
La canzone italiana è sicuramente un genere musicale, dato che una comunità – nello specifico, “noi italiani” – la riconosce come tale: per banalizzare, esistono “le canzoni”, ed esiste “la canzone italiana”, la cui identità va oltre il semplice fatto di essere cantata in italiano e prodotta in Italia. È facile, nel senso comune, verificare come esistano canzoni che sono “più italiane” di altre – per esempio, chiunque potrebbe affermare che “Felicità” di Al Bano e Romina, o un brano di Claudio Villa, siano “più italiani” di – per dire – “Via con me” di Paolo Conte, o di una canzone di Ligabue. Questo avviene non per un elemento “etnico”, assolutamente, ma perché ci sono delle caratteristiche che, nel tempo, si sono codificate come “italiane”, e fanno parte del modo in cui la comunità nazionale immagina se stessa.
Quali elementi caratterizzano la canzone italiana?
La canzone italiana, da quando “esiste” come tale, è stata associata con diversi stereotipi: la melodia, la leggerezza… – e, in negativo, il disimpegno, il cattivo gusto. Anche per questa compresenza di stereotipi positivi e negativi la canzone è diventata uno dei simboli dell’italianità.
Quando e come nasce il genere della canzone italiana?
Ovviamente si canta in italiano almeno da quando esiste la lingua italiana (e non è facile decidere da quando ciò avvenga, vista la complessa storia politica della penisola). La canzone italiana come la conosciamo oggi, tuttavia, è un costrutto culturale che si è definito a cavallo tra gli anni del Fascismo e il primo decennio del Dopoguerra: è in questo trentennio – che vede la nascita della radiofonia e del cinema sonoro nel nostro paese, e lo sviluppo di una cultura di massa – che si definiscono quegli elementi che ancora oggi sono al centro dell’idea di “canzone italiana”.
Qual è stato il ruolo del Festival di Sanremo nell’evoluzione e nella diffusione della canzone italiana?
Sanremo ha di fatto “inventato” la canzone italiana così come la conosciamo: fin dalla prima edizione, nel 1951, Sanremo ha proposto una interpretazione nostalgica e passatista della canzone italiana, vagheggiando un suo passato “mitico” che – in realtà – non è mai esistito come tale. È intorno al Festival, nato dalle politiche della Rai, in piena continuità con quelle dell’Eiar prima della guerra, che si è definita quell’idea di canzone che ci è ancora oggi familiare.
Quali diverse estetiche hanno caratterizzato la storia della canzone italiana? E qual è stata l’importanza dei cantautori?
In una prospettiva di storia culturale, i cantautori italiani, a partire dai primi anni sessanta, hanno segnato il momento in cui la canzone italiana ha ambìto a farsi arte, importando nella popular music una serie di strategie e di estetiche che erano della letteratura e della poesia. Con i cantautori si può avere per la prima volta, a livello di massa, una canzone che prescinda programmaticamente dalla sola funzione di intrattenimento, una canzone “da ascoltare”, e con attenzione.
Che rapporto è esistito tra intellettuali e canzone?
Per tutti gli anni cinquanta e buona parte dei sessanta, i rapporti tra intellettuali e canzone sono pressoché nulli. Quando ci sono, gli intellettuali si limitano a deprecare il basso livello della canzone, disprezzando insieme a essa anche il popolo che la fruisce e la apprezza – un paradosso, se si pensa a come la cultura di sinistra nel dopoguerra abbia saputo farsi portavoce di un grande programma di ripensamento delle arti. Semplicemente, in quel momento la canzone non era arte, non nel modo in cui lo erano il cinema, il teatro o la letteratura. Allo stesso tempo, è proprio grazie alle teorizzazioni di alcuni intellettuali “eretici” – Umberto Eco, per esempio – che la canzone ha trovato delle possibili vie per diventare qualcosa di diverso, superando la sola dimensione dell’intrattenimento.
In che modo la storia della canzone italiana si è legata a quella del Paese?
Si comprende la storia della canzone italiana soltanto in rapporto alla storia italiana tout court, ma è bene non postulare un qualche rapporto di rispecchiamento: la canzone non “rispecchia” la società in cui esiste. Casomai, esiste in stretto rapporto con la cultura in cui viene creata e fruita, e contribuisce essa stessa a modificare quella cultura.
Quale futuro per la canzone italiana?
Nel percorso che copre il libro – dal Fascismo agli ultimi decenni del Novecento – la canzone italiana è passata da sottoprodotto buono appena per intrattenere o per ballare a forma d’arte più o meno riconosciuta, a meccanismo di identificazione generazionale, a strumento di lotta politica e veicolo di contenuti “alti”. Dopo la crisi della fine degli anni settanta e il cosiddetto riflusso, la canzone è stata tutte queste cose insieme, e tale è ancora oggi. Negli ultimi anni, mi sembra, prevale una interpretazione nostalgica della canzone, un avvitamento retromaniaco che porta a rileggere le stesse idee e gli stessi suoni. Anche se si intravedono fermenti interessanti – per esempio, la trap – che sembrano delineare una spinta verso il nuovo che mancava da un po’.