“Stabilità economica e sostenibilità nel diritto internazionale” di Giulio Peroni

Prof. Giulio Peroni, Lei è autore del libro Stabilità economica e sostenibilità nel diritto internazionale edito da Giuffrè-Lefebvre: quando si afferma l’ordine economico neoliberista e come si è evoluto il modello del Washington consensus?
Stabilità economica e sostenibilità nel diritto internazionale, Giulio PeroniTradizionalmente, si tende a ricondurre agli accordi di Bretton Woods del 1944, conclusosi a margine della fine del Secondo conflitto mondiale, la nascita dell’Ordine economico internazionale neo liberista, capace di riprendere i valori e principi propri della fase del cd. liberismo classico, che caratterizzò la fase precedente, differenziandosi da quest’ultimo dal punto di vista giuridico internazionale per un ampio ricorso alla cooperazione multilaterale favorita proprio dall’azione svolta dalle organizzazioni intergovernative sorte con Bretton Woods (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale).

Un ordine economico quello in esame da cui ha avuto avvio, un graduale processo di internazionalizzazione dell’economia, con il moltiplicarsi degli investimenti diretti all’estero e all’ampliamento delle attività delle Imprese multinazionali (IMN), cosa che ha comportato, a sua volta, la progressiva internazionalizzazione e multinazionalizzazione dei processi produttivi, estesasi ulteriormente con l’affermarsi del processo di globalizzazione economico e commerciale dovuto in gran parte all’introduzione nel 1994 del sistema dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO), “erede” del sistema del GATT 1947.

È all’interno del quadro così sinteticamente descritto che ha trovato terreno fertile il modello economico e politico del Wasghington consensus. Espressione utilizzata per indicare l’insieme delle politiche economiche condivise dalle Istituzioni di Bretton Woods e dal Tesoro americano (tutte realtà con sede fisica a Washington, da qui il nome) a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e fondate, essenzialmente, su quattro pilastri: stabilizzazione macroeconomica, liberalizzazione del commercio e degli investimenti, privatizzazione e de-regolamentazione. Un modello pensato per creare all’interno delle economie meno industrializzate e, soprattutto, dei Paesi economicamente svantaggiati, condizioni favorevoli per ottenere nel breve periodo stabilità e crescita economica e che ricevette forte impulso grazie all’interpretazione che la Banca Mondiale, con il noto Report East Asian Miracle (1993), diede all’affermazione economica delle cosiddette Tigri asiatiche (Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong), in cui si evidenziò come la crescita dipendesse dallo scarso intervento in economia da parte degli Stati, come sostenuto proprio dai fautori del Washington Consensus. Ciò inevitabilmente contribuì, quasi per inerzia, che detto modello divenisse oggetto di crescente interesse come schema di convergenza universale delle varie economie nazionali, ormai votate al liberismo anche grazie anche alla caduta dei sistemi comunisti e al sostanziale insuccesso del Nuovo ordine economico internazionale (NOEI).

Non sono, tuttavia, mancate numerose e, talvolta, feroci critiche a detto modello. Infatti, prendendo sempre spunto dal caso delle Tigri asiatiche, è stato evidenziato come la crescita economica di quel gruppo di Paesi, più che dalla concorrenza “sfrenata” e dagli altri meccanismi di mercato sostenuti dal Washington Consensus, dipendeva, al contrario, dall’adozione di elaborati piani economici funzionali a integrare le economie interessate. Si è peraltro, evidenziato come l’adozione aprioristica del modello del Washington Consensus, senza considerare le sue ricadute operative caso per caso, abbia snaturato la funzione del Fondo Monetario Internazionale e non abbia, invece, facilitato la soluzione delle crisi economiche e finanziarie che sono successivamente intervenute, nonché la crescita delle economie meno avanzate. Si spiegherebbe, pertanto, il tentativo, a partire dalla fine degli anni’90, in particolare da parte dell’UNDP (United Nations Development Programme) coi suoi rapporti in tema di sviluppo umano e successivamente con l’elaborazione degli Obiettivi del Millennio di affermare una lettura più moderata del modello in questione, ponendo l’attenzione sulla ricerca di un maggiore equilibrio tra meccanismi di mercato e interventi in ambito economico e sociale. Cosa che avrebbe aperto una nuova fase definita da alcuni come Post Wasghinton Consensus (PWC). Un nuovo orientamento quest’ultimo che, pur non mettendo in discussione i fondamenti dell’economia capitalista, non intenderebbe applicare in modo aprioristico politiche di privatizzazione-liberalizzazione e stabilizzazione dando, invece, maggiore rilievo alla lotta alla povertà, vista come obiettivo centrale della cooperazione allo sviluppo e non intesa come una mera conseguenza della crescita economica. Nonostante tale tentativo, al centro anche dell’Agenda sullo sviluppo sostenibile 2030, reputo che l’impostazione liberista di stampo monetarista che sta alla base del Wasghinton consensus non abbia perso la sua influenza, pur essendo oggetto di nuove, profonde e puntuali critiche.

In che modo la crisi economica e finanziaria del 2008 ha determinato l’emersione del tema della stabilità economica quale bene pubblico globale?
In vero, a inserire la stabilità economica nelle sue differenti forme entro la categoria dei beni pubblici globali vi ha provveduto nel 1999 lo United Nations Development Programme con lo Human Development Report, in cui si è evidenziato come i beni pubblici globali siano una tipologia particolare di beni pubblici di cui condividono le due caratteristiche fondamentali: la non escludibilità e la non rivalità, differenziandosi da quelli prettamente domestici in forza di tre criteri: geografico (l’efficacia del bene si estende su più di un gruppo di Paesi), socio – economico (l’efficacia del bene interessa tanto i paesi “ricchi” quanto quelli “poveri”) e generazionale, poiché relativi all’intera Umanità. La definizione di bene pubblico globale è stata, poi, ulteriormente precisata dalla Banca Mondiale, con particolare riguardo alle questioni legate al tema dello sviluppo per cui “global public goods are commodities, resources services and also substantial cross-border externalities that are important for development poverty reduction and can be produced in sufficient supply only trough cooperation and collective action by developed and developing countries” e successivamente nel 2006 dall’International Task Force on Global Public Goods, costituita in occasione del Johannesburg World Summit on Sustainable Development del 2002, per cui i beni pubblici globali sono “issues that are boadly conceived as important to the international community that for the most part cannot or will not be adequately addressed by individual countries acting alone and that are defined trough broad international consensus or a legitimate process of decision making”. Una definizione quest’ultima alquanto rilevante nello sviluppo del ruolo dei beni pubblici globali come concetto ampiamente accettato entro la Comunità internazionale.

La Crisi del 2008 ha sottolineato e accentuato ancora di più come le turbolenze dei mercati finanziari, come le epidemie, non solo non conoscono confini (tanto da potersi propagare in ogni dove) ma, soprattutto, richiedono più che mai per essere risolte e possibilmente evitate il ricorso a strategie di tipo cooperativo che inducono i vari soggetti interessati alla fruizione di quel bene a coordinarsi per la sua produzione e fornitura, in quanto la stabilità economica è una condizione essenziale per assicurare ordinati rapporti economici e commerciali tra Stati oltre che coesione economica e sociale entro i singoli ordinamenti ed economie nazionali. Un bene – obiettivo pertanto strategico per mantenere a sua volta quello che viene comunemente considerato come il bene assoluto: la Pace e la Sicurezza tra le Nazioni.

Quali sono i soggetti e gli attori internazionali coinvolti nella fornitura della stabilità economica?
Il diritto internazionale dell’economia è caratterizzato da un variegato gruppo di soggetti e attori, alcuni dei quali, sulla base della ricerca svolta sono stati e, tuttora, risultano essere maggiormente impegnati nel conseguire la stabilità economica nelle sue diverse forme. Scelta, che è caduta, in particolare, su quelle realtà che a diverso titolo riconoscono sia a livello genetico (con riguardo al rispettivo statuto) sia funzionale (in merito alle misure effettivamente messe in campo) centralità alla produzione e fornitura della stabilità economica.

Si è, in vero, di fronte a una pluralità di centri decisionali di differente origine e natura giuridica; alcuni a vocazione essenzialmente di direzione politica, altri, all’opposto, fortemente caratterizzati da un alto livello tecnocratico. Una realtà, dunque, articolata e variegata entro la quale, tuttavia, non solo mancano, in specie nell’area finanziaria, le condizioni per la costituzione di un’autorità di regolamentazione unica a livello mondiale sul modello ad esempio dell’Organizzazione mondiale del commercio, ma in cui ciascun singolo ente coinvolto gode di un forte grado di autonomia non riscontrandosi un’effettiva forma di relazione a carattere gerarchico tra i soggetti e gli attori coinvolti. Come governare, pertanto, una realtà così decentralizzata e complessa? Due sono i tentativi in atto al fine di favorire la possibilità di addivenire a decisioni quantomeno condivise se non uniche. Da un lato, il ricorso ad una strategia di carattere istituzionale con cui, come si cerca di evidenziare nel Volume, si è provveduto a distribuire compiti e funzioni differenti in capo ai vari soggetti e attori operanti entro l’ampio ambito di applicazione del diritto internazionale dell’economia, dall’altro ad una strategia cooperativa, come prima indicato, con cui attraverso il ricorso a differenti strumenti normativi, gli enti coinvolti cercano per quanto possibile di armonizzare tra loro i rispettivi approcci regolatori alla materia in esame.

Nel quadro testè descritto, si collocano in primo luogo gli Stati in specie attraverso l’azione svolta dalle rispettive Banche centrali; vi sono, poi, le Organizzazioni internazionali economiche, entro cui spicca soprattutto il Fondo Monetario Internazionale, a cui si affiancano la Banca Mondiale, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Queste ultime, seppure sotto angolature differenti, vedono nella stabilità economica la condizione essenziale per favorire lo sviluppo e la crescita economica e sociale dei Paesi, all’interno di quella che viene oggi comunemente definita come economia globalizzata.

A detto elenco, si aggiungono ulteriori realtà (pubbliche e private) che pur non avendo personalità giuridica internazionale hanno ampiamente dimostrato nei fatti di sapere assumere il ruolo di veri e propri centri di influenza decisionale nella determinazione sia delle scelte di politica economica da parte degli Stati, sia con riguardo alle diverse misure adottate a vario per la regolamentazione dei mercati finanziari. È il caso dei Vertici economici, delle Reti di regolatori, dei Fondi Sovrani, delle Agenzie di rating, dei Fondi speculativi o Hedge funds e delle Imprese Multinazionali. Tale numerosa e ricca platea di enti va a formare la cosiddetta governance economica, da intendersi come l’insieme di istituzioni formali ed informali, meccanismi, rapporti e processi fra Stati e mercati, privati ed organizzazioni governative e non governative coinvolte a diverso titolo nel governo dell’economia internazionale.

L’assetto della governance economica, complice il processo di finanziarizzazione dell’economia accresciutosi esponenzialmente in virtù di precise scelte politico normative assunte in specie dai vari organismi di governo nazionali, anche grazie come sopra ricordato all’assenza di un effettivo centro decisionale in materia finanziaria e fiscale a livello internazionale, ha visto un profondo irrobustimento dell’autonomia negoziale e la progressiva espansione dell’attività dei soggetti privati, con l’effetto che il loro peso è decisamente aumentato rispetto a quello di realtà tradizionali del diritto internazionale dell’economia come gli Stati e le Organizzazioni internazionali.

L’analisi condotta cerca, dunque, di descrivere l’evoluzione e le trasformazioni che hanno interessato il sistema della governance economica internazionale nel perseguire condizioni di equilibrio economico-finanziario, strumentali a dare maggiore stabilità ai rapporti economici (e non solo) fra Stati.

Quali meccanismi e politiche di stabilizzazione finanziaria e fiscale si adottano nella ricerca della stabilità economica?
I meccanismi sono differenti dal punto di vista economico e giuridico: si va dal rafforzamento dei poteri di vigilanza delle istituzioni finanziarie e monetarie, al rafforzamento dei requisiti di capitale delle banche, alla regolamentazione dei benefits del management bancario, al rafforzamento dell’accountability e transparency delle istituzioni monetarie e finanziarie (si pensi all’introduzione seppur relativamente risalente dell’Inspection Panel della Banca Mondiale, a un maggiore potere di controllo e verifica attribuito alle istituzioni politiche, ad un massiccio ricorso a sistemi di sostegno e aiuto economico e finanziario ai paesi maggiormente in difficoltà). Tuttavia, centrale rimane ancora il ricorso al meccanismo della condizionalità. Si tratta di piani di sostegno che, a fronte degli aiuti economici concessi, prevedono in capo agli Stati destinatari, l’obbligo di raggiungere determinati obiettivi macro economici (condizionalità macroeconomica) oppure l’implementazione di specifiche politiche pubbliche volte a realizzare vere proprie riforme strutturali (condizionalità strutturali). Uno strumento, quello della condizionalità, che ha sollevato diversi dubbi sia con riguardo alla sua reale efficacia di risolvere le situazioni di crisi, sia intorno alla sua legittimità. Sul punto, giova ricordare come sia stato evidenziato in specie, come la condizionalità economica possa limitare fortemente la sovranità in ambito economico-politico di uno Stato, nell’adozione delle proprie scelte, relativamente alla politica fiscale, riducendone l’autonomia e l’indipendenza a favore dell’eteronomia degli enti sovranazionali e dei suoi creditori in genere. Sorge, pertanto, la domanda che, sempre più caratterizza lo scenario politico dei Paesi attualmente maggiormente colpiti dalla Crisi economico e finanziaria: fino a che punto il ricorso al meccanismo de qua può spingersi nell’imporre determinate scelte economiche in capo a uno Stato e alla rispettiva comunità nazionale, in assenza di un qualsiasi vaglio democratico da parte dei rispettivi Parlamenti nazionali e, quasi sempre, assunte a causa della contingenza del momento determinato dallo stato di necessità economica. Tema quest’ultimo che, come è a tutti noto, ha investito negli anni recenti anche alcuni Paesi europei, in particolare la Grecia che, per uscire dalla situazione di sostanziale insolvenza in cui si è venuta a trovare a causa della Crisi del rispettivo debito sovrano, ha dovuto accettare il commissariamento della rispettiva politica economica da parte della nota Troika, (costituita da Commissione europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario).

Quali sono i profili di sostenibilità delle politiche adottate nel perseguire la stabilità economica e il loro impatto sui diritti economici e sociali dell’individuo?
Il Volume ricostruisce l’origine e il processo di formazione e affermazione del principio dello sviluppo sostenibile e la relativa natura giuridica nel quadro giuridico internazionale soffermandosi sui principali strumenti con cui si cerca di darne implementazione. In particolare, l’attenzione è rivolta allo strumento dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Esso consiste in un programma d’azione per le persone e il pianeta sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU in cui vengono declinati i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile entro un grande programma d’azione per un totale di 169 ‘target’ o traguardi. Gli Obiettivi per lo Sviluppo danno seguito ai risultati degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) che li hanno preceduti, e rappresentano obiettivi comuni su un insieme di questioni importanti per lo sviluppo: la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico, per citarne solo alcuni. ‘Obiettivi comuni’ significa che essi riguardano tutti i Paesi e tutti gli individui: nessuno ne è escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il cammino necessario per guidare il mondo sulla via della sostenibilità.

In detto contesto, l’attenzione verso i profili economici internazionali è assai rilevante soprattutto con riguardo alla riduzione delle disuguaglianze esistenti, sia tra Stati, sia all’interno di ciascuno di essi. Per fare questo, è essenziale assicurare la stabilità economica essenzialmente nelle forme della stabilità finanziaria e fiscale, con specifico riguardo alla sostenibilità del debito sovrano, affinché si possano liberare le risorse necessarie per ridurre se non eliminare le disuguaglianze, anche quelle che dipendono da “età, sesso, disabilità, etnia, origine, religione, status economico o altro”. A detto scopo, si invitano pertanto gli Stati ad adottare misure legislative e azioni al fine di assicurare l’eguaglianza di opportunità e ridurre le disparita di reddito, eliminando norme e prassi discriminatorie. Per l’Agenda 2030 puntare sulla crescita del pil rimane il punto centrale in quanto il problema dei redditi troppo bassi non investe solo i Paesi in via di sviluppo. Negli ultimi anni, infatti, il divario tra il pil dei Paesi ricchi e quello dei Paesi poveri è calato notevolmente a partire dal 1970, ma i ceti più ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più indigenti, perché in molti Paesi è cresciuta la disuguaglianza interna, soprattutto in quelli più avanzati, come gli Stati Uniti e anche in Paesi tradizionalmente più paritari, come Germania, Danimarca e Svezia.

In detti termini, la sfida che l’Agenda 2030 descrive è chiara, fondandosi soprattutto su una sinergia tra Stati e Organizzazioni sovranazionali economiche e commerciali, al fine anche di favorire un nuovo sistema di tutele sociali, così come avvenne un secolo fa con la nascita del welfare state, ispirato a principi condivisi di giustizia distributiva, di modo che tale nuovo modello possa essere percepito e accettato come equo e legittimo nei suoi fondamenti dalle collettività. Solo in questo modo, si può combattere efficacemente quella che Zygmunt Baumann ha defintito come retrotopia: “il desiderio di tornare indietro per bloccare il flusso del cambiamento”.

La dimensione del principio dello sviluppo sostenibile, per come si è cercato di analizzarlo nel Volume e per come risulta declinato entro l’Agenda 2030, al di là delle giuste e opportune osservazioni critiche che si possono muovere in genere alle risoluzioni delle Nazioni Unite, tradizionalmente espressione della ricerca di un bilanciamento tra interessi politico economici contrapposti, riesce a esprimere non solo una visione nuova in termini di condotta e metodologia d’azione, ma soprattutto ritengo possa rappresentare lo strumento con cui raggiungere a livello giuridico internazionale e non solo un equo compromesso tra interessi e bisogni tra loro, almeno in questi ultimi tempi, in costante e pericoloso conflitto come: il rispetto delle esigenze di bilancio e la difesa dei diritti economici e sociali della persona, escludendo cosi il ripetersi di pericolose derive nazionalistiche e tutelando, in particolare modo, gli interessi delle future generazioni.

Giulio Peroni è Professore Associato di Diritto Internazionale presso il Dipartimento di Diritto Pubblico Italiano e Sovranazionale dell’Università degli Studi di Milano, ove insegna Diritto Internazionale dell’Economia e International Financial Law and Sustainable Development entro l’LLM in Sustainable Development. È, inoltre, presso la medesima Università Professore Jean Monnet di European Economic and Monetary Law (EMEL), nonché docente all’Università di Milano Bicocca di EU Business Law e Diritto internazionale. Ha altresì insegnato nell’ambito dell’Erasmus Teaching Program, International and European Trade Law presso l’Università di Ginevra, la Queen Mary University of London, l’Università di Coimbra e di Siviglia. Partecipa attualmente al Collegio dei Docenti del Doctoral Programme in International Public Law, Ethics and Economics for Sustainable Development (LEES-UNIMI). Come ricercatore è stato Visiting Fellow con borsa dal 2014 al 2016 presso il Max Planck Institute di Diritto Internazionale Privato di Amburgo e quello di Diritto Internazionale Pubblico di Heidelberg. È, infine, Autore di diverse pubblicazioni nei settori del diritto internazionale pubblico (principalmente dell’economia e del commercio), internazionale privato e dell’Unione europea a carattere sia monografico sia come articoli, editi con le principali collane e riviste di settore.

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