
a cura di Umberto Eco
Bompiani
«In ogni secolo, filosofi e artisti hanno fornito definizioni del bello; grazie alle loro testimonianze è così possibile ricostruire una storia delle idee estetiche attraverso i tempi. Diversamente è accaduto col brutto. Il più delle volte si è definito il brutto in opposizione al bello ma a esso non sono state quasi mai dedicate trattazioni distese, bensì accenni parentetici e marginali. Pertanto, se una storia della bellezza può avvalersi di un’ampia serie di testimonianze teoriche (dalle quali si può dedurre il gusto di una data epoca), una storia della bruttezza dovrà per lo più andare a cercare i propri documenti nelle rappresentazioni visive o verbali di cose o persone in qualche modo intese come “brutte”.
Tuttavia, una storia della bruttezza ha alcuni caratteri in comune con una storia della bellezza. Anzitutto, noi possiamo soltanto supporre che i gusti delle persone comuni corrispondessero in qualche modo ai gusti degli artisti del loro tempo. Se un visitatore venuto dallo spazio entrasse in una galleria d’arte contemporanea, vedesse volti femminili dipinti da Picasso, e sentisse che i visitatori li giudicano “belli”, potrebbe farsi l’idea errata che nella realtà quotidiana gli uomini del nostro tempo ritengono belle e desiderabili creature femminili dal volto simile a quello rappresentato dal pittore. Tuttavia, questo visitatore spaziale potrebbe correggere la sua opinione visitando una sfilata di moda o un concorso di Miss Universo, in cui vedrebbe celebrati altri modelli di bellezza. A noi, invece, questo non è possibile; nel visitare epoche ormai lontane, non possiamo fare verifiche, né in relazione al bello né in relazione al brutto, perché di quelle epoche ci sono rimaste soltanto testimonianze artistiche.
Un’altra caratteristica comune sia alla storia del brutto che a quella del bello è che ci si deve limitare a registrare la vicenda di questi due valori nella civiltà occidentale. Per le civiltà arcaiche e per i popoli detti primitivi abbiamo reperti artistici ma non disponiamo di testi teorici che ci dicano se questi fossero destinati a provocare diletto estetico, terrore sacro, oppure ilarità.
A un occidentale una maschera rituale africana può apparire orripilante – mentre per il nativo potrebbe rappresentare una entità benevola. Di converso, per l’appartenente a qualche religione extraeuropea potrebbe apparire sgradevole l’immagine di un Cristo flagellato, sanguinante e umiliato, la cui apparente bruttezza corporea a un cristiano ispirerebbe simpatia e commozione.
Nel caso di altre culture, ricche di testi poetici e filosofici (come ad esempio quella indiana, giapponese o cinese), vediamo immagini e forme ma, traducendo sia pagine di letteratura che pagine filosofiche, è quasi sempre difficile stabilire sino a qual punto certi concetti possano essere identificabili con i nostri, anche se la tradizione ci ha indotto a tradurli in termini occidentali come “bello” o “brutto”. E anche se le traduzioni fossero attendibili, non basterebbe sapere che in una certa cultura si intende come bella una cosa che esibisca, per esempio, proporzione ed armonia. Che cosa si intende, infatti, con questi due termini? Essi hanno cambiato senso anche nel corso della storia occidentale. È solo paragonando affermazioni teoriche con un quadro o una costruzione architettonica dell’epoca che ci accorgiamo che ciò che era considerato proporzionato in un secolo non lo era più nell’altro; parlando per esempio di proporzione un filosofo medievale pensava alle dimensioni e alla forma di una cattedrale gotica, mentre un teorico rinascimentale pensava a un tempio cinquecentesco, le cui parti erano regolate dalla sezione aurea – e ai rinascimentali sono apparse barbare e, appunto, “gotiche”, le proporzioni realizzate dalle cattedrali.
I concetti di bello e brutto sono relativi ai vari periodi storici o alle varie culture e, per citare Senofane di Colofone (secondo Clemente Alessandrino, Stromata, V, 110), “se i bovi e i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di coloro”.
Nel Medioevo Giacomo da Vitry (Libri duo, quorum prior Orientalis, sive Hjyerosolimitanae, alter Occidentalis istoria), nel lodare la Bellezza di tutta l’opera divina, ammetteva che “probabilmente i ciclopi, che hanno un solo occhio, si stupiscono di coloro che ne hanno due, come noi ci meravigliamo e di coloro e di creature con tre occhi… Consideriamo brutti gli etiopi neri, ma tra di essi è il più nero che viene considerato come il più bello.” Gli farà eco secoli dopo Voltaire (nel Dizionario filosofico): “Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello consiste per lui nella pelle nera e oleosa, gli occhi ínfossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello è un paio di corna, quattro zampe a grinfia, e una coda”. […]
Sovente le attribuzioni di bellezza o di bruttezza sono state dovute non a criteri estetici ma a criteri politici e sociali. C’è un passo di Marx (Manoscritti economico-filosofici del ‘44) dove si ricorda come il possesso del denaro possa supplire alla bruttezza: “Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente… Tanto grande è la mia forza quanto grande è la forza del denaro… Ciò ch’io sono e posso non è dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà ventiquattro gambe: non sono dunque storpio… Il mio denaro non tramuta tutte le mie deficienze nel loro contrario?” Ora, basta estendere questa riflessione sul denaro al potere in generale e si capiranno alcuni ritratti di monarchi dei secoli passati, devotamente eternati nelle loro fattezze da pittori cortigiani che certamente non intendevano metterne troppo in risalto i difetti, e forse hanno fatto persino del loro meglio per ingentilirne i tratti. Questi personaggi ci appaiono senza ombra di dubbio assai brutti (e probabilmente lo erano anche ai tempi loro) ma erano portatori di un tale carisma, di un tale fascino dovuto alla loro onnipotenza, da essere visti dai loro sudditi con occhi adoranti. […]
Dire che bello e brutto sono relativi ai tempi e alle culture (o addirittura ai pianeti) non significa peraltro che non si sia sempre cercato di vederli come definiti rispetto a un modello stabile.
Si potrebbe anche suggerire, come ha fatto Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli che “nel bello l’uomo pone se stesso come norma della perfezione” e “si adora in esso… L’uomo in fondo si rispecchia nelle cose, considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine… Il brutto viene compreso come un accenno e un sintomo della degenerescenza… Ogni sintomo di esaurimento, di pesantezza, di senilità, di stanchezza, ogni specie di non libertà, come convulsione o paralisi, soprattutto l’odore, il colore, la forma della dissoluzione, della decomposizione… tutto ciò evoca un’identica reazione, il giudizio di valore ‘brutto’… Che cosa odia ora l’uomo? Non v’è dubbio: odia il tramonto del suo tipo”.
L’argomento di Nietzsche è narcisisticamente antropomorfo, ma ci dice appunto che bellezza e bruttezza sono definiti in riferimento a un modello “specifico” e la nozione di specie si può estendere dagli uomini a tutti gli enti, come faceva Platone nella Repubblica, accettando di definire bella una pignatta costruita secondo le giuste regole artigianali, o Tommaso d’Aquino (Summa Teologica, I, 39, 8) per cui il bello era dato, oltre che da una debita proporzione e dalla luminosità o chiarezza, dalla integrità per cui una cosa (sia essa un corpo umano, un albero, un vaso) deve esibire tutte le caratteristiche che la sua forma deve avere imposto alla materia. In tal senso, non solo si diceva brutto qualcosa di sproporzionato, come un essere umano con una testa enorme e gambe cortissime, ma si dicevano brutti anche gli esseri che Tommaso definiva come “turpi” in quanto “diminuiti”, ovvero – come dirà Gugliemo d’Alvernia (Trattato del bene e del male) – chi manca di un membro, chi ha un solo occhio (o addirittura tre, perché si può difettare di integrità anche per eccesso). […]
Il brutto potrà allora semplicemente definirsi come il contrario del bello, sia pure un contrario che cambia col mutare dell’idea del suo opposto? Una storia della bruttezza si pone come contraltare simmetrico di una storia della bellezza?
La prima e più compiuta Estetica del brutto, quella elaborata nel 1853 da Karl Rosenkrantz, traccia una analogia tra il brutto e il male morale. Come il male e il peccato si oppongono al bene, di cui sono l’inferno, così il brutto è “l’inferno del bello”. Rosenkrantz riprende l’idea tradizionale che il brutto sia il contrario del bello, una sorta di possibile errore che il bello contiene in sé, così che ogni estetica, come scienza della bellezza, è costretta ad affrontare anche il concetto di bruttezza. Ma è proprio quando passa dalle definizioni astratte a una fenomenologia delle varie incarnazioni del brutto che egli ci fa intravedere una sorta di “autonomia del brutto”, che lo rende qualcosa di ben più ricco e complesso che non una serie di semplici negazioni delle varie forme di bellezza. […]
Nel suo saggio su L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali Darwin rilevava che ciò che provoca disgusto in una data cultura non lo provoca in un’altra, e viceversa, ma concludeva che tuttavia “sembra che i diversi movimenti descritti come espressivi del disprezzo e del disgusto siano identici in una gran parte del mondo”. […]
In generale, in ogni caso, sembra che l’esperienza del bello provochi quello che Kant (Critica della facoltà di giudizio) definiva piacere senza interesse: mentre noi vorremmo avere tutti quello che ci appare piacevole o partecipare a tutto ciò che sembra buono, il giudizio di gusto di fronte alla visione di un fiore provvede un piacere da cui è escluso alcun desiderio di possesso o di consumo. […]
In verità dovremo, nel corso della nostra storia, distinguere le manifestazioni di brutto in sé (un escremento, una carogna decomposta, un essere coperto di piaghe che emana un odore nauseabondo) da quelle di brutto formale, come squilibrio nella relazione organica tra le parti di un tutto. […]
Per questo un conto è reagire passionalmente al disgusto che ci provoca un insetto viscido o un frutto imputridito e un conto è dire di una persona che è sproporzionata o di un ritratto che è brutto nel senso che è malfatto (il brutto artistico è un brutto formale).
E, parlando di brutto artistico, ricordiamo che in quasi tutte le teorie estetiche, almeno dalla Grecia ai giorni nostri, è stato riconosciuto che qualsiasi forma di bruttezza può essere redenta da una sua fedele ed efficace rappresentazione artistica. Aristotele (Poetica 1448 b) parla della possibilità di realizzare il bello imitando con maestria ciò che è repellente […].
Abbiamo così identificato tre fenomeni diversi: il brutto in sé, il brutto formale e la rappresentazione artistica di entrambi. Quello che c’è da tener presente nello sfogliare le pagine di questo libro è che quasi sempre si potrà inferire che cosa fossero in una data cultura i primi due tipi di bruttezza solo in base a testimonianze del terzo tipo. […]
I teorici spesso non tengono conto di innumerevoli variabili individuali, idiosincrasie e comportamenti devianti. […] Di qui la prudenza con cui dobbiamo preparaci a seguire questa nostra storia della bruttezza, nelle sue varietà, nelle sue molteplici declinazioni, nella diversità di reazioni che le sue varie forme stimolano, nelle sfumature comportamentali con cui vi si reagisce. Considerando volta per volta se e quanto avessero ragione le streghe che nel primo atto del Macbeth gridano: “Il bello è brutto e il brutto è bello…”»