“Stabilitas regni. Percezione del tempo e durata dell’azione politica nell’età degli Ottoni” di Stefano Manganaro

Dott. Stefano Manganaro, Lei è autore del libro Stabilitas regni. Percezione del tempo e durata dell’azione politica nell’età degli Ottoni edito dal Mulino: quale concetto politico-religioso indicano le espressioni stabilitas regni e stabilitas imperii?
Stabilitas regni. Percezione del tempo e durata dell'azione politica nell'età degli Ottoni, Stefano ManganaroLe espressioni stabilitas regni e stabilitas imperii, ampiamente diffuse nella cultura politico-religiosa dell’alto e del pieno Medioevo europeo, indicavano l’aspirazione del regno (o dell’impero) a mantenersi stabile nel tempo. Questi concetti esprimevano quindi la condizione ideale dell’ordinamento politico. Si è detto ‘ordinamento politico’ per semplificare, ma l’espressione non è del tutto corretta e va precisata. Non bisogna dimenticare, infatti, che la cultura altomedievale tendeva a concepire in modo unitario la società, senza erigere quelle nette distinzioni categoriali tra il politico, il religioso, l’economico e il sociale a cui ci ha abituati la cultura moderna; pertanto nell’aspirazione alla stabilità temporale del regnum (o dell’imperium) era in realtà espressa, in senso più ampio e decisivo, l’aspirazione alla stabilità temporale dell’ordine del mondo. Per essa chierici e monaci dovevano pregare ‘ininterrottamente’ (iugiter, si legge nei documenti), affinché l’ordine del mondo si conservasse nel tempo – e nonostante lo scorrere del tempo! – senza implodere su se stesso e scivolare nella caducità. La conservazione duratura dell’ordine del mondo era dunque concepita in stretta dipendenza dall’attività orante e contemplativa dei religiosi, senz’altro ritenuta capace di influenzare in modo assolutamente concreto e determinante le sorti della società tutta. Tali preghiere erano espressamente richieste dai re merovingi, carolingi, ottoniani e salici in cambio delle donazioni fondiarie e dei privilegi fiscali e giurisdizionali con cui costoro beneficiavano i religiosi, così da sollevare questi ultimi dalle preoccupazioni di ordine materiale e permettere loro di espletare in tranquillità la loro funzione di ‘professionisti del sacro’.

Quando compaiono per la prima volta le espressioni stabilitas regni e stabilitas imperii?
È difficile risalire alla nascita di queste espressioni. Esse sono attestate con grande frequenza in centinaia di fonti documentarie prodotte a partire dall’età visigotica e merovingia (secc. VI-VII) fino ad almeno l’età salica (secolo XI), quindi per più di cinque secoli di storia europea. La stabilitas regni (o imperii) fu quindi una ‘idea-forza’ che, per lungo tempo, incontrò un ampio successo e godette di vasta circolazione, senza che sia possibile circoscrivere in modo esatto il momento della sua ideazione. Limitandosi alle fonti documentarie altomedievali, possibili punti di partenza possono essere indicati negli atti sinodali del III e del IV Concilio di Toledo, testi di fondamentale importanza per la definizione della regalità visigotica, come pure nei formulari dell’età merovingia. Tuttavia la nascita della espressione stabilitas regni è senz’altro più antica e va quasi certamente rintracciata nella cultura patristica. In particolare, nell’opera De Genesi contra Manichaeos (frequentemente copiata e letta negli scriptoria altomedievali) Agostino di Ippona illustra la sua teologia della storia, articolata su sei età del mondo; con riferimento alla quarta età, caratterizzata dal sorgere della regalità in Israele, egli usa l’espressione in regni stabilitate per instaurare un parallelismo tra la condizione ideale dell’ordine terreno e la stabilità incorruttibile della volta celeste. A sua volta, non tanto l’espressione stabilitas regni, quanto l’idea – o, meglio, l’aspirazione – che essa esprime, si ritrova nell’Antico Testamento. Dai quattro Libri dei Re (oggi divisi nei due Libri di Samuele e nei due Libri dei Re) si apprende che il primo monarca d’Israele, Saul, fu condannato a un regno di breve durata a causa della sua disobbedienza a Dio, mentre il suo successore Davide, il quale – come si legge nel testo biblico – ‘aveva il cuore secondo il Signore’, fu ricompensato con un regno stabile e duraturo. Questa concezione dovette esercitare una significativa influenza sulla elaborazione della regalità altomedievale. Evidentemente sia i re veterotestamentari sia i re altomedievali, essendo solo uomini, potevano ambire a una stabilità relativa, cioè a una stabilità che, per quanto duratura, restava comunque limitata a un certo numero di anni; tuttavia questo concetto conteneva, almeno in nuce, una suggestione ulteriore, perché nel testo biblico il regno relativamente stabile di Davide e di Salomone assume anche un significato profetico nel prefigurare il regno di Cristo, eternamente stabile, quindi privo di qualunque limitazione temporale.

Quali specifiche caratteristiche presenta l’aspirazione alla stabilità del regno nell’età degli Ottoni?
Come già anticipato, la circolazione dei concetti di stabilitas regni (o imperii) precede e segue l’età degli Ottoni (936-1024), perché investe tutta la cultura politico-religiosa di più di cinque secoli di storia europea. La necessità di limitare il campo d’indagine mi ha indotto a circoscrivere la ricerca a un periodo determinato – e ben caratterizzato – dell’alto e del pieno Medioevo. La scelta è caduta sull’età degli Ottoni in ragione dei suoi tratti peculiari. Per un verso, gli Ottoni dovettero governare affidandosi a strutture politiche di controllo (strumenti amministrativi, ricorso alla delega pubblica, produzione di diritto positivo, distrettuazione territoriale articolata in circoscrizioni regie) molto deboli: più deboli di quelle che contraddistinsero l’esperienza precedente dei Carolingi e quella successiva dei Salii, per non parlare delle esperienze politiche bassomedievali, nelle quali si delineano modelli istituzionali di potere regio sempre più forti e organizzati. Per un altro verso, sotto gli Ottoni si verificò un ricorso particolarmente intenso a forme di comunicazione simbolica e si assistette a una profonda sacralizzazione dell’autorità regia, che forse rappresenta l’esito più radicale mai sperimentato in Europa occidentale di sovrapposizione tra significati religiosi e prerogative politiche nella figura del re. L’Impero degli Ottoni fu dunque segnato da una sorta di contrasto tra “deboli strutture del potere” e “forti risorse immateriali”. Anche la cultura del secolo X sembra partecipare a una simile contraddizione: gli intellettuali del tempo lamentavano un disordine crescente ed esprimevano sempre più convintamente esigenze di ordine. A mio avviso, queste caratteristiche rendono l’età degli Ottoni un contesto di indagine particolarmente fecondo per studiare le forme e i significati con cui si presentò l’aspirazione alla stabilitas regni (o imperii). Pertanto il libro si presenta come uno studio sulle fonti documentarie, narrative e liturgiche, prodotte dall’inizio del secolo X al principio dell’XI nei tre ambiti territoriali e culturali che componevano l’Impero romano-germanico ottoniano: Germania, Italia e Lotaringia.

A quali significati antropologico-religiosi alludeva la “stabilità nel tempo” del regno e dell’impero?
Anzitutto si può dire che l’enfasi posta sulla stabilità nel tempo del regno e dell’impero rifletteva una mentalità religiosa e un più generale atteggiamento antropologico che erano contraddistinti, per un verso, da una viva percezione della caducità e del carattere contingente delle realtà terrene e, per un altro verso, dalla tensione a preservare l’ordine del mondo come qualcosa che attingeva a una dimensione ontica, come tale irriducibile al divenire storico. Ciò, peraltro, implica che gli autori delle fonti ottoniane analizzate avevano una chiara consapevolezza del divenire storico, quindi non percepivano la loro società come se fosse immobile e immutabile: pur manifestando sempre rispetto per la tradizione e il passato, essi si sentivano liberi di esprimere giudizi di valore di volta in volta diversi sui cambiamenti e sulle novità: ora positivi, ora negativi, a seconda dei punti di vista dei singoli autori e delle causae scribendi che li muovevano. Non solo: gli autori delle fonti erano sufficientemente consci della complessità degli eventi storici che vivevano o che raccontavano per inquadrarli nella categoria semplice di tempo lineare (progresso continuo o decadenza continua), come pure erano sufficientemente attenti alla concretezza di tali eventi per interpretarli con la categoria mitica di tempo ciclico. Negli autori delle fonti dell’età degli Ottoni ciò che emerge è la convinzione che fosse sempre possibile – in qualunque momento storico – instaurare un buon ordine politico: il problema vero consisteva nel farlo durare, perché, non appena quest’ordine si affermava, subito esso era minato dagli errori degli uomini, dalle contingenze della storia e dall’azione del demonio. Si assisteva così a una periodica alternanza nel regno tra pax e discordia, per usare le parole delle fonti. Si badi che in queste fonti la medesima convinzione emerge attraverso l’osservazione delle vicende biografiche ed esistenziali, segnate da una continua alternanza tra l’esperienza della humiliatio e quella dell’exaltatio. Più che una successione lineare o ciclica degli eventi storici, allora, si delinea qui – come propongo nella mia tesi interpretativa – una concezione ‘sinusoidale’ del movimento storico. Il tutto è concepito come lo strumento di una pedagogia divina, la quale ora dà ora toglie (Dominus dedit, Dominus tollit). Ecco allora che a superare la prova decisiva è il regno – ed è l’uomo – che riesce a restare stabile nel corso del tempo.

Quali ripercussioni politico-pratiche questa idea generò nell’azione dei re ottoniani?
Se si passa dalle concezioni dell’ordine del mondo alle pratiche politiche, è opportuno interrogarsi su come si possa studiare la stabilitas regni (o imperii) e, soprattutto, che cosa questo concetto potesse significare in relazione alle dinamiche istituzionali. A tale riguardo credo che l’enfasi posta sulla stabilitas regni (o imperii) induca a riflettere sulla ‘durata’ dell’azione politica degli Ottoni, ossia sulla loro capacità/incapacità di agire, incidendo con duratura efficacia nel tempo sugli assetti politici del regno. Anzitutto occorre partire dalla considerazione che il concetto di stabilitas regni esprimeva un’aspirazione-ispirazione di difficile realizzazione per gli Ottoni, in quanto re itineranti, privi di una sede stabile e di strutture burocratiche, chiamati assai più a coordinare e a negoziare il potere con gli altri attori politici del regno anziché a imporre a questi ultimi ordini e disposizioni. Alla luce di questo quadro occorre sottolineare che i più importanti documenti scritti emanati dai re – i cosiddetti ‘diplomi’ (Urkunden), dei quali sono giunti fino a noi più di 1500 pezzi prodotti nell’età ottoniana – non erano affatto scritture amministrative, come a lungo si è pensato. Essi sanzionavano privilegi e donazioni, secondo le clausole scritte del loro testo, ma anche incorporavano materialmente e simbolicamente il rapporto privilegiato di vicinanza del destinatario all’autorità regia; a entrambi questi aspetti – contenuti giuridici e prossimità al re – il diploma intendeva anzitutto conferire firmitas e stabilitas, come si legge nelle formule di chiusura, cioè una garanzia fondamentale contro i pericoli di oblio e di adulterazione insiti nello scorrere del tempo. Una particolare declinazione del problema della durata dell’azione politica è, poi, individuata dalla questione relativa alla eventuale ‘progettualità’ di tale azione. Organizzare strategicamente l’agire politico, inquadrandolo cioè in una prospettiva temporale di medio-lungo periodo in vista del conseguimento di determinati obiettivi, non configura una modalità di azione qualsiasi, ma riflette una specifica razionalità politica e una psicologia del potere che non possono affatto essere date per scontate. Per gli Ottoni, infatti, non era questa la modalità di azione consueta, dal momento che essi tendevano a rispondere a contingenze immediate e alle sollecitazioni provenienti da altri attori. Questo quadro di fondo va tuttavia arricchito e integrato da alcune, importanti, eccezioni, perlopiù legate alla regione della Sassonia orientale, nella quale gli Ottoni si confrontavano con uno spazio politicamente meno contrastato e avevano maggiori strumenti per progettare la propria azione, dando a essa un maggiore respiro temporale.

Quali erano le implicazioni in termini istituzionali della “stabilità nel tempo”?
Le istituzioni dell’alto e del pieno Medioevo non erano strutture coerenti di organizzazione politico-sociale, né erano compagini contraddistinte da una formalizzazione giuridica univoca e stringente, come si osserva invece nelle istituzioni dell’età moderna e di quella contemporanea. Com’è stato autorevolmente dimostrato dalle più aggiornate ricerche della storiografia tedesca e di quella italiana, quelle che siamo soliti chiamare ‘istituzioni’ (compresi i regni e l’impero) nell’alto e nel pieno Medioevo erano, di fatto, aggregati sociali che, vivificati da radicate concezioni religiose e percorsi da mutevoli dinamiche politiche, erano chiamati a trovare, di volta in volta e in modo sperimentale, un equilibrio dinamico. Ne conseguivano assetti efficaci, perché rispondenti alle esigenze del momento, ma al tempo stesso temporanei e, per molti versi, precari. Controbilanciando le spinte centrifughe, questi aggregati sociali innescavano processi di stabilizzazione nel tempo, pur non riuscendo mai a farli prevalere in modo definitivo e davvero risolutivo. Tuttavia è proprio questa tendenza alla stabilizzazione – e alla stabilizzazione continua e periodica – che sembra definire il loro tasso di istituzionalità, il loro modo peculiare di essere, compiutamente, ‘istituzioni’. La domanda sulla stabilitas regni nell’età ottoniana è allora una domanda che si pone al centro del problema istituzionale dell’alto e del pieno Medioevo, cioè una domanda che rimanda a un altro, e più decisivo, interrogativo: che cosa erano e come funzionavano le istituzioni politiche nell’alto e nel pieno Medioevo? È proprio in questa prospettiva che va letto il libro.

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