“Storia del debito pubblico in Italia. Dall’Unità a oggi” di Alessandro Volpi e Leonida Tedoldi

Prof. Alessandro Volpi, Lei è autore con Leonida Tedoldi del libro Storia del debito pubblico in Italia. Dall’Unità a oggi edito da Laterza. Il debito pubblico italiano ammonta attualmente ad oltre 2.600 miliardi di euro, una cifra spropositata: come ha potuto crescere così tanto?
Storia del debito pubblico in Italia. Dall'Unità a oggi, Alessandro Volpi, Leonida TedoldiNella storia italiana il debito pubblico, a più riprese, è servito a finanziare la spesa pubblica nei momenti in cui è cresciuta molto evitando di ricorrere alla leva fiscale. In altre parole, i governi che si sono succeduti, già dagli anni della Destra storica, fino all’età giolittiana e poi durante il fascismo e nel dopoguerra repubblicano hanno preferito fare ricorso al debito piuttosto che varare vere e proprie riforme del sistema fiscale o limitare la spesa, sia quella per gli investimenti sia quella corrente. Non è certo un caso in tal senso che il mercato finanziario italiano sia nato con l’obiettivo primario di trovare compratori dei fondamentali titoli del debito pubblico.

Quando nasce il debito pubblico italiano?
Il debito nasce già nel 1861, all’indomani dell’Unità d’Italia, quando il neonato Regno deve riconoscere i debiti degli Stati Preunitari. Si tratta di una scelta “obbligata” perché tali debiti erano stati contratti in larga prevalenza con le grandi banche francesi ed inglesi, legate a Napoleone III e alla politica britannica che erano state decisive nel sostenere il Regno di Sardegna di Cavour e Vittorio Emanuele II contro gli Asburgo. Inoltre, era evidente da subito che lo Stato italiano avrebbe avuto bisogno di fare ulteriore debito e, dunque, se non avesse riconosciuto i debiti pregressi non avrebbe più trovato chi sarebbe stato disposto a finanziarlo.

Di chi sono le responsabilità di una tale crescita?
Le responsabilità sono molteplici perché, come accennato, la scelta di ricorrere al debito fu largamente condivisa dalle diverse classi dirigenti che si sono succedute alla guida del paese. Certo, in alcuni momenti il ricorso al debito è stato maggiore; in particolare durante i conflitti per sostenere la spesa bellica e, poi, a partire dall’inizio degli anni Ottanta quando dell’utilizzo dell’indebitamento si è largamente abusato, senza tener conto del rapido aumento del costo degli interessi determinato dalla liberalizzazione dei flussi di capitale. Se, infatti, fino agli anni Ottanta, con i vincoli allo spostamento dei capitali e con la possibilità per la Banca d’Italia di comprare i titoli del debito pubblico, i tassi di interesse da pagare per il loro collocamento erano molto bassi, dopo il famoso “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro e, soprattutto, dopo la piena libertà di circolazione dei capitali tali tassi sono rapidamente schizzati a due cifre per fare concorrenza ai titoli del Tesoro degli Stati Uniti. Da allora fino all’arrivo dell’euro, il costo del debito secondario, degli interessi, ha fatto esplodere il debito portandolo sopra il 100% del Pil.

Quali vicende ne hanno maggiormente determinato l’andamento?
Come accennato, sulla crescita del debito hanno pesato prima le spese per il processo di unificazione, dalle guerre alle infrastrutture, poi l’intervento pubblico nell’economia e le grandi riforme, dall’istruzione alla sanità, fino al finanziamento della spesa corrente: decisivo, rispetto a tale andamento, è sempre stato il costo del collocamento del debito che è stato alto nei primi decenni post unitari, poi si è decisamente “raffreddato” negli anni giolittiani grazie alle rimesse degli emigranti, per tornare a salire con il fascismo e a scendere nel periodo del miracolo economico. Con gli anni Ottanta, tale costo è diventato insostenibile e ha contribuito a spingere l’Italia all’adesione alla moneta unica proprio per pagare un conto interessi meno salato.

Quale giudizio si può dare della gestione del debito pubblico dall’Unità a oggi?
Si tratta di un giudizio articolato. Fino alla prima guerra mondiale si può parlare di una linea politica comprensibile: lo Stato italiano era debole, non aveva un largo consenso e non avrebbe retto una politica fiscale ancora più dura. Inoltre la spesa pubblica era davvero necessaria per costruire il paese e una nozione di cittadinanza condivisa. La prima guerra mondiale è stata costosissima in termini di debito, ma il largo ricorso ai prestiti degli alleati, di fatto mai restituiti, ha reso tale debito più sostenibile. Il fascismo, con la politica di Quota Novanta, che definiva una parità di cambio lira-sterlina irreale, si è praticamente messo fuori dal mercato finanziario internazionale, obbligando il regime a procedere ad una serie di prestiti e di consolidamenti forzosi, giustificati in chiave “patriottica”. Dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta, poi, il debito non è stato un problema, mentre da quel decennio è diventato uno dei temi principali del nostro paese, insieme alla bassa crescita. La gestione del debito fino alla metà degli anni Novanta è stata “allegra” per diventare poi più rigorosa con i governi tecnici e per risultare altalenante dopo l’ingresso nella moneta unica, allorché la contrazione del costo del collocamento avrebbe dovuto favorire una reale riduzione dell’indebitamento complessivo che, in realtà, ci fu solo in parte.

Quali conseguenze ha prodotto sulla politica e sulla società il peso di un tale debito?
In termini politici, il debito è stato, storicamente, lo strumento di acquisizione del consenso a cui i partiti hanno fatto largo ricorso, incentivando, in diversi momenti, una deresponsabilizzazione del paese, che si è abituato a ritenere legittima una spesa pubblica senza limiti.

Quale futuro, a Suo avviso, per il nostro debito pubblico?
La pandemia ha cambiato, in profondità, il ruolo e il peso del debito pubblico, non solo in Italia. Il 2020 è stato il primo anno in cui, nel mondo, il debito pubblico ha superato il 100% del Pil. Nel nostro paese è cresciuto di oltre venti punti percentuali e nel 2021 crescerà ulteriormente: ciò dipende in larga misura dal fatto che lo Stato spenderà in due anni, senza contare i fondi europei, oltre 250 miliardi di euro, di cui oltre la metà costituiti da nuovo debito. È evidente che in tale situazione non è immaginabile pensare ad una rapida riduzione di una simile massa debitoria che, dunque, dovrà essere resa sostenibile, in primis, attraverso il mantenimento di tassi d’interesse bassi. Ciò dipenderà dalla Banca Centrale Europea che dovrà continuare nella attuale politica espansiva, magari spingendosi fino ad una parziale “monetizzazione” del debito, e dalla capacità del debito italiano di attrarre il vasto risparmio privato degli italiani. Certo, non sarà più in alcun modo concepibile tornare ai parametri europei fissati a Maastricht e con il fiscal compact che appartengono ad un’era, sideralmente, distante.

Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di storia economica e culturale dell’Ottocento e del Novecento con particolare attenzione alle tematiche finanziarie. Su questi temi ha pubblicato nel 2019 Perché non possiamo fare a meno dell’Europa. Contro la retorica anti-euro di sovranisti e populisti (Milano, Altreconomia)

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