
Posto che di un’epigrafe potremmo confidare nella concretezza materica della sua natura, costituita sempre, almeno teoricamente, di un supporto sul quale sia stato inciso in modo ‘cruento’ un testo, si potrebbe immaginare che ogni falsità sia riconoscibile con un controllo visivo: il che non è, sia perché il presunto originale potrebbe esserci giunto variamente degradato dalle ‘offese del tempo e degli uomini’, fino a risultare irriconoscibile, sia perché una parte considerevole della documentazione epigrafica non è sopravvissuta concretamente, ma è nota soltanto attraverso la tradizione, pervenuta di fatto fino a noi con la trascrizione per molti secoli manoscritta del testo, così come man mano letto o interpretato o manipolato – e in quale misura e varietà consentendo il falso in questa fase? – dai suoi diversi e successivi editori.
Come si presenta il panorama dei falsi documenti epigrafici?
Se in un’altra occasione si era conversato sugli errori epigrafici, cui dovrebbe essere riconosciuta una comune condizione di variante, rispetto alla correttezza di un testo, dovuta alle più diverse motivazioni di cui l’inavvertenza è la più diffusa e comune e comunque presumibile; il falso dovrebbe prevedere invece la presenza o almeno il sospetto di un atto doloso. Da cui la necessità prima di tutto di individuarne le motivazioni, che possono avere agito nelle situazioni più diverse ma anche nei tempi più diversi.
Si presenterebbero dunque falsi originali o originari, quando un testo sia stato inciso fin dalla sua prima stesura per affermare un concetto o una realtà di fatto intenzionalmente non corrispondente al vero: che so, l’apparizione di una persona divina (benché in questo caso senza intenzioni di dolo, ma per suggestione o convinzione personale), o per nobilitare una situazione di famiglia o di condizione sociale, sia pure con lo scrupolo che l’occhiuta opinione pubblica non la smascherasse facilmente. Ma fin qui siamo alla fase produttiva, all’esecuzione stessa dell’epigrafe e al periodo in cui essa svolse la funzione cui era stata destinata dalla sua origine. Ben altro il rischio della falsificazione vera e propria nel corso della lunga, quasi bimillenaria, conservazione dell’oggetto: in tutte le forme e con le motivazioni più diverse.
In fondo un intervento di falsificazione ‘riduttiva’ potrebbe riconoscersi anche nella cosiddetta damnatio memoriae, l’annullamento degli atti voluti da un personaggio caduto in disgrazia (alcuni imperatori in primo luogo), con l’eliminazione anche fisica (per erasione) persino del nome che compariva sui documenti epigrafici esposti, lasciandovi al posto una lacuna o sostituendovi altri nomi o formule riempitive(caso emblematico l’iscrizione sull’arco di Settimio Severo nel Foro Romano, in cui il nome di Geta, ucciso e qui espunto dal fratello Caracalla nel 212, fu sostituito da una zeppa elogiativa degli altri nominati): una falsificazione comunque particolare, ma che modificava di fatto l’originale.
Ma forse falsificazioni ‘originali’ (cioè nel loro contenuto informativo o propagandistico che avrebbero esposto) compaiono in forme più contorte e indirette, non sulla pietra forse neppure mai esistente tal quale, ma nella citazione dei testi epigrafici da parte degli autori contemporanei (che diedero spesso una valutazione approssimata e estemporanea della documentazione epigrafica, per noi oggi considerata invece essenziale). D’altra parte, le epigrafi per loro natura erano destinate ad essere esposte in pubblico e a lungo: possibile che qualcuno, meno imbrattatore ma più determinato dei molti ‘writers’ d’oggi, sia intervenuto per modificare di tutto punto – con martello e scalpello – il testo primitivo. Due esempi, ingenuo l’uno, raffinato l’altro, ma entrambi d’epoca certamente più moderna: su una base di Aosta consacrata alla ‘triade capitolina’ (Giove, Giunone, Minerva) una donna è accompagnata dalla definizione *libo, invece di una comune qualifica di lib(erta), del tutto incomprensibile se non si sapesse che la pietra fu conservata a lungo da una notevole famiglia locale, di certi Liboz, che, per gioco o per vanità, vollero inventarsi antenati tanto lontani. Mentre un risultato, pur altrettanto falso, ma di grande levatura culturale, è il cosiddetto ‘suggestum Caesaris’ (la predella o la tribuna di Cesare) oggi a Rimini, una base di autentica antichità, forse persino troppo stretta forse per reggere una statua, che fu corredata in età rinascimentale, da un’iscrizione, elegantemente composta e incisa, segnalante che da quel rialzo Cesare, in po’ precariamente in verità avrebbe tenuto ai suoi la celebre orazione del ‘dado è tratto’ una volta – testuali parole – Rubicone superato. Esempi estremi di una varietà di falsificazioni in cui ci sta dentro davvero di tutto: ma a quale scopo? Un poco inverosimile per la nostra sensibilità d’oggi che si vale di controlli documentali ben più sicuri (la fotografia sempre più raffinata o l’autopsia diretta), ma di largo abuso nelle epoche e nelle situazioni più diverse. Il volume, da cui prende spunto la presente conversazione, ne è ricco di esempi per ogni dove. Se Marco Buonocore può legittimamente parlarne come di ‘una storia infinita’, altri insistono su più o meno celebri falsari, che approfittarono delle difficoltà nei secoli di mezzo di svolgere vere e proprie autopsie troppo dislocate o di proposito approssimatamente segnalate: il caso del cinquecentesco Pirro Ligorio (da tempo scoperto da Ginette Vagenheim), trascrittore e inventore seriale delle iscrizioni più improponibili sulla base di presunti confronti con altre vere, con lo scopo di ‘pilotare’ fatti e momenti storici secondo le sue opinabili interpretazioni, o un Giambattista Piranesi, il settecentesco ben noto incisore e storico ma anche mercante d’arte (qui accennato da Mauro Reali), che introduce l’altra più potente molla che animò sempre i falsari: quella degli studiosi disposti a mistificare la storia con prove d’invenzioni a scopi eruditi o anche politici (significativo il caso defilato del portoghese Frei Bernardo de Brito, di cui José d’Encarnaçao svela i grandi sforzi per pilotare eventi locali di modesta importanza; ma anche quella di quanti (sempre numerosi, come ne furono numerosi i fiduciosi acquirenti) vollero procurarsi materiale commerciale da offrire una clientela do facile contentatura (che è presenza tuttora attiva nelle transazioni online, in cui risulta difficile eseguire autopsie esperte).
Qual è la portata storica del fenomeno delle iscrizioni false?
La risposta più immediata è che fu di notevole rilievo e tanto più in epoche culturali con caratteristiche particolari. Si tenga conto che in momenti successivi e diversi – ma questo porterebbe a considerazioni ben più larghe e universali dello stimolante e tuttavia ristretto panorama epigrafico – volta a volta si vollero malamente interpretare, anche per errore più che per dolo, iscrizioni reali o di invenzione per ovviare a certe sconoscenze del passato, come fu – semplifico per grandi linee – nel cosiddetto medioevo; oppure con l’epigrafia si pretese di sostenere grandi e articolate ricostruzioni storiche, confezionandone artificialmente dimostrazioni e testimonianze di cui grandi esempi emergono dall’età rinascimentale; o infine, nella minuziosa ricostruzione erudita dei secoli successivi (sei e settecento) sembrò indispensabile motivare e provare ogni fatto storico, dal maggiore al più minuto e locale (anche insignificante, per dirla in breve), con testimonianze gabellate sempre per sicure e incontrovertibili.
Un vero ambiente incolto e incerto quello che si presentò agli storici ‘moderni’ o ai loro immediati predecessori. Primi loro impegni: fare ordine nel disponibile, fin troppo disponibile e dissodare intrichi di testimonianze da valutarsi attentamente; fissare parametri nuovi e oggettivi per valutare il vero e il falso in un coacervo di presenze (pietre tuttora esistenti) o di parvenze di presenze (pietre solo tramandate), fino ad allora accettate in modo spesso acritico; fino ad arrivare a decisioni di base severe e rigorose. Ne valga una per tutte. Nella risistemazione capitale, che avrebbe voluto dare sicurezza finalmente sicurezza certa (almeno nelle intenzioni e per quanto possibile in quei tempi, la seconda metà dell’ottocento) ai nuovi studi sull’epigrafia antica, lunghe attività di recupero e di raccolta informativa portarono alla generosa volontà di organizzare, sia pure solo a stampa, la raccolta di tutto quanto conosciuto al momento, e su cui gli studiosi potessero lavorare come su una base uniforme e garantita. Primo fra tutti, iniziato nel 1866 e nemmeno oggi del tutto concluso (intere categorie non ne sono ancora comprese e le sempre nuove scoperte non possono esserne escluse) il gigantesco Corpus Inscriptionum latinarum, diretto da studiosi tedeschi ma con una larga partecipazione internazionale, nel quale si decise di troncare quanto più i dubbi: oltre alle iscrizioni palesemente false, se uno studioso precedente si era dimostrato non sempre fededegno nelle sue ricostruzioni o trasmissioni epigrafiche, tutta la sua produzione doveva essere considerata sempre con beneficio d’inventario, passibile sempre dei più rigidi controlli: l’asterisco che accompagna il numero di catalogo di ogni caso dubbio è una ‘macchia’ difficile da cancellare. Con buona pace di un Pirro Ligorio o dei suoi numerosi emuli, meglio rinunciare a documenti anche numerosi, se non con la più attenta cautela.
In che modo è possibile ’smascherare’ un falso epigrafico?
Per quanto perfettamente eseguito, ogni falso epigrafico un punto debole o un indizio finisce per rivelarlo pure. A parte la prevenzione, di cui s’è detto, contro i possibili falsificatori recidivi, è ben difficile che, quando c’è, un sintomo di falsificazione non emerga prima o poi. Si sgombri pure il campo delle iscrizioni falsificate nella tradizione: mancherebbe ogni sospetto concreto in una trascrizione o in un disegno al tratto, in cui talvolta l’iscrizione è riprodotta persino con forme di scrittura anacronistiche, perché spesso anche i più fedeli trascrittori di esemplari fededegni non si peritavano di utilizzare la loro personale scrittura autografa, per fissare il contenuto di un testo non la sua forma. In questo caso ci si deve valere delle improprietà del contenuto: forme nominali strampalate (ma il caso di nomi unici non è indizio di falsità da solo, perché il mondo romano ne era pieno), specialmente di divinità, che avrebbero consentito allo studioso di elucubrare le novità più disparate, carriere civili o militari di cui abbiamo oggi precisa e quasi completa cognizione, ma con inversioni o sostituzioni impossibili, definizioni irriconoscibili o inaccettabili – ma una circlatix veneta non ha nulla di falso, solo sospetta per l’indefinibile specialità professionale (artigiana ambulante o forse produttrice di tessuti tubolari?) – . Non mancarono però falsari che, per lo scrupolo di rispettare forme espressive di iscrizioni vere, usarono il sotterfugio di assemblare le loro creazioni con parti ricopiate e fuse da iscrizioni diverse, confidando che, nel gran numero di epigrafi, non fosse facile riconoscere gli originali (in tempi in cui i repertori informatici per controlli incrociati e rapidi erano ancora di là da venire). Casi tutti in cui comunque è inutile dire che intervengono con maggiore sicurezza solo l’esperienza o le conoscenze degli studiosi più aggiornati di oggi.
Ma falsi possono essere – e lo sono in gran quantità – anche oggetti che tuttora si possono maneggiare, ma in cui sia possibile riconoscere: qualità della pietra d’uso solo moderno; finitura della pietra con lavorazioni e tecniche meccaniche di oggi; forme scrittorie di tutt’altri tempi, fino al caso lampante dei punti di separazione tra parole al piede delle lettere e non a mezza altezza, come solo era praticato in età romana; solchi delle lettere che si fermano prima di raggiungere il bordo di uno spacco nei molti falsi praticati su frammenti; o, al contrario, epigrafi troppo perfette, di fattura ‘fresca’ e, appunto ‘come nuove’; tutto un insieme che solo esperienza e confronti possono riconoscere. Cui si potrebbe aggiungere anche – ma non è il caso di infierire sul paziente lettore – la possibilità di falsi ‘ideati a buon fine’: una definizione un po’ barocca, che potrebbe comprendere, visto che molte epigrafi latine autentiche ci sono giunge con lacune più o meno gravi, le proposte di integrazioni delle parti mancanti: talvolta quasi come in un cruciverba, calcolando all’incirca il numero delle lettere mancanti, ma naturalmente sulla scorta dei confronti più diffusi e sicuri con altre realtà simili e con la conoscenza più sicura dei fatti storici che determinarono queste testimonianze. Poiché talvolta sono possibili diverse soluzioni, sarebbe ingeneroso definire come falsa ciascuna di quelle non accettate o controverse: meglio invece parole di ‘varianti’.
Quale valore di studio offrono in ogni caso i falsi documenti epigrafici?
Come ho avuto occasione di dire altrove, il mondo dell’epigrafia è quanto di più non incerto ma aleatorio, ma nello stesso tempo quanto di più vario versatile e caleidoscopico sia disponibile nella ricerca storica. Come lentamente il suo panorama va aumentando numericamente anno per anno, sono anche le diverse forme nuove di approccio che si vanno arricchendo man mano. Per lungo tempo riconosciuta all’epigrafia al più una funzione sussidiaria della storia cui avrebbe dovuto offrire solamente documenti da utilizzare da altri, è ormai novità assodata e fertile l’essere essa anche una forma tutta particolare di documentazione e di espressività del mondo antico, con regole motivazioni ed effetti particolari (e tuttora in elaborazione), che ne hanno fatto l’antenata – o forse meglio la capostipite – dell’arte o scienza o tecnica (a piacere) della comunicazione d’oggi, di cui studiare caratteristiche in tutto simili ai ‘mass-media’ a noi contemporanei. Un nuovo aspetto che può garantire ancora a lungo ‘le magnifiche sorti e progressive’ dell’epigrafia come scienza o oggetto di studio a sé stante.
E di quanto siano versatili gli studi epigrafici può essere prova proprio quanto ora si richiede. “Quale valore di studio offrono in ogni caso i falsi…”. Falsi e dunque da buttare? Per niente affatto. Perché di ogni atto umano è possibile e doveroso ricostruire le motivazioni.
Se con i falsi epigrafi ci si deve addentrare nelle epoche successive all’età romana, che le epigrafi le ha prodotte con una precisa volontà testimoniale che presentasse la realtà e la conservasse a lungo: le epoche successive trovarono bene il modo di riutilizzarle, di forzarle anche, ai loro scopi, di fatto comunque nuovi.
Escludiamo pure il caso – tuttavia molto frequente in certi tempi, specialmente intorno al ’700 – della produzione di falsi a scopo commerciale, per assecondare le mode diffuse di arredarne giardini privati e pubblici, ma come oggetti di second’ordine rispetto alle statue antiche – collezioni ‘de’ pover’uomini’ le bollarono i ‘v.i.p.’ dell’epoca; ma rimane che uomini di cultura e politici se ne valsero ripetutamente: nobilitate dalla loro antichità e dall’essere sopravvissute incise sulla pietra talvolta anche in forma monumentale, quindi rese quasi indubitabili nella loro forma di per sé solenne e autoritaria.
Singolare la fortuna del presunto monumento e sepolcro dello storico Tito Livio che, sulla scorta di un’epigrafe di Padova (autentica la pietra, ma che non aveva nulla a che fare con lo storico, falsa l’interpretazione che se ne volle dare) avrebbe confermato la cittadinanza patavina dell’illustre personaggio. Quanto poi a usi politici, un falso per giustificare l’antica origine di una città, meglio di un paese o di un paesino in questo caso, lo si poteva sempre improvvisare. E nella definizione sospettosa dei confini fra piccole entità locali, la loro parte la fecero, o si volle che la facessero, ad esempio pietre particolari disperse nelle campagne nei pressi delle vie di comunicazione più tradizionali: i miliari, nei quali con grafia spesso irregolare e confusa, qualche cenno geografico era tirato dalla parte di ogni contendente, per risolvere questioni di confini incerti.
Insomma, false o no, mai tranquille le epigrafi. Qualcuno che se ne interessasse non mancò mai. Ed oggi si può ben dire che esse hanno ripreso nuova vitalità, nelle esposizioni dei musei come nell’interesse del pubblico, come, per buona sorte, nell’attenzione, ma concreta e fedele, in cui non c’è più posto per i falsi, degli studiosi.
Antonio Sartori, cavaliere al Merito della R.I., si è occupato ‘da sempre’ di Epigrafia Latina, di cui è stato docente presso l’Università degli Studi di Milano dagli anni ’70 fino al 2011, insieme con alcuni incarichi contemporanei di Storia Romana e di Numismatica. Incaricato di stage all’estero, merita d’essere segnalato il corso di ‘evangelizzazione’ (proprio il primo) dell’Epigrafia Latina in Giappone (Tokyo, Waseda University e Istituto Italiano di Cultura), da cui la stampa di un manuale di avvio in lingua giapponese. Dopo il congedo, incaricato di Storia Romana nell’Università telematica Uninettuno. Autore di alcuni volumi – fra cui Guida alla sezione epigrafica… di Milano (1994), Gente di sasso (2000), Parlano anche i sassi (2001), Loquentes lapides (2014), Pietre che parlano (2020) e di numerosi contributi specifici, autonomi o a seguito della partecipazione a oltre un centinaio di convegni internazionali (di più di una decina dei quali è stato personalmente l’organizzatore). Accademico dell’Accademia Ambrosiana, svolge tuttora attività di consulenza aperta e volontaria per Enti pubblici e per cultori privati.