatico. Alla fine dell’Ottocento si fanno strada altri generi “minori” come l’operetta, il café chantant e il varietà. Più avanti nasce come abbinamento agli spettacoli cinematografici l’avanspettacolo.

Il teatro di prosa non ha decrementi di pubblico fino agli Venti, anzi. Fondato sull’antica tradizione delle compagnie di giro dirette da capocomici e imperniate sulle figure del grande attore e del mattatore, il teatro drammatico continua ad attirare grandi folle e nuovo pubblico. La regina dei palcoscenici è l’attrice Eleonora Duse, ma non minor ammirazione suscitano Ermete Zacconi, Ermete Novelli, Virginio Talli e poi, i più giovani Emma Gramatica e Ruggero Ruggeri.

Contro le licenze e lo strapotere attoriale della tradizione del teatro all’antica italiana si coalizzano critici, impresari e drammaturghi, decisi ad aprire la strada alle avanguardie, a una nuova organizzazione e gestione delle sale di spettacolo e al rinnovamento della scena, da tempo in corso in Europa, puntando alla creazione, promozione, tutela e rispetto dei drammaturghi italiani (con la fondazione dell’attuale SIAE) e all’introduzione della nuova figura di curatore degli allestimenti teatrali: il regista. In questa temperie di rinnovamento della scena spiccano i nomi di Gabriele d’Annunzio e soprattutto di Luigi Pirandello.

L’esperienza più innovativa e rivoluzionaria sul piano estetico, sociale, culturale e antropologico del primo ventennio è quella portata avanti dall’avanguardia futurista. Il manifesto programmatico di Filippo Tommaso Marinetti, comparso a Parigi sul “Figaro” del 20 febbraio 1909, propone una visione delle cose e una percezione del mondo totalmente aderenti al mutamento epocale prodotto dai mezzi di trasporto e dalla comunicazione e fondato sulla velocità, sul movimento e sulla sintesi. Il che porta alla necessità di rivoluzionare tutti i linguaggi e tutte le forme di espressione. L’ambito prioritario è quello visivo della pittura- Al futurismo aderiscono subito artisti come Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Gino Severini, Giacomo Balla. Marinetti, che è un poeta, scardina gli stilemi letterari, proponendo una scrittura di parole libere da nessi, significati, punteggiature, regole, significati, con forme di espressione simili ai flussi di coscienza. Nell’ambito dell’architettura il sovvertitore futurista è Antonio Sant’Elia, mentre nell’ambito musicale, nel 1913, è Luigi Russolo che con L’arte dei rumori inventa gli “Intonarumori”. La strategia inclusiva del dopoguerra smorza i toni battaglieri e polemici del primo futurismo – come l’esaltazione della guerra in quanto grande acceleratrice del progresso, della vita e “igiene del mondo” e allarga gli ambiti della ricerca estetica futurista ad altri settori come la moda, la cucina e l’arte sacra.

Fondamentale per ogni aspetto della sua attività, diffusione e comunicazione fu per il movimento futurista la componente performativa. Nel Manifesto del teatro futurista del 1915 si proponeva un teatro sintetico, dinamico, simultaneo, atecnico, autonomo, alogico e irreale. Marinetti compose una quindicina di “sintesi”, testi provocatori e brevissimi, di non più di due minuti, portati in giro in diverse città italiane tra violente reazioni del pubblico. Successivamente i testi presero maggiore ampiezza, ma sempre puntavano alla formula del teatro di varietà, ideale per la concezione dinamica futurista sulla necessità di stupire, eccitare e coinvolgere il pubblico, con l’uso di elementi fantastici, imprevisti e imprevedibili. Più che nel teatro il futurismo riuscì a crearsi uno stile nell’ambito del balletto pantomima ad opera di Ettore Prampolini e Fortunato Depero (Balli plastici, 1918). A Prampolini si deve la sostituzione della scenografia con la scenotecnica, una scena di architetture spaziali-cromatiche determinate dalla luce. A Depero invece si deve il connubio tra arte e pubblicità, per cui la creatività dell’artista se deve occupare tutti gli spazi della vita concreta, deve e può occupare anche quelli del prodotto industriale e della sua promozione, come nella grafica pubblicitaria, nella cartellonistica, negli allestimenti per fiere, negli oggetti promozionali e in qualsiasi comunicazione merceologica. Già Umberto Boccioni sosteneva che era la pubblicità a dare colore alla città moderna e che, il simbolo della nuova era. la metropoli, con i suoi manifesti, vetrine, insegne luminose è anzitutto una metropoli pubblicitaria. Da qui nasce la fucina di talenti del design italiano.

Come si sviluppa l’industria cinematografica in Italia?
A partire dal 1905 con la nascita delle prime case di produzione cinematografica, a Roma, Milano, Torino e Napoli, si diffondono progressivamente le sale con grande richiesta di film di fiction. A Roma la Cines copia il modello produttivo francese con film storici, le comiche, pantomime, film dal vero, ripresa dei numeri più spettacolari del caffé-concerto. Con La presa di Roma, nel trentacinquesimo anniversario della breccia di Porta Pia, realizza il primo film a soggetto del cinema italiano, inaugurando un genere, quello legato alla storia italiana, dall’antica Roma al Risorgimento, che avrà grande fortuna. Furoreggiano le comiche con le case di produzione che si identificano con personaggi immagine interpretati da attori francesi, come Cretinetti (Itala Film), Tontolini (Cines), Polidor (Pasquali). I film muti italiani hanno grande successo all’estero.

Nel 1909 sorge la Film d’Arte Italiana, sostenuta da capitali e idee delle classi aristocratiche e alto borghesi, oltre all’incremento produttivo, dovuto all’avvento del lungometraggio nel 1911, porta con sé lo sviluppo di un progetto culturale che vede nel nuovo mezzo uno strumento formidabile di educazione e acculturazione delle masse e delle classi piccolo e medio-borghesi, Si punta alla riduzione in immagini dei classici della letteratura italiana e straniera, come avvenne con L’Inferno tratto dalla Divina Commedia di Dante, realizzato nel 1911 dalla Milano Films. Grande eco internazionale ebbe il Quo vadis? di Enrico Guazzoni nel 1913, in forza della sua spettacolarità e accuratezza scenotecnica. Nel 1914 l’Itala Film di Torino produce Cabiria. Il colossal italiano diretto da Giovanni Pastrone – e che vanta la collaborazione di Gabriele d’Annunzio e del musicista Ildebrando Pizzetti – ottiene alto gradimento mondiale. Cabiria costituisce il vertice produttivo del cinema italiano.

In che modo i media vivono l’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale?
L’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale accende i riflettori sul crescente ruolo dei media nella vita politica, prima monopolio delle élites borghesi, e ora progressivamente alle prese con il governo, il controllo, l’espressione e le manifestazioni delle masse e dei loro movimenti democratici per l’eguaglianza sociale e la libertà. Il campo di osservazione privilegiato è il settore della stampa e dell’informazione. Il giornalismo italiano mostra fin dalle sue origini una refrattarietà alla cultura moderna dell’informazione fondata sulla notizia e sui fatti, privilegiando l’ideologia, la letteratura, la politica. Non a caso la stampa periodica italiana è fatta, con poche eccezioni, da editori “non puri”. Finanzieri, uomini politici, industriali promuovono imprese giornalistiche non solo con lo scopo di vendere “notizie”, ma anche per farne strumenti di appoggio ai propri interessi e alle proprie posizioni di potere.

Quando Benito Mussolini nel 1914 poté fondare il nuovo quotidiano “Il popolo d’Italia” per convincere gli italiani ad entrare in guerra, fu grazie ai finanziamenti di gruppi industriali molto interessati a ricavare dalla guerra ingenti commesse statali. Il quotidiano da cui proveniva Mussolini, “L’Avanti”, pacifista e socialista, era un organo di stampa di partito, che riprendeva in forma militante la tradizione risorgimentale del giornalismo educativo e politico. Rivolto alle masse popolari e sostenuto dalle masse popolari, “L’Avanti” fu il primo quotidiano italiano di fatto a diffusione nazionale e rappresentò un caso di editoria pura, non essendo finanziato da gruppi economici estranei all’impresa giornalistica. Il rapporto con i lettori era molto più stretto e vitale degli altri quotidiani.

A metà strada si colloca la vicenda de “Il Corriere della Sera”. Di proprietà dei Crespi, industriali tessili, la testata di impostazione liberale e conservatrice difendeva la linea anticlericale e antisocialista della Destra storica, contro le riforme e l’apertura dei governi giolittiani alle forze popolari cattoliche e di sinistra. Il suo più famoso direttore, Luigi Albertini, ispirandosi al modello giornalistico anglosassone del primato della notizia sul commento e introducendo le più avanzate tecnologie di stampa, portò il quotidiano a crescenti tirature, unendolo a supplementi e periodici collaterali, come l’illustratissima “Domenica del Corriere” o “Il Corriere dei Piccoli”, trasformandolo nel più autorevole e diffuso quotidiano italiano e creando un piccolo impero editoriale con più di mille dipendenti alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.

Non solo per l’Italia, ma anche per tutto il giornalismo occidentale, la guerra determinò una paurosa regressione dell’informazione. Nelle tre tipologie di sistema dei mezzi di comunicazione proposte da Raymond Williams – paterna, commerciale, democratica – la prima accantona la seconda, fin ad allora prevalente, con gravi ricadute sulla terza. Trionfano censura e propaganda giustificate dal sostegno all’unità morale dello sforzo bellico contro qualsiasi disturbo critico, divisivo, demoralizzante, considerato un tradimento a favore del nemico.

Cosa accade ai media italiani dopo la rivoluzione russa e la prima guerra mon­diale?
La stampa quotidiana alla fine delle ostilità si rivelò più forte rispetto agli inizi. Ad eccezione del quotidiano socialista “L’Avanti”, le testate sono in mano ad editori impuri, industriali, possidenti, banchieri. Sono tra i primi accusati ad essersi arricchiti grazie alla guerra dai migliaia di reduci e combattenti privi di lavoro o costretti a lasciare abbandonati i loro campi e le loro attività e in condizione di miseria le proprie famiglie. La rivoluzione russa ha scosso le masse proletarie di tutta Europa, desiderose di liberarsi dallo sfruttamento capitalistico e dall’ideologia borghese. Scioperi, manifestazioni, proteste e rivolte di lavoratori e contadini squassano la penisola. L’influenza della stampa e dell’opinione pubblica non ha credito presso le masse per l’evidente connivenza con gli interessi della borghesia. La salvezza delle élites contro l’ondata di sollevazione sociale e l’avvento della democrazia popolare è il ricorso alla nazionalizzazione delle masse.

La guerra è stata l’effettiva vicenda di unificazione degli italiani, grazie ai milioni di contadini di tutta Italia costretti a diventare italiani per amore o per rischio di fucilazione. Nel dopoguerra si sostiene che è in nome della patria, dei suoi torti subiti dalle potenze straniere, ed è contro le minacce dissolutive dei nemici interni della patria – i movimenti internazionali e sovranazionali quali quelli degli anarchici, socialisti e comunisti – che occorre continuare a “credere, obbedire, combattere”.

Ispiratore e interprete di questa nuova guerra per il riscatto italiano è il giornalista Benito Mussolini, il cui quotidiano – sostenuto finanziariamente dai maggiori beneficiari della guerra, il gruppo industriale Ansaldo dei fratelli Perrone -, nel 1918 prende il significativo sottotitolo di “organo dei combattenti e dei produttori”. Con la fondazione dei Fasci di Combattimento, la violenza antisocialista, la marcia su Roma e la presa del potere nel 1922, Mussolini affossa il primo tentativo di costruire un sistema politico, imperniato sulla società di massa, portando ai massimi e nefasti esiti quell’ideologia nazionalista funzionale alle grandi concentrazioni economiche e finanziarie, sostenuta da una classe dirigente ottusa e conservatrice.

Nel campo cinematografico la dispersione in tante società e l’arretratezza tecnologica produssero alla fine della prima guerra mondiale, una grave crisi, dovuta anche al crollo delle esportazioni e all’aumento dei costi. Ne approfittarono le principali case di produzione americane che si imposero a livello mondiale relegando le cinematografie europee ai confini nazionali e conquistando il mercato continentale attraverso la presenza diretta di loro filiali. Con un marketing aggressivo di promozione e distribuzione, il cinema americano si impose sul mercato italiano crescendo dagli inizi alla fine degli anni Venti dal 20% al 70-75%.

Come si articolano i rapporti tra fascismo e mezzi di comunicazione?
Con l’avvento di Mussolini al potere, nell’ottobre del 1922, si assiste alla progressiva fascistizzazione dei mezzi di comunicazione. Il settore più difficile da asservire è quello della stampa. Il tentativo del decreto del luglio 1923 di mantenere la stampa in stato di guerra accordando ai prefetti la possibilità di diffidare e destituire i gerenti dei periodici in caso di critica o contrapposizione all’azione del governo, o di vilipendio delle leggi, della patria, del re, di Dio, della religione, delle leggi, delle istituzioni pubbliche, venne ostacolato dal mondo del giornalismo italiano, abituato al pluralismo, alla libertà e al rifiuto delle ingerenze governative. Dall’attacco violento e frontale contro le testate dei giornali socialisti, come avvenne per “L’Avanti” da parte dello squadrismo fascista nel 1919 – il Duce pensò allora di passare ad una graduale e sommersa fascistizzazione della stampa, manovrando la composizione dei consigli di amministrazione dei quotidiani e alla sostituzione di direttori scomodi. Nel 1925 con le dimissioni del direttore del “Corriere” Albertini e la conversione in legge del decreto del 1923, cessa in Italia la libertà di stampa. Pur non avendo propri organi di informazione, il governo attraverso il Ministero della Stampa e propaganda – che nel 1937 prenderà il nome di Ministero della Cultura popolare, più noto come Minculpop – fornisce alle redazioni minuziose direttive – le famose “veline” – relative alla scelta delle notizie (niente cronaca nera), ai titoli, all’impaginazione, al linguaggio, ecc. Ma sulla libertà ed etica dei giornalisti più che la censura poté la manna di benefici e privilegi riservati alla loro corporazione e professione.

Il controllo stretto della stampa non spiega però il grande consenso che ottenne Mussolini dal popolo italiano. La stampa non aveva infatti penetrazione tra le masse. Per la loro adesione il regime si servì ampiamente dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, in particolare del cinema e della radio. Non a caso nel 1935 il Ministero della Stampa aggiunse alle due direzioni già esistenti quelle dedicate alla propaganda, al cinema, al turismo e al teatro.

Fin dagli inizi Mussolini aveva capito che non si può avere alcun potere se non si hanno in potere le masse, se non si ha il consenso e l’adorazione delle folle, il che voleva dire avere l’egemonia nella cultura popolare. Il fascismo fu innanzitutto una rivoluzione culturale. Si presentò come una terza via tra il totalitarismo comunista, rappresentato culturalmente dalla militanza politica e sociale delle manifestazioni di piazza, e la democrazia rappresentativa della borghesia liberale, simboleggiata dal medium editoriale della stampa e dei periodici. Nel primo modello il popolo è attivo, unito e impegnato, nel secondo è passivo, frammentato, divertito.

La rivoluzione fascista operò a tenaglia sui due fronti per conquistare il cuore degli italiani. Il totalitarismo fascista, a differenza di quelli coevi comunista e nazista, non sottopose lo Stato al Partito, ma emarginò progressivamente il Partito per fascistizzare lo Stato.

Nell’ambito dell’impegno popolare promosse la religione secolarizzata della Patria, degli Eroi e dell’Italia, con al centro il culto del littorio, mirante a realizzare l’ideale del cittadino virile e virtuoso, dedito anima e corpo alla nazione. A questo culto vennero dedicati tempi festivi periodici, come le feste dell’Unità, della Monarchia, della Vittoria, del Natale di Roma, il 21 aprile (pure festa del lavoro in sostituzione del Primo Maggio, maledettamente “rosso”), nonché una miriade di eventi e manifestazioni di massa, che vanno dalle parate, alle adunanze, come quelle celebri davanti al balcone di Piazza Venezia a Roma, alle sagre, alle rievocazioni storiche, alle mostre e fiere, per non parlare delle visite e dei viaggi in tutte le città d’Italia del Duce, dei Gerarchi, delle Altezze Reali…

Sul secondo fronte il fascismo lanciò una politica del tempo libero, con l’istituzione dell’Opera Nazionale del Dopolavoro e lo sviluppo del turismo, delle manifestazioni sportive a tutti i livelli, delle feste (come non ricordare la Befana fascista?), delle tradizioni popolari, dei giochi, dei palii, dei costumi e del folklore, ma anche dei più moderni divertimenti e consumi nell’ambito dello spettacolo, della canzone, della comicità popolare. Non di solo media visse il fascismo, anzi.

Cosa ha significato il secondo conflitto mondiale per l’industria dei media?
Con la fine del regime e del monopolio culturale fascista, con la progressiva liberazione della penisola da parte delle forze angloamericane, con la diffusione dei valori e dello spirito della Resistenza, nasce la nuova Italia democratica. Anche grazie al contatto stretto e diretto con i boys statunitensi, l’american way of life produsse una fortissima influenza nel campo dei media, della comunicazione, dello spettacolo, dei consumi e degli stili di vita italiani. Tale influenza era già considerevole nel primo ventennio del secolo. Lo stesso regima fascista, strenuo difensore e promotore della cultura, della lingua, dell’arte, del genio italico, faticò non poco a contrastare l’amore degli italiani per il cinema hollywoodiano, la musica sincopata, la letteratura americana, il fumetto (“Topolino” su tutti), la pubblicità, il ballo, i consumi, lo stile di vita d’Oltreoceano. La cultura americana, che il regime aveva cercato di reprimere, con lo sbarco degli alleati, dilagò fino a diventare la cultura popolare predominante dell’Italia. Soldi, successo, evasione, divertimento, consumi… Certo, non fu egemone. Perché le altre culture, in particolare quella cattolica, socialista, comunista, laica radicale e liberale, ma anche quella regionale, territoriale, accademica, contavano e diedero espressione ad un pluralismo come mai si era registrato nella storia del paese. Le voci dell’impegno civile si manifestarono senz’altro nell’ambito della stampa e dell’editoria. Ma anche nel cinema, alla radio, nel teatro. Nelle manifestazioni di piazza soprattutto. E però si riapriva l’antico duello tra impegno ed evasione, dolce vita e lavoro, attore e spettatore, etica e furbizia, famiglia e società civile dell’italiano medio.

Ieri, oggi, domani, nei media si lotta tra chi vuole educarlo, chi vuole conquistarlo, chi vuole liberarlo…

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