
Quale evoluzione ha caratterizzato la normativa italiana in materia di diritto d’asilo fino alla legge Martelli?
In netta contraddizione con la norma costituzionale estremamente “inclusiva”, L’Italia aderisce alla c.d. Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato nel 1954 adottando la c.d. “riserva geografica” per cui il riconoscimento dello status di rifugiato è attribuito ai soli individui di provenienza europea. Le ragioni politiche di tale scelta sono innanzitutto di ordine economico. Le autorità italiane, infatti, pur avendo più volte espresso la volontà di ritirare la riserva, la mantengono per diversi decenni con la motivazione che l’Italia è l’unico Paese occidentale a confinare con due aree geografiche da cui provengono esodi di rifugiati: l’Europa dell’est e l’area afro-asiatica. Per il ritiro della “riserva geografica” bisogna aspettare diversi decenni, fino al mutamento dello scenario politico internazionale della fine degli anni Ottanta, caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino da un lato, e dall’avvio del processo di armonizzazione delle politiche europee in materia di immigrazione ed asilo, dall’altro. A questa regia, a cui l’Italia ricorre per tutto il periodo tra la ratifica della Convenzione e l’adozione della c.d. legge Martelli, sono fatte alcune limitate e sporadiche eccezioni, la più famosa delle quali riguarda il caso dei rifugiati cileni.
Quale disciplina ha introdotto la legge Martelli?
La Legge Martelli, la prima norma nazionale in cui viene utilizzata l’espressione “asilo politico”, definisce alcuni aspetti rilevanti sul tema dell’asilo quali, ad esempio, la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. Il problema principale della normativa – destinato ad aggravarsi ulteriormente negli anni successivi – riguarda invece la sostanziale assenza delle misure di accoglienza ed integrazione di richiedenti asilo e rifugiati. Il sistema disegnato ai sensi della legge Martelli viene messo infatti a dura prova fin dall’inizio della sua applicazione, che peraltro coincide con l’inizio dei flussi massicci che accompagnano la crisi albanese del 1991 (e quella del 1997), la guerra civile in Somalia del 1992 e, soprattutto, l’esodo dall’ex-Jugoslavia (1991-1995; 1998-1999).
Come si è evoluta la normativa italiana ed europea tra i primi anni Novanta e il Duemila?
Come già anticipato, le continue ondate di migrazioni forzate, provenienti in particolare dall’area balcanica, destabilizzano il già precario sistema d’asilo definito dalla legge Martelli. Nel caso delle emergenze summenzionate, iniziano ad arrivare in Italia decine di migliaia di persone che, pur non soddisfacendo pienamente i requisiti chiesti dalla Convenzione di Ginevra, sono comunque bisognose di una qualche forma di protezione. Di fronte a queste emergenze, anziché affrontare il problema della mancanza di un vero e proprio sistema d’accoglienza in Italia, i diversi governi preferiscono ricorrere all’emanazione di leggi o decreti ministeriali ad hoc (finalizzati in particolare all’introduzione di uno “status umanitario” di carattere temporaneo), creando delle difficoltà nell’accoglienza e nella tutela dei rifugiati e, più in generale, nella gestione del fenomeno, che continua a gravare quasi esclusivamente sulle zone di arrivo degli stranieri in fuga dal proprio Paese e sulle grandi aree metropolitane. In tale contesto, è il terzo settore, con un approccio “bottom up”, a ricoprire il ruolo cruciale nell’assicurare livelli minimi di accoglienza ed assistenza. Difatti, proprio per colmare le mancanze dell’azione governativa, negli anni Novanta vengono avviati alcuni interventi spontanei d’accoglienza che contengono in nuce quei modelli d’accoglienza che rappresentano la base del c.d. “modello di accoglienza diffusa”, caratteristico dell’attuale sistema italiano.
Quali sono stati i più recenti sviluppi della normativa italiana ed europea in materia di diritto d’asilo?
Sin dall’adozione della Legge 189 (la c.d. Bossi-Fini) nel 2002 le principali novità nel panorama nazionale d’asilo avvengono attraverso il recepimento della legislazione comunitaria (regolamenti e direttive) nell’ambito del processo di costruzione del c.d. “spazio unico europeo” in materia d’asilo. Ai sensi del Trattato di Amsterdam (e secondo il road map definito dalla famosa Conferenza di Tampere del 1999), lo sviluppo del c.d. CEAS – Common European Asylum System (Sistema Europeo Comune di Asilo) avviene peraltro tramite diverse fasi d’attuazione. La prima fase è caratterizzata dall’elaborazione degli standard per l’armonizzazione di una politica europea in materia di asilo basata sull’articolazione dei quattro principi legislativi dell’Unione Europea: l’individuazione dello Stato competente per le domande d’asilo, le condizioni per l’accoglienza dei richiedenti asilo, l’elaborazione di norme minime riguardanti l’attribuzione della qualifica e il contenuto dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria (una nuova forma di protezione internazionale introdotta solo nell’ambito comunitario) e, infine, la definizione di norme minime sulle procedure d’asilo. Nella seconda fase, invece, avviene un ulteriore salto di qualità attraverso la definizione di una procedura comune d’asilo e di uno status uniforme in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea per le persone a cui è stato riconosciuto tale diritto.
Come si articola il sistema nazionale di accoglienza?
A partire dal 2001 in Italia viene costituita una rete articolata di centri di accoglienza – composta sia da quelli allestiti per accogliere chi arriva via mare in condizioni di fortuna, sia da quelli specificatamente rivolti ai richiedenti e titolari della protezione – rispondenti alla fase di primissima, prima e seconda accoglienza, prevedendo, allo stesso tempo, la possibilità di attivazione di “misure straordinarie d’accoglienza” in “strutture temporanee”. Nella prassi, si tratta tuttavia di centri distinti e paralleli tra loro, istituiti su basi giuridiche diverse e spesso neanche coordinate, con standard qualitativi estremamente eterogenei e caratterizzati in genere da una ridotta efficacia ed efficienza a fronte degli alti costi di gestione.
Quali sono i principali aspetti critici della governance del diritto d’asilo?
Il diritto d’asilo e le procedure di riconoscimento dello status di rifugiato sono indubbiamente materie di competenza statale. Tuttavia, nel corso degli anni, gli enti locali e regionali (quest’ultimi, purtroppo, in misura minore) hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nella gestione complessiva del fenomeno, acquisendo nuovi poteri, in particolare negli ambiti dell’accoglienza e dell’integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati. In alcuni casi si è trattato dell’acquisizione di vere e proprie competenze formali, talvolta anche di carattere legislativo. In altri casi tali Enti, pur in mancanza di una esplicita competenza, hanno sviluppato significative buone prassi, in particolare in relazione ai programmi di integrazione sociale dei beneficiari, a partire delle persone che appartengono ai c.d. gruppi vulnerabili. Tuttavia, data l’eterogeneità degli aspetti e degli interventi, s’impone l’esigenza di un forte coordinamento degli interventi, al fine di assicurare una sinergia tra le diverse azioni ed evitare la sovrapposizione di iniziative uguali o simili, oltre che per valorizzare le esperienze positive. A tal fine è indispensabile individuare una specifica struttura pubblica avente funzioni di coordinamento dell’intero sistema (attraverso la creazione di una Agenzia Nazionale sull’Accoglienza ed Integrazione con funzioni simili alla tedesca BAMF).
Quale contraddizione emerge tra le politiche di contrasto all’immigrazione irregolare e quelle di non-refoulement dei rifugiati?
Una delle peculiarità della realtà nazionale dell’asilo consiste per l’Italia nell’essere uno dei Paesi alle frontiere esterne dell’Unione Europea. Infatti, già dai tempi delle emergenze nell’area balcanica, e successivamente con l’intensificarsi dei flussi dall’area mediorientale, ed in particolare dall’Africa, l’Italia deve affrontare un flusso migratorio intenso e di diverse origini. La principale caratteristica di questi ultimi flussi migratori consiste nella loro composizione “mista”, ovvero nell’essere composti sia dai potenziali richiedenti/titolari della protezione che dai migranti irregolari. Mentre per quanto riguarda il flusso dei secondi, l’Italia, in virtù non solo della legislazione nazionale ma anche di quella europea, deve adottare le politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, per quanto riguarda i primi, in virtù della legislazione internazionale, europea e nazionale sull’asilo, deve essere assicurata la piena applicazione del principio di non-refoulement.
Quali sono i limiti di governance istituzionale degli aspetti relativi all’accoglienza e all’integrazione?
Pur tenendo conto delle differenze territoriali e delle differenze tra i singoli circuiti di accoglienza, gli interventi nel settore mancano spesso di una strategia uniforme e di un approccio “olistico” al fenomeno, con il rischio di avere come risultato solo l’aumento dei posti in accoglienza o addirittura un semplice protrarsi del periodo di permanenza nei centri. Già prima dell’attuale “fase”, i fenomeni di disagio e di emarginazione sociale che interessano i rifugiati – dopo che gli stessi siano stati ospitati per lunghi periodi di tempo nei circuiti di prima e seconda accoglienza – sono diventati la norma, in particolare nelle principali aree urbane. In altre parole, l’accoglienza – nelle sue varianti di buona fede (caratterizzata anche da esaltazioni sullo “spirito d’accoglienza”, concetto peraltro di difficile traduzione in altre lingue) e di cattiva fede, non sembra essere impostata all’accompagnamento (accueil) e all’integrazione ma troppo spesso risulta fine a se stessa, quando non legata (anche se prolungata nel tempo) agli aspetti di “soccorso”, e talvolta di puro business. Di conseguenza, lo Stato italiano spende ormai da molti anni diversi miliardi di euro per un intervento che non porta alcun beneficio concreto ai titolari della protezione ai fini di una vera integrazione, ma che rappresenta semplicemente un “ponte” verso una successiva situazione di disagio sociale. Peraltro, la mancata integrazione dei titolari della protezione non solo produce effetti negativi su loro stessi, ma ha anche ripercussioni sui territori sia sotto il profilo della sicurezza urbana che sotto il profilo della coesione sociale tra la popolazione straniera e quella autoctona.
Quali interventi sarebbero a Suo avviso necessari per rispondere alle sfide dell’attuale situazione internazionale?
Va premesso innanzitutto che, nonostante gli indubbi e numerosi progressi di carattere organizzativo e normativo, il completamento del sistema nazionale d’asilo si può considerare tutt’altro che compiuto. A più di trent’anni dalla prima legge nazionale in materia e a vent’anni dall’avvio del primo dispositivo nazionale d’accoglienza, protezione e integrazione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia, sarebbe opportuno avviare una seria e profonda riflessione sul funzionamento dell’intero sistema nazionale, al fine di renderlo pienamente efficace e funzionale, sia in termini organizzativi, che in termini di creazione di processi virtuosi di accoglienza, finalizzati in particolare alla piena integrazione dei titolari di protezione internazionale (come già detto, la risposta delle autorità nazionali e locali alla crescita del fenomeno ha portato finora prevalentemente – per non dire esclusivamente – al costante aumento della complessiva capacità ricettiva o addirittura un semplice protrarsi del periodo di permanenza nei centri, con una spiccata attitudine “assistenziale”). Inoltre, permane Il problema della frammentarietà e della parzialità del dispositivo normativo e amministrativo in vigore che dovrebbe essere affrontato mediante l’adozione di un Testo Unico in materia d’asilo che raccolga le disposizioni presenti nei diversi testi legislativi attualmente in vigore. Allo stesso tempo tuttavia, è indispensabile una politica lungimirante e costante di cooperazione e internazionalizzazione nei confronti dei paesi interessati principalmente da un flusso di emigrazione economica, “accompagnata” con la decisa riapertura dei canali di migrazione di manodopera (e studio) regolari. Infatti, è oltremodo necessaria una discussione schietta su alcuni paradigmi e “totem” nelle politiche dell’UE in materia di asilo e immigrazione. Attualmente, la principale modalità di arrivo dei cittadini dalla maggior parte dei paesi del Medio Oriente e dei paesi africani nell’UE passa attraverso arrivi irregolari e, di conseguenza, presentazione di una domanda di asilo. La maggior parte di loro, tuttavia, non ottiene la protezione internazionale e, nel frattempo, permane nei centri di accoglienza per anni e, alla fine, a causa dell’incapacità degli Stati dell’UE di rimpatriare coloro che non hanno il diritto di rimanere, rimangono irregolarmente. Non sarebbe quindi meglio far arrivare alcuni (o molti, in base alle esigenze) attraverso canali di migrazione regolari e supportare gli altri attraverso iniziative di cooperazione allo sviluppo?
Nadan Petrovic, studioso di Storia delle Istituzioni, insegna all’Università La Sapienza di Roma. In parallelo all’attività accademica, ha ricoperto gli incarichi di Direttore del Servizio Centrale SPRAR, di consulente del Ministero dell’Interno, di dirigente ed esperto della Presidenza del Consiglio dei Ministri nonché di funzionario delle Nazioni Unite. È autore di Storia del diritto d’asilo in Italia 1945-2020, Franco Angeli, 2020; Basta accogliere? Politiche d’integrazione tra soft law e best practices (Franco Angeli, 2018) e numerosi altri scritti in materia.