
Assieme ai primi, i cosiddetti pionieri, uomini soli che si recavano in America a cercar fortuna, si susseguirono migrazioni secondo i meccanismi della catena migratoria, familiare, locale e di mestiere Si raggiungevano i primi emigrati, grazie anche alle notizie ricevute attraverso le lettere inviate dall’America.
Come si è articolato il processo di integrazione degli italiani in America?
All’epoca della grande immigrazione l’anticattolicesimo, lo stigma della povertà e delle condizioni di vita degradate segnarono i rapporti con gli americani. Ma alla fine della Seconda guerra mondiale gli italoamericani sembravano ormai sulla strada di una buona integrazione. Dopo le difficili fasi iniziali della guerra, combattendo nell’esercito statunitense, avevano dimostrato di essere buoni cittadini. Dal punto di vista socioeconomico erano entrati a far parte della classe media. Il clima della guerra fredda sembrò rafforzare la loro identità americana attraverso la completa assimilazione alla cultura WASP. Sull’onda della lotta per i diritti civili della popolazione afroamericana, assieme alle altre minoranze etniche bianche di origine europea, furono in grado di sentirsi americani senza dovere rinnegare le proprie origini: anzi, rifiutarono il melting pot e si riavvicinarono alla cultura italiana. Con il revival dell’ethnicity cominciarono così a studiare la storia italiana, svilupparono una ricca produzione cinematografica e letteraria e moltiplicarono le esperienze associative. Ma solo negli anni Ottanta gli italoamericani finalmente potettero dire di avercela fatta secondo i principali media del Paese, come scrive William Connell nell’introduzione: nel 1983, il «New York Times» pubblicò un articolo dal titolo Italian-Americans Coming Into Their Own. L’articolo citava numerosi casi di persone di origine italiana che ricoprivano ruoli di leadership in politica, cultura e affari – il Governatore di New York Mario Cuomo, il Manager dei Dodgers di Los Angeles Tommy Lasorda, l’architetto Robert Venturi, la deputata Geraldine Ferraro, il coreografo Michael Bennett, il giudice della Corte distrettuale degli Stati Uniti John Sirica, il cardinale Joseph Bernardin di Chicago e la presidente della National Organization for Women Eleanor Cutri Smeal – come prova che gli italoamericani stavano raggiungendo il successo in ogni campo. Il Governatore Cuomo era considerato un probabile candidato per la presidenza. Nel 1986, Antonin Scalia divenne il primo italoamericano nominato alla Corte Suprema.
In che modo discriminazioni e pregiudizi hanno segnato la storia degli italoamericani?
Occorre dire che certi stereotipi anti-italiani erano radicati nella cultura anglofona sin dal Cinquecento. Oltre all’anticattolicesimo si aveva la visione di una società italiana segnata da corruzione, violenza, sensualità e pigrizia. All’inizio dell’immigrazione di massa, negli anni 1870-1880, fra i primi a protestare furono gli italiani già presenti, quasi tutti di origine settentrionale, che lamentavano l’arrivo di connazionali meridionali. Nel Sud, in uno stato come il Louisiana, molti siciliani furono impiegati in lavori prima appannaggio degli schiavi afroamericani, e furono vittime di episodi di violenza e linciaggio. Negli anni Venti i leader del Partito Democratico iniziarono a indirizzare i voti degli abitanti delle little Italy, dando adito a un lento processo di assimilazione che ebbe come risultato l’affermazione di alcuni politici italoamericani come Fiorella LaGuardia, il sindaco di New York negli anni Trenta.
In che modo il crimine organizzato ha segnato la storia della comunità italoamericana?
Già nel periodo del Proibizionismo Al Capone e i crimini compiuti dai mafiosi erano noti, ma lo stereotipo della «mafia» – cioè il pregiudizio che tende ad associare tutti gli italoamericani alla criminalità organizzata – si sedimentò anche attraverso il diffondersi della televisione che trasmise una serie di indagini del Congresso sulla malavita: furono le prime trasmissioni che raggiunsero un grande pubblico
Diversi anni fa lo storico Rudolph Vecoli aveva ben sintetizzato il rapporto tra immaginario e pregiudizio anti-italiano: «I crimini della mano nera e il ruolo di primo piano ricoperto dagli italo-americani nella guerra fra gang negli anni Venti entrarono nell’immaginario attraverso Hollywood: a partire da Little Caesar del 1931 seguì una sequela di film in cui apparivano malviventi italiani. Paradossalmente, un’esplosione di talenti cinematografici italoamericani tendeva ad amplificare, piuttosto che appannare, il tema cinematografico della criminalità italiana. Registi e attori, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Robert DeNiro, Al Pacino, Sylvester Stallone e John Travolta, crearono un’immagine degli italo-americani efficace, ma spesso spiacevole. Comunque, il ritratto più forte e influente dell’ “esperienza italiana di immigrazione” sia come libro che come film è stata The Godfather. Lo scrittore Mario Puzo e il regista Francis Ford Coppola trasformarono il trito tema del crimine organizzato italiano nell’epica della famiglia Corleone. Questo elogio della via vecchia, nel quale l’autorità patriarcale, la lealtà personale e la pietà filiale creavano ordine e giustizia.»
La parte militante della comunità italoamericana reagì denunciando il trattamento negativo riservatole dai media, giungendo talvolta ad attaccare popolari serial televisivi come i Sopranos o episodi dei Simpson – giacché era toccato alla televisione rinverdire gli stereotipi negativi come illustra Anthony Tamburri nel volume.
Quando e come avviene la trasformazione del ghetto in Little Italy?
Nei saggi dedicati a questo argomento nel libro, emerge l’estrema versatilità delle Little Italy, indubbiamente, l’immagine di ghetto è legata al giornalismo di denuncia dell’era progressista e alla fotografia sociale di Jacob Riis dei quartieri italiani di New York di fine Ottocento che ne testimoniavano il degrado, ma allora gli abitanti non le chiamavano certo così, semmai Piccola Palermo o Piccola Italia. Jerome Krase ha ricostruito come nell’arco di un secolo e mezzo in tutti gli Stati Uniti si sono formati e svuotati della loro popolazione etnica centinaia di quartieri italiani a partire. Oggi quel che resta delle little Italy sta vivendo una nuova primavera, con caffè e ristoranti, edifici ristrutturati. Come osserva Susanna Garroni occorre “disancorare la categoria di little Italy dalla dimensione spaziale, geografica e considerare le little Italy come reti di relazioni, identificarne nodi ed estensioni, piuttosto che pensarle come comunità o quartieri”.
Che rapporti hanno intrattenuto gli italoamericani con la politica statunitense?
Direi sempre molto forti. Agli inizi parteciparono attivamente alla vita politica e al movimento operaio statunitense all’interno di sindacati e società di mutuo soccorso etniche, e già dagli anni Trenta del Novecento, come fa notare Marcella Bencivenni, gli italoamericani non rappresentavano più un movimento operaio italiano distinto: erano entrati a far parte della multietnica classe lavoratrice americana. A partire dagli anni Trenta, come descrive Stefano Luconi, si sono impegnati nella politica americana su due piani: da un lato si sono registrati nelle liste dei votanti, sono andati ai seggi il giorno delle elezioni, si sono candidati alle cariche pubbliche, hanno ricoperto mandati legislativi ed esecutivi a livello federale, statale e locale e hanno dato il loro contribuito a definire le scelte politiche del Paese d’adozione. Dall’altro, hanno sfruttato la propria influenza elettorale e si sono mobilitati come gruppo di pressione per cercare di indurre il governo di Washington e il Congresso a svolgere una politica estera che fosse funzionale agli interessi e alle rivendicazioni dell’Italia.
Quali tratti costituiscono l’identità italoamericana contemporanea?
In senso antropologico culturale, la lealtà verso la famiglia e verso il proprio gruppo, che si contrappone all’individualismo sfrenato. Questo tratto secondo alcuni autori ha costituito un approccio più morbido ed equanime alla vita americana, secondo altri, come Mary Jo Bona, Fred Gardaphè, George De Stefano ha anche rappresentato una gabbia da cui fuggire per poter crescere come persone.
Qual è oggi il ruolo e l’importanza dei diciassette milioni di cittadini americani di origine italiana?
Dipende da quali campi si esaminano. In alcuni saggi del libro viene sottolineato l’importante contributo alla cultura, alla cucina, alla musica, e naturalmente al cinema e alla politica, come abbiamo visto. Connell ricorda Benjamin Civiletti, procuratore generale degli Stati Uniti nell’amministrazione Carter, che ha indicato un tratto del loro carattere: «Gli italo-americani non esitano a intraprendere attività lavorative particolarmente dure. Ciò conferisce loro non solo una varietà di punti di vista e una buona salute mentale, ma anche la capacità di sopportare e affrontare i problemi».
Anche quando hanno cambiato o americanizzato i loro cognomi, i demografi hanno documentato oggi una netta preferenza verso l’autoidentificazione delle ascendenze italiane.
Maddalena Tirabassi è il direttore del Centro Altreitalie sulle Migrazioni Italiane, Globus et Locus, della rivista Altreitalie. È stata Fulbright, nel consiglio consultivo del MEI (Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana, Ministero degli Esteri), consulente per la mostra “Fare Gli Italiani”, docente di letteratura angloamericana presso l’Università di Teramo, vice presidente del AEMI (European Emigration Intitutions). Tra le sue pubblicazioni: Storia e storie delle migrazioni italiana dall’Ancien régime a oggi (con Patrizia Audenino, 2008); I motori della memoria. Le piemontesi in Argentina, (2010); La meglio Italia. Le mobilità italiane nel XXI secolo (con Alvise Del Pra’, 2014); Famiglie transnazionali dell’Italia che emigra. Costi e opportunità (con Valeria Bonatti, Alvise Del Pra’, Brunella Rallo, 2019).
William J. Connell è professore di Storia e titolare della cattedra «Joseph and Geraldine La Motta» di Studi italiani presso la Seton Hall University. È curatore con Fred Gardaphé di L’anti-italianismo negli Stati Uniti. Evoluzione di un pregiudizio (2019).
Stanislao G. Pugliese è professore di Storia e titolare della cattedra «Queensboro UNICO» di Italian and Italian American Studies presso la Hofstra University. Con Pellegrino D’Acierno ha curato Delirious Naples: A Cultural History of the City of the Sun (2018).