
A partire dai primi decenni del secolo successivo tutto questo cambia: resta forte l’esigenza conoscitiva, ormai consolidatasi, rispetto ai popoli “altri” dei paesi europei coloniali (in primis Inghilterra e Francia) e però anche degli Stati Uniti che avevano il problema indiano, ma si cercano risposte affrancate dall’ideologia e dal metodo evoluzionista. La prima di queste riposte è l’etnografia, il cui padre fondatore nei manuali di storia dell’antropologia è Bronislaw Malinowski, anche se non fu l’unico né il primo etnografo professionista, per così dire, come viene affermato nella Storia dell’etnografia da me curata, in un capitolo di che si intitola appunto L’etnografia prima dell’etnografia. L’etnografia, come viene praticata da Malinowski alle isole Trobriand, ma anche da altri ricercatori prima di lui, per esempio Frank Hamilton “Cushing” e James Mooney negli USA, dove poi l’antropologia ottenne una forte spinta per merito di Franz Boas, diventa una pratica di ricerca intenzionale, progettuale, riflessiva, finalizzata a produrre conoscenza autentica e scientificamente sostenuta del mondo “primitivo” o “selvaggio”, come ancora in quegli anni si definiva anche da parte degli stessi etnografi il mondo da loro studiato. Quindi, per tornare alla domanda, il primo elemento che fa, forma, un etnografo, è uno sguardo teoricamente denso sul mondo. Ciò vuol dire che non possiamo distinguere nettamente fra pratica di ricerca, sul campo, e cornice teorica, perché ricerca sul campo e teoria sono fuse a generare un unico complessivo approccio al mondo sociale e culturale. Uno dei primi obiettivi del volume è proprio esplicitare a chi lo avesse dimenticato o mai considerato che l’etnografia non è un metodo, tantomeno è una tecnica qualitativa di ricerca, ma è un modo di guardare, un approccio – anche politico – alle realtà socioculturali e umane.
Quali questioni animano il dibattito etnografico contemporaneo?
La Storia dell’etnografia da me curata pare dalle origini, per arrivare, attraverso una trattazione del periodo di consolidamento, fino all’etnografia contemporanea. La comunità antropologica ha sempre discusso molto dell’etnografia, del suo statuto epistemologico, della sua affidabilità, dei risvolti etici che ha la ricerca etnografica e soprattutto il successivo scrivere e rendere pubblici i risultati di tale ricerca. Questo dibattito si è animato una prima volta dopo la pubblicazione dei celebri Diari di Malinowski (Un diario nello stretto senso del termine, Armando Editore), che sembravano dissolvere il mito dell’etnografo camaleonte, in grado di raggiungere una stretta vicinanza con i nativi e, di conseguenza, minavano il cuore stesso della pratica etnografica (si veda Geertz, Sulla natura della comprensione antropologica): scoprire un Malinowski intollerante, a disagio, che addirittura mal sopportava i “suoi” Trobriandesi provocò un piccolo scandalo nella comunità disciplinare, ma più di questo pose un problema epistemologico: come, su che basi fondare la comprensione in antropologia, una volta venuto meno il principio dell’osservazione partecipante e il dispositivo dell’empatia? La risposta la diede Clifford Geertz, nel saggio che citavo prima: sul lavoro interpretativo applicato a decifrare quelle reti pubbliche (ma spesso criptiche) di significato che sono le culture umane, proprio come dei testi fatti di parole che si possono interpretare. Invece che di sole parole le culture sono fatte anche di azioni, rituali, oggetti, gesti, comportamenti, combattimenti di galli, partite di calcio, tutti fatti e eventi che esprimono un significato. A partire da questa risposta, una svolta per l’etnografia (densa di teoria), degli anni 80 e 90 del secolo scorso, l’etnografia contemporanea si dibatte oggi (da qualche decennio diciamo) nel problema del “campo” che scompare (o meglio si dilata fino a scomparire) sotto i colpi dei processi globali, delle tecnologie digitali, dei fenomeni di mobilità. Ha ancora senso l’etnografia approfondita e intensa svolta in un posto delimitato (appunto il campo) a stretto contatto con persone che in realtà trovano il senso della loro esistenza (o desidererebbero trovarlo) altrove?
Quali tendenze hanno caratterizzato lo sviluppo storico dell’etnografia?
La comprensione antropologica parte dal campo (dai fatti, dall’esperienza, dal sapere locale) nel quale singoli antropologi (o etnografi) si collocano per un certo periodo (la ricerca sul campo) per poi estendersi oltre il campo attraverso il testo – mediante la scrittura – in direzione dell’analisi. La costruzione di ogni discorso antropologico procede ovviamente non nel vuoto, ma grazie ad alcuni riferimenti concettuali, tesi in un modo o nell’altro a render conto della capacità dell’uomo di produrre senso e di avvolgere in questa sua produzione il mondo in cui vive. Un importante ingrediente di questo discorso è il confronto fra tanti modi di vedere il mondo, le cose, se stessi e gli altri, in generale, fra tanti modi di vivere propri di specifiche comunità umane. La comparazione è l’operazione intellettuale più adatta a mettere in risalto le differenze (e naturalmente anche le somiglianze) fra gli uomini e, come ci ha insegnato lo strutturalismo, a spiegare il senso di ciò che è detto (in un mito, in un racconto, in un sistema di parentela, in un sistema di classificazioni ecc.) passando per ciò che è non-detto (ma che potrebbe essere detto invece da altri in altri contesti, come sostiene Claude Lévi-Strauss).
Studiare l’uomo e, quindi, costruire un linguaggio in grado di parlarne, significa constatare la diversità, la differenziazione, e di conseguenza accettare l’irruzione della molteplicità, come testimoniato dalla pluralità dei discorsi che articolano l’ambito della riflessione in antropologia. Le modificazioni che negli ultimi cinquant’anni hanno investito la pratica etnografica sono andate nella direzione di una rarefazione dell’orizzonte concettuale di riferimento e, nello stesso tempo, di una moltiplicazione dei temi di ricerca. Questo percorso va dalla sistematicità alla frammentazione, dalla solidità all’evanescenza, dall’inossidabile al deteriorabile, dall’oggettività alla soggettività, dalla struttura alla decostruzione, dal pensiero forte al pensiero debole. Struttura, solidità, sistematicità sono stati i tratti che l’antropologia ha avuto nel Novecento e che le hanno consentito di elaborare degli apparati concettuali appunto epistemologicamente molto solidi, di grande respiro teorico, nel segno della coerenza e del potere euristico della ricerca dell’invarianza. A dispetto delle mode intellettuali che dominano le linee di ricerca più recenti, io credo che la forza del pensiero antropologico a cavallo del Novecento non possa essere messa in discussione. Rispetto a questo, l’antropologia interpretativa di Clifford Geertz pone di fronte alla cosiddetta svolta ermeneutica: «Se vogliamo scoprire in che cosa consiste l’uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che gli uomini sono: essi sono soprattutto differenti» (Geertz, Verso una teoria interpretativa della cultura). Dall’invarianza alla variazione: da Geertz in poi sempre più netto diviene l’abbandono delle teorie generali in grado di assorbire le variazioni, sempre più serrata si fa la critica alle impostazioni positiviste, e il rifiuto della separazione fra antropologia ed etnografia nei termini di teoria e osservazione. Attraverso le loro azioni gli uomini producono significati e gli antropologi, sempre più etnografi, si sforzano di interpretare questi significati. Lasciare addosso agli uomini le loro differenze implica uno slittamento dell’attenzione dalle strutture ai processi, dalla rappresentazione olistica di una «cultura» al tentativo di mettere a fuoco il livello degli eventi, delle azioni, delle persone. Per questo, nella storia dell’etnografia si evidenzia uno scivolamento del centro della sensibilità (nelle pratiche di ricerca empirica e nella riflessione teorica) dallo studio intensivo e localizzato delle società di piccole dimensioni, apparentemente statiche, allo studio delle società globali della tarda modernità (e delle città in particolare), centrate su fenomeni di mobilità (di beni, idee, persone). Una nuova sensibilità teorica e empirica che emerge a caratterizzare gli ultimi decenni e porta con sé un profondo rinnovamento disciplinare, un ripensamento critico e una decostruzione di molti dei paradigmi antropologici (e delle nozioni ad essi collegate). Penso agli esiti del dibattito decostruzionista, nei diversi versanti del riconoscimento del carattere di finzione del testo etnografico, della critica del concetto di cultura, e soprattutto della sua capacità di mettere in questione le visioni del mondo proprie e altrui. La tradizionale visione positivista dell’etnografia, quella malinowskiana, è oggi ampiamente sostituita da una concezione ermeneutica, per cui la «realtà» etnografica è una realtà negoziata (non più una realtà semplicemente osservata) nel corso del complesso e «denso» incontro – dialogo – interazione tra l’etnografo e le persone che studia. Costoro, è altresì noto, da informatori, che rivelano, spinti da pressioni e sollecitazioni più o meno forti, preziose verità culturali (si pensi all’etnografia di Malinowski, di Griaule), sono diventati oggi sempre più partecipanti a una situazione di ricerca che si articola su molti livelli e attiva una molteplicità di identificazioni, comunque avviata e controllata dall’etnografo, che non può rinunciare alla propria autorità e al proprio ruolo. Da un lato, mediante una serie di interazioni comunicative, entrambe le parti appaiono coinvolte in una creazione (o negoziazione) di significati, inclusi i significati del sé e dell’altro, apparentemente simmetrica, dall’altro il progetto etnografico sistematicamente viola questa presunta simmetria. Il dialogo etnografico è sempre una relazione gerarchica, le domande dell’etnografo non sono sollecitate. Il materiale – la conoscenza – ottenuto grazie a una violenza (simbolica) esercitata dall’etnografo, è in un certo qual senso inautentico, e ciò getta un’ombra sulle pretese etnografiche di avere un fondamento empirico, lascia l’antropologia con un problema di credibilità (si pensi a Pierre Bourdieu). Ciò che un tempo sembrava solidamente fondato sul terreno (il campo) ora sembra fluttuare, a maggior ragione una volta riconosciuto e affermato il carattere «impuro», «instabile», «sradicato» e «retorico» dei tradizionali oggetti cui i discorsi antropologici hanno la pretesa di riferirsi. Il contesto, quello spazio fisico, nonché culturale e sociale (l’isola sperduta, il villaggio, la comunità montana, oggi anche il quartiere di periferia, comunque tutti gli specifici «dove» entro i quali l’antropologia si è esercitata e che ha tradotto nel concetto di «campo») definito, delimitato, circoscritto, al quale si lega (o almeno si legava) una altrettanto specifica e ben identificata «cultura» ha sempre garantito all’antropologia un «oggetto» extra-linguistico di cui parlare, consentendole di oltrepassare le parole (di andare oltre il testo) in direzione del mondo e degli uomini. Oggi questo nesso non è più così saldo. La «cultura» non è più un oggetto localizzato e definito di cui si possa parlare (di cui parlano e scrivono gli antropologi) ma una posizione da cui parlare (la collocazione storica, culturale, ideologica, politica, economica, sociale da cui parlano e scrivono gli antropologi). La vita contemporanea nelle metropoli di tutto il mondo, a dispetto della diversità che in apparenza la ricopre, è chiaramente sottoposta a un progetto egemonico totalizzante e omogeneizzante, che viene definito globalizzazione, nel tentativo goffo e insensato di presentarlo come se fosse neutro e inevitabile, quando in effetti si tratta di un ben delineato progetto egemonico di imperialismo economico e culturale, messo in atto da precisi attori sociali del mondo occidentale (ma altri vanno aggiungendosi), attraverso scelte e decisioni che comportano benefici per alcuni, pochi, in certe parti del mondo, e rischi, pericoli, esclusioni per altri, molti, in altre parti del mondo. È il gioco dell’inclusione e dell’esclusione, della solidarietà e dell’egoismo, sempre giocato in ogni società, come ben aveva intuito Emile Durkheim, grazie al quale gli individui si creano degli ambiti entro cui dare ordine, direzione, stabilità, senso ai loro percorsi esistenziali. Oggi tuttavia tale gioco appare enorme e orribile, addirittura catastrofico nelle sue ricadute, dilatato com’è su una scala inimmaginabile che lacera letteralmente e concretamente le esistenze, da un lato, e le coscienze, dall’altro. Gli antropologi si sforzano, mediante l’etnografia, un’etnografia molto diversa da quella delle origini, come ho cercato di sintetizzare, di cogliere di questi aspetti del mondo e della vita, centrali per una migliore comprensione delle società contemporanee. Ne parlano, inoltre, non da una posizione distaccata, per così dire, ma collocandosi, secondo modalità molto diverse, dentro alcuni contesti, o stando nei contesti o a partire dai contesti (facendosi così etnografi). L’etnografia emerge quindi come l’espressione di una particolare propensione a parlare del mondo nel mondo, in altri termini a parlare degli uomini negli uomini, cioè collocandosi in mezzo a loro.
Quale potenziale esprimono linee sinora marginali della ricerca, come l’etnografia di genere e il paradigma visuale?
Rispondo riportando una breve citazione del capitolo di Michela Fusaschi, dedicato appunto alla questione dell’antropologia di genere:
Nicole-Claude Mathieu sulla “nuova antropologia delle donne” e sulla “antropologia dei sessi” specificava come la differenza fosse di taglia: la prima, come l’antropologia classica, concentrandosi sugli uomini, aveva detto che lo “statuto” (inferiore) delle donne era determinato da quello degli uomini. La seconda concentrandosi sulle donne dimostrava che: lo “statuto” (privilegiato) degli uomini è condizionato o direttamente prodotto dal lavoro delle donne e la sua invisibilità, la loro invisibilità, che si manifesti nelle società studiate o nelle analisi realizzate. La differenza che ne consegue è che nei fatti, non si tratta più tanto di “status” rispettivi (ottica statica) ma dell’analisi del funzionamento sociale e della definizione reciproca dei sessi, dialettica, non volendo dire egualitaria (1985, p. 6-7, enfasi dell’autrice).
Che si trattasse di ideologie scientifiche o di quelle delle differenti società, la visibilità degli attori sociali uomini come gruppo sessuato dipendeva dall’invisibilità delle donne come attrici sociali e la loro rappresentazione come «sessi non-attori» (ivi, p. 7, enfasi dell’autrice). L’esclusione preventiva delle donne da parte della scienza e il loro trattamento differenziale negli Stati uniti aveva portato ai women studies. I volumi Woman, Culture and Society di Rosaldo e Lamphere (1974) e Toward an Anthropology of Women di Rapp Reiter (1975), sfidavano l’epistemologia antropologica proponendo un progetto di revisione, teorico e di campo diretto a combattere quel pregiudizio maschile che faceva degli uomini gli interlocutori privilegiati nell’indagine e le donne delle mere comparse. Reiter sosteneva la necessità di studi che non banalizzassero, né mal interpretassero il ruolo delle donne, ma che riorientassero invece l’antropologia come studio del genere umano riesaminando le teorie anteriori e criticando tutto ciò che «ammettiamo come costituente dei dati fattuali» (1975, p. 16). L’etnografia in primis per di-svelare quello che si poteva chiamare l’”androcentrismo scientifico” quale sintomo della disciplina antropologica “malata” nella sua interezza. Dagli anni Settanta in poi, le innovazioni più rilevanti dell’antropologia femminista riguardarono propriamente questioni metodologiche che discendevano, per l’appunto, dalla revisione di quell’immagine della realtà fatta dall’antropologia degli uomini che si traduceva anche in una «valorizzazione di aree tematiche o di vita sociale trascurate o assenti dall’antropologia maschile» (Maher, 1992, p. 42).
Analogamente, per quanto riguarda il paradigma visuale, cito dal capitolo di Francesco Faeta:
Ho tentato di delineare brevemente un percorso storico-critico basato su alcuni degli autori con cui ritengo si debba avere a che fare, perché alla base della nostra prassi etnografica, specialmente quando essa comporti un’attività di ripresa fotografica e video-filmica, credo debba essere posta una severa opera di sorveglianza dello sguardo. Non è importante cosa si guarda, ma come si guarda e lo sforzo critico e autocritico di ciascun etnografo deve essere improntato a una sistematica analisi del proprio, oltre che dell’altrui, way of seeing. L’etnografia visiva, di conseguenza, può porsi come fondamento delle più estese pratiche di ricerca, non in base ai presupposti ingenui con cui la si è per lo più pensata, ma in quanto strumento per una critica dello sguardo e della sua attività di costruzione del corpo dell’operatore e del campo di relazioni significative che attorno a esso si costruisce. Il senso dell’etnografia, in sintesi, non risiede nel comprendere come stanno le cose in una determinata sezione della realtà di cui abbiamo scelto di occuparci, ma come stanno quelle cose dentro di noi; come si sono andate costruendo attraverso il corpo senziente che abitiamo. Soltanto questa percezione della realtà può portare alla costruzione di un’etnografia che restituisca in modo non ingenuo o superficiale la consistenza dei dati che ci sono di fronte. Come si comprende è questo un approccio che può promuovere pratiche etnografiche e videografiche del tutto differenti da quelle cui siamo avvezzi.
Che ruolo svolge la riflessione politica in etnografia?
Non si tratta tanto di una riflessione politica, quanto di un posizionamento che non si può evitare o ignorare: dato che la conoscenza prodotta tramite l’etnografia scaturisce sempre e comunque da uno squilibrio di potere, la politica c’entra. Tradizionalmente gli antropologi hanno studiato popoli collocati verso il basso rispetto a loro: meno ricchi, meno potenti, meno centrali, marginali, scartati, disprezzati ecc. Ancora oggi sono rarissimi gli studi etnografici diretti “verso l’alto”, cioè verso gruppi, categorie, classi di persone dotate di maggior potere economico, politico dell’antropologo. Questo squilibrio non si può eliminare perché l’antropologia studia dislivelli di cultura interni – alla propria società o nazione – o esterni – (uso la terminologia di un antropologo italiano molto “politico”, Alberto Mario Cirese), e questi dislivelli spesso corrispondono a disuguaglianze economiche e politiche. Questo vuol dire che la relazione etnografica, sul campo, è sempre una relazione di potere. Tale aspetto è evidente nelle etnografie delle origini, per così dire, per esempio quelle di Malinowski, Boas, Griaule soprattutto, anche De Martino, e si attenua forse con il passare dei decenni nel corso del Novecento, e ancora di più con la fine del colonialismo. Tuttavia, non sparisce. Quindi è bene non illudersi nella magia della propria formazione accademica e “scientifica” come garanzia dell’oggettività e della neutralità ideologica del proprio lavoro sul campo. Se si è consapevoli delle parzialità del proprio approccio, dei propri strumenti, allora se ne attenuano gli effetti di distorsione. La politica dentro l’antropologia, insomma, sta nel riconoscimento che l’antropologia non può essere “scienza” neutrale nel segno dell’oggettività, ma è “conoscenza” impegnata per via della soggettività che la pervade. So bene che sarebbe rilevante qui discutere il fatto che nello stile intellettuale dell’antropologia c’è una significativa spinta politica, in termini generali. Solo la discussione della molteplicità culturale, il relativismo e il contrasto alle idee che classificano le culture tramite una gerarchia di valori, una discussione che probabilmente Franz Boas per primo alimentò, è in sé politica. La differenza è, a mio avviso, che per lo più questo potenziale sovversivo dell’antropologia resta implicito, sottotraccia dentro il lavoro e la collocazione istituzionale – accademica – degli antropologi; talvolta, anche se in occasioni davvero rare, emerge. Restando alla scuola di Boas, per esempio, troviamo Margaret Mead, pioniere dell’antropologia femminista e di genere, e i suoi sforzi di persuadere gli americani che comprendere la vita di altri popoli poteva aiutarli a capire meglio la loro, che una maggiore rilassatezza rispetto alla sessualità (omosessuale e eterosessuale) li avrebbe arricchiti, che maternità e carriera potrebbero e dovrebbero essere conciliate e che costruire reti di supporto per le famiglie sovraccariche sarebbe stato di grande beneficio per tutta la società. Tutto questo è politica? Forse lo è, ma di certo in un modo differente da quello in cui fece politica Zora Neale Hurston – scrittrice e anche antropologa, studente di Boas -, tramite le sue potenti intuizioni sulla “razza”, la schiavitù, e l’esperienza degli afroamericani. La prima divenne una celebre antropologa, la seconda rimase per lo più non pubblicata, almeno fino a tempi molto recenti.
Vincenzo Matera è professore ordinario di Antropologia culturale nel Dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna (Campus di Ravenna).