
Il caso della commedia è ancor più emblematico dei larghi margini di incertezza al cui interno gli studiosi sono costretti a muoversi. Secondo una certa tradizione inventore della commedia sarebbe stato, nella prima metà del VI secolo a.C., Susarione, un autore per noi avvolto nella leggenda; ma l’inclusione ufficiale della commedia nell’ambito delle Dionisie avvenne solo nel 487/86 a.C. Ebbene, assai prima di questa data le immagini della pittura vascolare lasciano chiaramente ipotizzare l’esistenza di embrionali spettacoli di natura comica: potrebbero esserne stati protagonisti, ad es., i danzatori panciuti rappresentati sui vasi della ceramica corinzia già a partire dalla fine del VII secolo o i cori di uomini addobbati con costume animalesco nella ceramica attica di fine VI – inizi V secolo. Forme di spettacolo più o meno improvvisato, queste o anche altre, che si può ragionevolmente supporre che abbiano preceduto e preparato la ‘nascita’ del genere drammatico pienamente formalizzato che noi conosciamo attraverso le commedie degli autori di età classica.
Di quale popolarità godevano gli spettacoli nel mondo greco?
Occorre intendersi preliminarmente sul concetto di ‘spettacolo’. Il progredire degli studi e delle ricerche sul mondo greco e l’affinarsi della sensibilità critica inducono oggi a ritenere superato l’angusto cliché classicistico che restringeva lo spazio dello spettacolo in Grecia alle sole tragedia e commedia. La nostra abitudine alla fruizione di un testo attraverso la lettura non deve infatti farci dimenticare che in Grecia per un lungo periodo, prima che il libro cominciasse a conoscere una relativa diffusione nel mondo ellenistico, la forma di comunicazione privilegiata e pressoché esclusiva di un testo letterario era quella di una performance dinanzi a un uditorio: occasione di spettacolo erano dunque anche la recitazione dell’epos da parte dell’aedo in presenza di una folla di ascoltatori o l’esecuzione di un canto da parte di un coro in occasione di celebrazioni religiose o secolari (si pensi agli epinici) o anche, se prendiamo in considerazione un ambito privato e dunque più circoscritto, la proposizione di varie forme di poesia – elegia, giambo, lirica monodica – dinanzi ai membri di una eteria o di un simposio. Ciò premesso, se per popolarità degli spettacoli si intende la partecipazione di un pubblico più o meno numeroso alle rappresentazioni drammatiche, le testimonianze in nostro possesso sono concordi nel segnalare che il livello d’interesse per il teatro fu sempre dappertutto altissimo. Agli agoni scenici in Atene, ad es., assistevano tutti i cittadini che lo volessero, e non solo quelli di pieno diritto, ma anche i meteci, schiavi, stranieri e molto probabilmente anche donne. Vari riferimenti nei testi letterari ci fanno poi capire che a ogni ciclo di spettacoli facevano seguito accese discussioni non solo sul modo in cui il mito era stato trattato dai tragediografi o il tale personaggio era stato messo alla berlina da questo o quel poeta comico, ma anche sulla messa in scena, sulla recitazione degli attori, sui canti del coro; versi e arie di particolare suggestione venivano prontamente memorizzati ed entravano a far parte di una diffusa cultura popolare. Né va trascurata l’incidenza che, proprio per la loro popolarità, le rappresentazioni teatrali ebbero, soprattutto in determinate circostanze, nell’influenzare la pubblica opinione. Vorrei citare solo due esempi: le fonti tramandano che a favorire in modo decisivo l’elezione di Sofocle a stratego nel 441 a.C. fu il successo riportato in teatro dalla sua Antigone; e Socrate, nell’Apologia platonica, addebita esplicitamente ad Aristofane, al ritratto che di lui il commediografo aveva delineato nelle Nuvole, una parte rilevante di responsabilità in ordine alle accuse di empietà e di corruzione dei giovani con cui i sui avversari lo avevano trascinato in tribunale.
In che modo le opere teatrali rappresentavano un veicolo di diffusione di idee e riflessioni critiche intorno ai valori etici, politico-sociali e religiosi posti a fondamento della vita dell’individuo e della polis?
Si è osservato da più parti che l’esperienza del teatro fu per gli antichi Greci un momento importante della loro paideia. In Atene gli arconti selezionavano gli autori ammessi a partecipare ai concorsi scenici nel teatro di Dioniso attraverso una valutazione preventiva degli abbozzi dei drammi che i poeti intendevano presentare al pubblico. Era soprattutto alla tragedia che, in una sorta di tacito patto, la polis assegnava il delicato compito di promuovere e diffondere il consenso intorno ai valori sui quali si fondava la comunità cittadina: la moderazione, la giustizia, lo spirito di collaborazione e di sacrificio, la lealtà e il rispetto reciproco, la venerazione degli dèi, la dedizione alla patria, il valore in guerra. Valori, sentimenti, comportamenti che la tragedia contribuiva a radicare nei cittadini ateniesi attraverso la presentazione di storie esemplari attinte al patrimonio tradizionale del mito. Si consideri, tra i molti, il tema della hybris punita: la violenza, il sopruso, l’arroganza dei personaggi negativi sono generalmente causa, sulla scena tragica, della loro stessa rovina – il che veniva certamente letto dallo spettatore come un implicito ammonimento a non comportarsi allo stesso modo. O, su altro piano, si pensi alla rappresentazione così frequente di eroi che, al sommo del loro prestigio e della loro potenza, cadono nella sventura: mettendo in evidenza la precarietà della condizione umana, il tragediografo muoveva lo spettatore a riconoscere i propri limiti, lo preparava ai rovesci della fortuna, gli insegnava a coltivare un moderato pessimismo come antidoto contro le traversie della vita e i colpi imprevisti della sorte.
Vorrei però al contempo sottolineare un punto importante: non dobbiamo pensare alla tragedia come a una forma di teatro programmaticamente concepita come veicolo di propaganda o comunque di fatto asservita al disegno dei ceti dominanti nell’Atene del V secolo a.C. Possiamo credere, al contrario, che nel celebrare le fondamentali virtù civiche gli autori tragici aderissero in modo del tutto naturale a valori e ideali già di per sé largamente condivisi. Si trattava, in ogni caso, di un’adesione critica: se il messaggio di fondo era chiaro e complessivamente tendeva a riaffermare e rafforzare gli ideali che costituivano il credo dell’ideologia corrente, non per questo i tragediografi rinunciarono a mostrare le contraddizioni, le insufficienze, le difficoltà di concretizzazione di quegli stessi ideali. L’esercizio della critica, in questi casi, non riflette un atteggiamento di dissociazione, ma è piuttosto il portato inevitabile di un’analisi che confronta l’astrattezza dei principi con la complessità del reale. La stessa rivisitazione del mito che i tragediografi compiono, del resto, è tutt’altro che un’opera di meccanica trasposizione degli antichi racconti sulla scena. Il mito rimane, è vero, una cornice obbligata; ma la dimensione in cui i personaggi tragici agiscono, le problematiche che essi agitano, l’inquietudine che li anima e li caratterizza segnano una differenza di fondo rispetto alla schematica semplicità degli eroi dell’epos: trasferiti sulla scena tragica, quegli stessi eroi glorificati dall’epos mostrano l’impronta di un’età più evoluta, recano il sigillo di una temperie culturale notevolmente più raffinata e matura. In questo senso Eschilo Sofocle ed Euripide non sono solo abili drammaturghi: sono e vogliono essere in primo luogo testimoni del loro tempo. Di qui il loro impegno di rielaborazione e di risemantizzazione dei racconti tradizionali: le vicende eroiche che essi drammatizzano si caricano di nuovi significati e si arricchiscono di nuove sfumature, e lo stesso dibattito tra i personaggi che essi mettono in scena riflette, con un deliberato anacronismo, le concezioni religiose, gli umori politici e le tensioni morali dell’Atene del V secolo.
Su altro versante, su un piano più immediato e pragmatico, anche la commedia – soprattutto la commedia antica – condivide con la tragedia un intento educativo. A più riprese Aristofane, nelle parabasi delle sue commedie, si erge a ‘coscienza critica’ dei suoi concittadini, cercando di orientarli sulle giuste scelte da compiere. L’arma della persuasione non è in questo caso quella della riflessione gnomica così frequente in tragedia: è la presentazione stessa di scene di vita reale, spesso spinte fin sull’orlo del paradosso, che viceversa si incarica di trasmettere il messaggio del poeta, con il prevalere della critica feroce, del sarcasmo, dello sberleffo, dell’ingiuria, dell’invettiva nei confronti dei “nemici del popolo”, di volta in volta individuati nei politici corrotti, nei disonesti, nei depravati, nei profittatori, nei sicofanti, nei falsi indovini. A motivare l’azione dell’’eroe comico’ c’è un’esigenza di moralità e di giustizia che stenta a essere soddisfatta: egli cerca di cambiare le cose, ma quasi sempre vi riesce soltanto a patto di costruire un mondo che non esiste, un mondo alternativo a quello reale. La fuga nel riso del carnascialesco e dell’utopia ha, da questo punto di vista, un effetto liberatorio; ma si tratta, se ben si riflette, di un effetto di breve durata: ciò che resta, al fondo, è un sorriso venato di amarezza.
Quali generi esistevano nel teatro greco?
Il cuore delle rappresentazioni teatrali in età classica fu Atene. Qui le Dionisie cittadine, o Grandi Dionisie, prevedevano concorsi di autori ditirambici, di poeti tragici e di poeti comici. I poeti tragici gareggiavano presentando ciascuno una tetralogia composta da tre tragedie e un dramma satiresco Poiché della tragedia e della commedia abbiamo già parlato e torneremo a parlare nel séguito, vorrei qui accennare, almeno brevemente, agli altri due generi: il ditirambo e il dramma satiresco.
Il ditirambo non era propriamente un genere drammatico: non vi erano attori né di conseguenza v’era, per dirla con Aristotele, la mimesi di un’azione sulla scena. La performance del ditirambo era infatti affidata a un coro che accompagnava l’esecuzione del suo canto con una danza di tipo circolare: la finalità del canto era quella di celebrare Dioniso, ma all’interno del canto trovava spazio un consistente nucleo mitico-narrativo. Agli agoni ditirambici in Atene partecipavano, distinti per categoria, dieci cori di cinquanta adulti e dieci cori di cinquanta fanciulli selezionati da ciascuna delle phylài (“tribù”) in cui era suddivisa la popolazione dell’Attica. La destinazione di un’intera giornata a questo tipo di spettacolo andrà indubbiamente letta come un atto di omaggio nei confronti di Dioniso, dio del teatro; contestualmente, l’allestimento dei cori da parte delle phylài e poi la partecipazione diretta al concorso agonale di una larga rappresentanza di cittadini-coreuti assolvevano un’importantissima funzione di coinvolgimento del corpo civico nello spirito e nei valori della festa.
Il dramma satiresco costituiva una sorta di appendice burlesca alla trilogia tragica; ne erano autori gli stessi poeti tragici, che si impegnavano in tal modo, secondo le fonti antiche, a sciogliere la tensione indotta nel pubblico dalle sofferenze e dagli orrori portati in scena appena poco prima dalle tragedie. Sulla falsariga della tragedia, il dramma satiresco ritagliava un episodio del mito, riproponendone in larga misura i personaggi, gli sviluppi e l’esito finale: con la non trascurabile variante, però, della presenza, accanto agli eroi, di un coro di satiri e del loro anziano genitore, Sileno. Così, l’unico dramma satiresco conservatosi integralmente, il Ciclope di Euripide, per molti versi ricalca il famoso episodio narrato da Omero nell’Odissea; ma un ruolo – accessorio dal punto di vista dell’intreccio, e tuttavia fondamentale per la coloritura comica delle scene e dei dialoghi – vi svolgono i satiri, qui immaginati come schiavi di Polifemo. In altri drammi frammentari i satiri erano presentati come aspiranti atleti, pescatori, mietitori, araldi, cuochi, carpentieri, fabbri. Il dramma satiresco non mirava a parodiare la tragedia; tendeva piuttosto a sfruttare, attraverso una sofisticata e brillante operazione di riscrittura dei racconti tradizionali, gli effetti esilaranti derivanti dalla costruzione di un mondo assolutamente fantastico e surreale: un mondo ‘altro’, in cui, in modo del tutto inopinato, si immaginava che potessero incontrarsi, dialogare e operare fianco a fianco i blasonati eroi del mito e un coro di singolari creature semiferine non esistenti in natura – creature dal corpo umano, ma con orecchie e coda equine, un manto villoso e un succinto perizoma su cui il costumista aveva applicato un fallo ben eretto: appunto i satiri. La comicità delle situazioni nasceva dal contrasto tra le due sfere: tra l’ostentata gravitas degli eroi e la fanciullesca e disinibita esuberanza dei satiri, esseri curiosi ma volubili, inetti, impertinenti e soprattutto intrinsecamente e goffamente incapaci di misurarsi con gli istituti e le norme del vivere civile.
Resta ancora da parlare di un genere cosiddetto ‘minore’, che si pone al di fuori dello spazio del teatro inteso come luogo fisico e per questo viene talora ingiustamente trascurato: il mimo. Lo spettacolo che i mimi offrivano consisteva per lo più in brevi e semplici sketches di vita quotidiana di cui erano protagonisti all’inizio soltanto artisti di strada; con il tempo tuttavia, soprattutto con l’emergere di mimi professionisti, il mimo fu accolto come forma d’intrattenimento anche nei simposi delle dimore private. Il mimo drammatico conobbe una straordinaria diffusione soprattutto in età ellenistica e imperiale. I testi, quasi sempre anonimi, passavano di compagnia in compagnia; nel corso del tempo, in seguito all’influsso della tragedia e della commedia, cominciarono a strutturarsi esili trame per lo più basate su motivi standard e aventi sempre a soggetto la sfera della quotidianità; larga parte del successo della performance dipendeva dalle capacità mimetiche e d’improvvisazione degli attori; i passi in prosa potevano alternarsi a parti in versi, con la possibile inserzione di sezioni liriche, cioè cantate; lo spettacolo poteva comprendere, a complemento, l’esibizione di danzatori, giocolieri, prestigiatori, animali addestrati. Ciò che ci resta in termini di testi è purtroppo assai poco: un destino pressoché inevitabile se si considera lo scarso interesse, se non il disprezzo, che sia la scuola che i dotti dell’antichità potevano avere per un genere considerato ‘basso’, se non addirittura volgare.
Quali differenze marcano l’evoluzione della commedia e la sua classificazione in commedia antica, di mezzo e nuova?
La storia della commedia greca, com’è noto, viene tradizionalmente suddivisa in tre fasi sulla base di uno schema elaborato dalle fonti antiche. Convenzionalmente la commedia ‘antica’ copre tutto il V secolo a.C. e poco più dell’ultima decade del IV: il suo terminus si fa coincidere con gli ultimi anni della produzione di Aristofane (388-386 a.C.); la commedia di mezzo giunge fino agli anni Venti del IV secolo, quando già è attivo Filemone e debutta Menandro; di lì in poi fiorisce la commedia ‘nuova’. Si tratta indubbiamente di una tripartizione meccanica e per vari aspetti insoddisfacente, nata evidentemente dall’esigenza di render conto delle diverse caratteristiche che il genere mostra nel corso della sua evoluzione.
La commedia antica, che ha i suoi più insigni rappresentanti in Cratino, Aristofane ed Eupoli, è essenzialmente una commedia ‘politica’, focalizzata sulle vicende dell’Atene contemporanea e, in molti autori, caratterizzata da una pronunciata vena polemica nei confronti di bersagli ben individuati: il politico in vista, il filosofo eccentrico e magari sospettato di scardinare la paideia tradizionale (si pensi al Socrate delle Nuvole), il generale vanaglorioso ma inetto in guerra, il ditirambografo reo di sperimentare nuovi modi musicali, il mercante imbroglione, l’effeminato, il venditore di oracoli contraffatti. È notevole che, malgrado la forte carica diffamatoria di larga parte di questi attacchi ad personam (l’espressione che i Greci usavano era onomastì komodèin), siano sostanzialmente falliti o abbiano avuto un effetto assai blando, almeno nel V secolo, i tentativi del potere costituito di limitare per decreto la libertà di parola concessa agli autori di commedia. Se questo è il filone prevalente e più rappresentativo della commedia antica, non va trascurata la presenza, tra i commediografi di questa fase, di autori come Cratete e Ferecrate, che al contrario privilegiarono trame fantastiche o di semplice evasione: una tematica del resto non aliena neppure agli stessi autori per così dire ‘impegnati’.
Il passaggio dalla commedia antica a quella di mezzo, così come il passaggio da quella di mezzo a quella nuova, non è del tutto lineare e perspicuo, sì che oggi si tende perfino a revocare in dubbio la legittimità della tripartizione tradizionale. In ogni caso, se di una commedia di mezzo si deve davvero parlare come di una fase distinta della commedia greca, i suoi tratti precipui andranno indicati in un affievolirsi dell’onomastì komodèin e nella predilezione per la tematica mitologica e la parodia filosofica. Sul piano strutturale giunge a compimento un processo i cui incunaboli erano già evidenti nelle ultime commedie di Aristofane: la scomparsa della parabasi (la sezione in cui il poeta attraverso il corifeo parlava in prima persona) e l’emarginazione del coro dall’azione scenica. Comincia ad affiorare al contempo un più vivo interesse per la tematica amorosa e si vengono costituendo i profili di specifici stock-characters o personagggi tipici, quali il parassita, l’etera, il soldato fanfarone, il cuoco, lo schiavo, che godranno di ampia fortuna nella commedia nuova e nella palliata latina.
Nella commedia nuova e specialmente in Menandro, l’autore che meglio conosciamo, il tema dominante è l’amore – specchio della nuova realtà del mondo ellenistico, in cui non ferve più l’intenso dibattito politico che dava linfa e materia di elaborazione alla commedia del V secolo. I personaggi sono persone comuni, l’ambito in cui agiscono è quello della famiglia e delle sue relazioni esterne più strette, l’attenzione si concentra sui rapporti affettivi, analizzati e descritti con il maggiore realismo possibile. Al centro della trama ci sono di solito relazioni contraste, equivoci, dissidi, identità travisate e infine provvidenziali riconoscimenti e riconciliazioni: a tutto ciò sovrintende, regista occulto, Tyche, la Sorte. Pur se al termine delle varie vicende il quadro si ricompone in nome dello happy ending imposto dal genere, le commedie di Menandro ci mostrano come proprio l’amore possa costituire un motivo di turbativa e di inquietudine, perché mette in crisi i rapporti tra le generazioni, porta allo scoperto vuote meschinità e ipocrisie e rischia, in ultima istanza, di alterare gerarchie ed equilibri sociali ben consolidati.
Chi furono i più importanti drammaturghi greci?
Già sul finire del V secolo a.C., come ci testimonia Aristofane nelle Rane, gli Ateniesi avevano decretato l’eccellenza nell’ambito del genere tragico della triade formata da Eschilo, Sofocle ed Euripide. Tre autori molto diversi tra loro.
A Eschilo, attivo nella prima metà del secolo, veniva tributata una sorta di venerazione, come si conveniva a colui che aveva contribuito in modo decisivo a imprimere alla tragedia le caratteristiche che poi le sarebbero state proprie: di lui si ammiravano lo stile solenne e magniloquente, il rigore etico, la profondità del sentimento religioso.
Sofocle ed Euripide furono quasi contemporanei e per lunghi decenni rivali. Sofocle fu senza dubbio il poeta tragico più amato dal pubblico ateniese, come si evince tra l’altro dall’elevatissimo numero di vittorie conseguite negli agoni ai quali partecipò. Nessun altro dei tragici seppe porre al centro dei suoi drammi ed esemplificare con altrettanta maestria ed efficacia il tema della fragilità della condizione umana: la vita dell’uomo, anche di chi non abbia un’indole malvagia, corre su di un filo sottilissimo; le vicende degli eroi della scena ci mostrano come a volte anche un semplice errore di giudizio possa avere conseguenze fatali. E nessun altro dei tragici seppe costruire con altrettanta abilità l’intreccio dei suoi drammi: non senza ragione l’Aristotele della Poetica assume proprio l’Edipo re sofocleo a modello di tragedia perfettamente riuscita.
Euripide in vita non riscosse altrettanto successo: la spregiudicata caratterizzazione di alcuni tra i suoi più famosi personaggi femminili, l’ostentazione di un pensiero permeato di razionalismo e dai più ritenuto pericolosamente vicino a quello dei sofisti, nonché un generale atteggiamento di critica nei confronti della religione tradizionale gli alienarono le simpatie di una larga parte del pubblico, sì da indurlo addirittura – così riferiscono le fonti – a trasferirsi in Macedonia negli ultimi anni della sua vita. Ma proprio gli elementi di novità in un primo tempo meno graditi furono quelli che, già a distanza di pochi decenni dalla sua morte, si vennero affermando nel teatro successivo. Euripide è il più ‘moderno’ tra i tre grandi tragici del V secolo a.C., il più vicino alla nostra sensibilità e anche, dal punto di vista tecnico, il più aperto alle innovazioni; ed è quello che, nel complesso, ha maggiormente influenzato gli sviluppi della drammaturgia occidentale. Non a caso, nel volume che ho curato, a illustrazione dell’influenza che il teatro classico ha esercitato sull’immaginario dei poeti e degli scrittori successivi è stato prescelto, per il gran numero e la varietà delle sue rielaborazioni, il personaggio di Medea.
Per ciò che concerne la commedia emergono due nomi tra tutti: quello di Aristofane per la commedia antica e quello di Menandro per la commedia nuova. Ancora una volta siamo in presenza di un giudizio di eccellenza già esplicitamente sancito dagli antichi. Del resto, se di Aristofane la tradizione medievale ha conservato integre ben undici commedie e se il recupero di numerosi papiri dalle sabbie d’Egitto ci consente oggi di leggere quasi per intero o comunque per ampie porzioni diverse commedie di Menandro, ciò non è frutto del caso: è la testimonianza eloquente del fatto che si trattava di autori i cui testi venivano largamente letti e ricopiati, sia nelle scuole che per uso privato.
Le commedie di Aristofane sono tutte calate all’interno della concreta realtà politica dell’Atene del suo tempo. Aristofane è un autore geniale, ma di difficile approccio per chi non sia un antichista o pretenda di leggere il suo testo senza il sussidio di un ricco apparato di note esegetiche. Il poeta, infatti, attinge all’inesauribile serbatoio di temi, motivi, personaggi, situazioni che la vita della polis gli offre; ma ciò, se da un lato alimenta in modo ininterrotto la sua fervida ispirazione, dall’altro pregiudica il pieno apprezzamento delle sue commedie da parte di chi, lontano da quella realtà o distante nel tempo, non sia direttamente partecipe di quello specifico contesto. A ciò si aggiunge il fatto che molto spesso è arduo rendere in altra lingua gli scintillanti e a volte pungenti giochi di parole con cui il commediografo tinge di comicità le battute dei suoi personaggi. Questi due fattori, sommandosi, non hanno giovato alla sua ‘fortuna’: ciò spiega come mai – Lisistrata a parte: un’eccezione facilmente riconducibile al ruolo che il sesso gioca in questa commedia – sia oggi un autore più studiato e ammirato che non riproposto in teatro.
All’opposto, immensa fu e notevole continua ad essere anche oggi, dopo le importanti scoperte papiracee alle quali accennavamo, la fortuna di Menandro. Una fortuna agevolata dalle caratteristiche stesse delle sue commedie. L’ambientazione ‘borghese’, l’attento studio della psicologia e dell’ethos dei personaggi, l’accurata rappresentazione delle dinamiche interpersonali, la ricchezza di spunti gnomici, la chiarezza della dizione e la semplicità dello stile hanno fatto sì che la commedia menandrea – insieme a quella di altri rappresentanti della commedia nuova – esercitasse un enorme influsso sulla palliata latina e, per questo tramite, gettasse i germi da cui sarebbe poi nata la commedia moderna.
Qual è l’eredità attuale del teatro greco?
Il teatro – ovvero la trasformazione del mero racconto epico in mimesi, con personaggi che agiscono e dialogano sulla scena – fu un’invenzione dei Greci, e il teatro moderno si pone in un rapporto di sostanziale continuità con il teatro antico, a partire dalla terminologia: lo stesso nome “teatro”, ma anche termini come “tragedia”, “commedia”, “dramma”, “scena”, “coro” nascono in Grecia. Allo stesso modo ai Greci dobbiamo l’idea di una scenografia e, almeno a partire dalle commedie di Menandro, la partizione a noi familiare di un dramma in atti. Anche l’alternarsi di recitativo e canto, caratteristico del nostro melodramma, ha un suo preciso precedente già nel teatro d’età classica, con l’alternarsi di parti recitate, parti cantate (non solo canti corali, ma anche arie di un attore e duetti di attori o tra un attore e il coro) e parti rese in parakataloghé, un equivalente del nostro “recitar cantando”. Ma tutto ciò attiene solo al lato formale.
In maniera ben più sostanziale, siamo debitori ai Greci di una originalissima forma di lettura della realtà e di riflessione sulla condizione e sul destino dell’uomo che si concretizza appunto nell’esperienza di uno spettacolo, cioè nella presentazione – non attraverso una narrazione, non attraverso le pagine di un libro, ma con la vividezza e l’impatto emotivo propri di una visualizzazione diretta (i Greci dicevano: prò tòn ommàton tithènai = “porre dinanzi agli occhi”) – di una vicenda a suo modo esemplare e dunque carica di un valore universale, il cui fine è quello di sollecitare lo spettatore a porsi degli interrogativi e a cercare delle risposte. Aristotele ha scritto pagine di ammirevole lucidità sugli effetti perturbanti della tragedia, sui meccanismi di identificazione dello spettatore con i protagonisti della vicenda tragica, sui sentimenti di pietà e terrore che la tragedia era in grado di evocare. Ecco, i Greci hanno non soltanto inventato la tragedia. Di più: essi hanno per la prima volta cercato di esprimere e di teorizzare il senso del ‘tragico’, quel senso del tragico che dai recessi della nostra psiche, dove tendiamo a ricacciarlo, affiora alla nostra coscienza nei momenti più bui della nostra esistenza. Personaggi come Antigone, Edipo, Alcesti, Medea, Fedra, Oreste hanno, da questo punto di vista, un valore archetipico, e ben si comprende come il fascino della potente drammaturgia che li ha resi immortali faccia sì che le tragedie che li vedono protagonisti continuino a essere riproposte ancor oggi sulla scena; ma se ciò avviene – e se il pubblico accorre ancora entusiasta agli spettacoli – è anche e soprattutto perché le domande che quelle tragedie suscitano non hanno una risposta univoca e definitiva e continuano a interpellare ciascuno di noi in modo diverso, a seconda della sua cultura, della sua sensibilità e del suo vissuto. In ciò consiste appunto l’attualità del teatro greco: nella capacità, che non scema con il trascorrere del tempo, di stimolare lo spettatore a riflettere sui grandi temi della propria esistenza e a guardare dentro sé stesso, alla ricerca della propria identità più vera e più profonda.
Massimo Di Marco è professore emerito di Lingua e letteratura greca dell’Università Sapienza di Roma. Si è occupato principalmente di teatro, poesia parodica, satira filosofica, poesia ellenistica, problemi di poetica. È autore, tra l’altro, di Timone di Fliunte. Silli (Roma, 1989); Sapienza italica. Studi su Senofane, Empedocle, Ippone (Roma, 1998); La tragedia greca. Forma gioco scenico, tecniche drammatiche (Roma, 2000 – 20092); Satyriká. Studi sul dramma satiresco (Lecce-Brescia, 2013); Studi su Asclepiade di Samo (Roma, 2013); Tra Apollo e Dioniso. Alle origini del mito di Orfeo (Roma, 2019).