
In che modo Leviatano e Behemoth rientrarono, all’inizio delle modernità, nel discorso filosofico?
Questo lavoro, maturato nel corso dei miei tre anni di dottorato di ricerca, era dedicato sin dall’inizio al tema della metafora animale e al suo uso nella politica contemporanea ed è da qui che nasce e si concretizza la mia riflessione sui mostri e sulle mostruosità, compresi all’interno di quella che viene definita tradizione teratologica, che rende conto della presenza dei mostri nel dibattito filosofico e nelle discipline limitrofe. Leviatano e Behemoth sono portenti il cui valore centrale risiede nello spaventoso e nell’inquietante: essi esibiscono un profondo contrasto tra razionalismo e sentimento religioso. Ma è qui, all’inizio della modernità, che i due mostri, prodotti della tradizione giudaico-cistiana, mutano prospettiva presentandosi come metafore in campo politico, metafore della trascendenza del potere politico che deve comunque apparire all’interno dell’ordine mondano. Il mostro è colui che si mostra, ma è anche colui che al contempo nasconde la sua vera natura, per rivelarla come metafora che potremmo definire con Blumenberg, “assoluta” (Paradigmi per una metaforologia, 1960), una riflessione sull’inconcettualità. Ogni metafora assoluta costituisce un passaggio della riflessione: si passa da un oggetto logicamente concreto, intuibile, ad uno del tutto diverso. Le metafore assolute sono “irriducibili”, non hanno forma concettuale e, in seguito, Blumenberg le definirà Weltbilder, costruttrici di mondo, perché e in quanto ci riguardano da vicino. I mostri che presento incarnano squisite metafore politiche, metafore che riguardano il potere, la suggestione, simboli della nostra cultura. Ogni qualvolta ci avviciniamo alle grandi domande sull’esistenza o ci riferiamo alle totalità, non troviamo più concetti, ma metafore che il pensiero concettuale tenta di definire. Il lavoro del filosofo è proprio quello di dar forma alla metafora, di elaborare il mito.
Il mostro acquatico, Leviatano, non appartiene ad alcuna specie nota, è il mostro immaginato in maniera sovversiva e politicizzata, chiamato a rappresentare un ordine politico privo di qualsivoglia naturalezza. Il mostro tellurico, Behemoth, non solo domina l’elemento a noi più familiare, ma nel pensiero politico classico è chiamato a rappresentare la società in subbuglio, il disordine sociale che investe le funzioni, i ruoli, le gerarchie in cui si pretende che la società debba esser irregimentata.
Dunque, i mostri diventano filosoficamente pregnanti nel momento in cui incarnano e rappresentano una metafora politica: è necessario rilevare il modo in cui certe figure, certe immagini, si rendono capaci di attraversare il tempo, di farsi luogo di conoscenza, di trasformarsi per rivelare nuovi messaggi e nuovi concetti del potere. Sono le metafore ad accompagnare da sempre l’evoluzione della civiltà politica, interrogandoci su temi come tecnica, sovranità e potere.
Quali metafore di carattere politico hanno quindi assunto?
Leviatano e Behemoth, queste figure mostruose, sono spesso utilizzate, come scrive Foucault, per rappresentare il carattere spaventoso del potere o lo stato caotico della stasis o della crisi politica.
Il mostro acquatico per eccellenza, il Leviatano incarna una metafora squisitamente politica: è lo Stato, o meglio, rappresenta il potere coattivo dello Stato, è il mostro simbolo dell’unità politica trasfigurato in un gigantesco sovrano. Behemoth rientra nello stesso schema, è il mostro che rappresenta l’Anti Stato, il pluralismo conflittuale, ovvero tutti quei poteri contrari che minano la stabilità dello Stato costituito. Dunque, i due mostri sovrumani incarnano rispettivamente il potere costrittivo della macchina statale e la moltitudine caotica e disordinata della guerra civile. Il Leviatano è colui che ha il compito di garantire sicurezza all’intera comunità politica, metafora di uno Stato che si presenta unito e massiccio e che tutto assorbe e ingloba. Behemoth è invece chiamato a rappresentare, nel pensiero politico classico, la società in subbuglio. È all’interno di questa “mostruosa” confusione tra potere e anarchia, società e natura, riflessione teorica e metafora ideologica, che ci allontaniamo dal mostro della teratologia, dal regno dell’involontario incontrollato spesso legato a cause sconosciute, ai capricci del caso nei quali l’abnormità della sovversione non si discosta solo dalla norma istituita, ma si occupa di sostituirla con una diversa dimensione dinamica della società.
Ci troviamo di fronte ad una seconda natura nella quale riconosciamo alla mostruosità una vera e propria “eccedenza di potenza”, eccedenza di possibilità, o meglio, possesso manifesto di capacità di sviluppo di potenze che conducono inevitabilmente all’annientamento dei limiti, dei confini, della presa d’atto radicalmente contingente di ogni normalità/normatività.
Come si è sviluppata la trattazione e la concettualizzazione dei due mostri nelle narrazioni di cui sono stati oggetto?
All’interno del volume ho tentato di ripercorrere le varie rielaborazioni filosofico-politiche dei due mostri nel corso dei secoli e nelle molteplici narrazioni di cui sono stato oggetto: un’ampia panoramica circa alcune delle figure più note e controverse di mostro teologico-filosofico, dove l’intreccio tra ambito religioso e riflessione filosofico-politica viene continuamente riproposto e sottolineato dallo stesso uso politico di queste figure in alcuni snodi cruciali della filosofia politica europea, soprattutto nelle ricezioni teoriche di Thomas Hobbes e Carl Schmitt. Nel 1651, Hobbes scelse di tradurre visualmente le metafore classiche della letteratura politica celebrando il mondo sociale e lo Stato come un enorme corpo, testando l’importanza della soluzione figurativa e rappresentando il Leviatano in tutto il suo potere di fascinazione, tentando così di rendere manifesto un concetto che apparentemente risulta privo di opacità come lo Sato, ma che dovrebbe esser svelato e decodificato. Il mio intento è mostrare come il frontespizio del Leviatano di Hobbes rappresenti un’immagine unica: una delle più famose immagini della letteratura filosofica, votata ad esprimere una vera e propria teoria dello Stato (da qui sorge anche l’interesse per gli studi “ottici” condotti da Hobbes, solitamente poco frequentati). L’enorme gigante composto, che si erge dietro la città deserta, rappresenta una metafora radicata nell’esperienza che offre quel rapporto complesso tra passato e futuro e che esprime un’immagine del fluire del tempo. Attraverso le immagini del frontespizio, Hobbes tenta di rendere concreto il suo Leviatano e con esso tutta la sua teoria politica sulla formazione del Commonwealth. Nel 1670 fu stampato per la prima volta il Behemoth, l’opera di Hobbes sulla guerra civile inglese. Il termine “Behemoth” etimologicamente, è il plurale intensivo della parola “Behemah” che porta il significato generico di “Bestia”. Si ha l’impressione che l’intento dell’autore sia stato quello di contrapporre l’unità rappresentata dal Leviatano, all’aggregazione di mostri o bestie rappresentato dal plurale intensivo che caratterizza il nome Behemoth. Il testo si occupa della guerra civile inglese e la circostanza della sua stesura e pubblicazione (inizialmente vietata dal re Carlo II) richiamano l’attenzione su tutti quegli avvenimenti che nel corso del Seicento sono sembrati rendere attuale la costruzione teorica di un evento ormai superato.
Per quanto riguarda Carl Schmitt, è importante ricordare che il suo interesse per gli elementi ed in particolare per quello marino e quello terrestre, nasce negli anni Quaranta del Novecento. Schmitt lavora sul tema della sostanziale differenza tra ciò che considera due elementi contrapposti, terra e mare, il che conseguentemente lo porterà ad interessarsi ai due mostri biblici. Il rapporto tra Schmitt e Hobbes si configura principalmente nei saggi del 1938. Nell’analisi dei due mostri condotta da Schmitt è necessario, prima di tutto, rintracciare l’antefatto filosofico: la differenza “elementare” tra terra e mare. L’autore unisce concetti “elementari” e l’intrinseca differenza tra i due mostri ne sarà l’emblema. Nei suoi scritti del ’38, Schmitt intuisce che la politica ha prima di tutto a che fare con l’elementare, ma analizzando le teorie di Hobbes si rende conto che il rapporto di quest’ultimo con il mito politico, rappresentato dai due mostri, presenta un’ambiguità di fondo. Schmitt prende sul serio il grande gigante hobbesiano nella sua sostanza mitica pre-razionale e in tutte le sue implicazioni politiche. Tutti i temi toccati da Schmitt nei saggi del ’38 si propongono di rispondere ad interrogativi che riguardano la scelta di vivere nel Moderno con la consapevolezza della sua origine conflittuale, ma il tema fondamentale sul quale Schmitt riflette è la crisi dello Stato: quale possa essere il suo destino nella modernità e come esso possa rapportarsi al progresso tecnico.
I saggi segnalano l’evoluzione dell’autore che, pur partendo dagli stessi concetti di Hobbes arriva ad una conclusione totalmente opposta. Tuttavia, da un punto di vista esclusivamente politico, Schmitt accetta l’idea di Stato proposta da Hobbes: “Il Leviatano è il mito più potente e niente sulla terra può essergli paragonato”.
Marina Mascherini ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Si occupa di teratologia – politica e naturale – e dell’incontro tra teratologia e tecnica nel post-umano. Recentemente si è occupata di iconografia politica ed è cultrice della materia di Filosofia morale e Filosofia della storia presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze.