
di Alessandro Barbero
Einaudi
«L’area che attualmente conosciamo come Piemonte, e che s’identifica con i confini amministrativi della regione, non si è sempre chiamata cosí, né piemontesi i suoi abitanti. Non bisogna neppure pensare che sia sempre stata considerata, magari sotto altri nomi, come un’entità geografica unitaria, individuata da confini naturali. Le frontiere attuali del Piemonte non hanno nulla di naturale, ma sono il frutto di una lunga successione di vicende politiche; e anche il suo nome, in uso ormai da ottocento anni, ha ricoperto nel corso dei secoli diverse accezioni prima di applicarsi alla configurazione amministrativa odierna.
Per i Romani, che vi penetrarono da direzioni diverse e lo conquistarono in fasi successive, lungo l’arco di diversi secoli, l’attuale Piemonte non rappresentava in alcun modo una regione unitaria. Dal mare fino al Po si stendeva, a cavallo dei colli appenninici, il paese dei Liguri, mentre al di là del grande fiume e fino ai piedi del massiccio alpino vivevano le popolazioni celtiche della Transpadana; e se oggi questa opposizione, in termini etnici, è rimessa in discussione dagli archeologi, in epoca antica essa diede origine a una duratura ripartizione amministrativa, facendo del corso del Po la linea di confine tra due diverse regioni. Quanto alle vallate alpine, che oggi sentiamo come parte integrante del Piemonte fino allo spartiacque, per gli antichi non erano neppure Italia, ma un avamposto della Gallia. Nel Medioevo, con lo stanziamento dei Longobardi, si affermò l’idea di una Langobardia, contratta più tardi in «Lombardia», estesa dallo sbocco delle valli occidentali fino alla marca Trevigiana, e dunque comprendente anche quello che oggi chiamiamo Piemonte. […]
Il nome del Piemonte appare per la prima volta nel 1193, quando i «castellani di Piemonte» sono menzionati in un accordo fra il comune d’Asti e il marchese di Saluzzo. Il termine entra rapidamente in uso e nel Due-Trecento è conosciuto in tutta Italia. […] Nel 1248 l’imperatore Federico II, che si trova a Casale, data una sua lettera «dal Piemonte», e nello stesso anno nomina il conte Tommaso II di Savoia suo vicario «da Pavia in su», perché, afferma, non gli è possibile restare sempre di persona «in Piemonte». L’area così designata è però sempre considerata parte della Lombardia, e non esiste un’identità piemontese che si possa in qualche modo contrapporre a quella lombarda […].
All’interno dell’ampia area chiamata allora Piemonte si erano però formati, nel Due e Trecento, due organismi politici molto più ristretti, in concorrenza l’uno con l’altro, che tendevano entrambi a definirsi «Piemonte». I conti di Savoia, la cui terra si trovava in gran parte al di là delle Alpi, usavano il termine per designare l’area a ridosso delle montagne in cui stavano espandendo il loro potere: verso la fine del Duecento, il denaro grosso d’argento coniato ad Avigliana per il conte Amedeo V gli dà il titolo di «Pedmontensis». Nel 1295, lo stesso conte dà in appannaggio al nipote Filippo d’Acaia «tutta la terra di Piemonte», espressione con cui naturalmente si deve intendere tutta quella parte del Piemonte che appartiene ai Savoia; nasce così il principato che ufficialmente si chiamerà d’Acaia, ma il cui titolare è talvolta designato informalmente come «principe di Piemonte».
L’altra dominazione che si richiamava al nome di Piemonte era quella degli Angiò, conti di Provenza e poi re di Sicilia, che dal 1259 avevano preso ad allargare la loro dominazione al di qua delle Alpi cuneesi. […] In seguito, però, la dominazione angioina si disgrega e l’unica formazione statale che continui a far riferimento al nome del Piemonte è il principato d’Acaia. Il duca di Savoia Amedeo VIII lo annette nel 1418, dopo la morte dell’ultimo erede, e nel 1424 conferisce al proprio figlio Amedeo il titolo ufficiale di «principe di Piemonte». A partire da questo momento comincia a imporsi un’interpretazione restrittiva del termine, che identifica il Piemonte soltanto con i domini sabaudi al di qua delle Alpi. […]
In Italia, per un po’ di tempo, continua ad aver corso l’accezione originaria, più estensiva: le cronache bolognesi del Quattrocento mettono in Piemonte la Lomellina e il Monferrato, mentre il Guicciardini vi include Novara. Ma i primi segnali di un’identità piemontese distinta da quella lombarda indicano che essa si formò solo nell’area occidentale della regione, nei domini dei duchi di Savoia e in quelli, molto più piccoli, dei marchesi di Saluzzo […]. Non si consideravano più piemontesi, invece, gli Astigiani […]. Risulta quindi confermata la schematizzazione di Rabelais, secondo il quale le prime province che i Francesi incontrano attraversando le Alpi sono «Piedmont, Monferrat, Astisane, Vercelloys».
Il semplificarsi della carta politica fra Cinque e Seicento, con la definitiva inclusione dell’Astigiano nei domini sabaudi, enfatizza l’opposizione fra Piemonte e Monferrato. La cartografia è ormai orientata a identificare il Piemonte con i possedimenti dei Savoia, contrapponendolo al marchesato monferrino ed escludendone i domini milanesi e genovesi […]. Alla lunga, l’insistenza della propaganda sabauda prevarrà, e il Monferrato sarà considerato parte del Piemonte; ma non bisogna dimenticare che ancora nel 1613, quando Carlo Emanuele I l’aveva invaso, la popolazione monferrina era insorta con furia contro i «piemontesi».
Proprio a partire dal Seicento, che Claudio Rosso ha felicemente definito il «secolo della piemontesizzazione», comincia a coagularsi un’identità piemontese in qualche modo già riconoscibile come il nocciolo di quella odierna. […]
Se ai forestieri capita ormai sempre più spesso di chiamare sbrigativamente piemontesi tutti gli abitanti del regno di Sardegna, o almeno della Terraferma, fra i sudditi dei Savoia è però ancora molto forte la percezione che non si possono considerare piemontesi le province strappate nel corso del Settecento allo stato di Milano, quelli che l’amministrazione sabauda continua a chiamare «paesi di nuovo acquisto»: e cioè l’Alessandrino, la Lomellina e la Val Sesia ottenuti da Vittorio Amedeo II, Novara e le valli del Lago Maggiore, Vigevano, Voghera, Tortona e l’Oltrepò pavese, annessi da Carlo Emanuele III. Oggi siamo abituati a considerare alcuni di questi paesi come lombardi e altri come piemontesi, ma è il gioco casuale degli accordi politici che ha determinato in tempi recenti questa opposizione: nel Settecento quelle zone erano tutte potenzialmente destinate a diventare piemontesi – e tutte erano ancora ben lontane dall’esserlo davvero. […]
Si tratta d’altronde di aree dove il dialetto è ancor oggi lombardo, con la Sesia a costituire il limite orientale delle parlate piemontesi (così come la Bormida le separa, approssimativamente, da quelle liguri). […]
Come si vede, se la nostra Storia dovesse limitarsi all’epoca in cui è esistita un’entità geografica, linguistica o politica chiamata Piemonte, e i cui abitanti erano e sono chiamati piemontesi, quella storia non solo comincerebbe piuttosto tardi, ma farebbe comunque fatica ad appoggiarsi su un’area dai confini stabili: quelli attuali risalgono, dopo tutto, ad appena sessant’anni fa, quando venne distaccata dal Piemonte la regione autonoma valdostana. In questo libro è stato dunque inevitabile operare una scelta diversa. Esso racconta la storia della terra che oggi chiamiamo Piemonte e dei popoli che l’hanno abitata, dallo spartiacque alpino e appenninico fino al Ticino, riportando in vita, per quanto è possibile, l’intera stratificazione di vicende storiche e di esperienze umane che qui hanno avuto luogo, ma senza pretendere in alcun modo che quelle vicende si siano collocate in un quadro geografico unitario. L’ambizione è di far sì che chiunque oggi viva in Piemonte possa ritrovare in queste pagine la storia dei luoghi in cui abita, dalle prime tracce di insediamento umano fino all’inizio del III millennio, in continuo confronto con le vicende, non di rado anche molto diverse, di tutte le altre zone che nel tempo si sono poi integrate fino a condividere, oggi, un’unica amministrazione e una stessa identità regionale.»