“Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale

Spesso il male di vivere ho incontrato (Ossi di seppia)

In queste due quartine di endecasillabi, Montale concentra la sua visione del mondo (come avviene anche in altre poesie della stessa raccolta, per esempio Non chiederci la parola) e «ribadisce con forza la mancanza di senso dell’esistenza tutta, il suo fondarsi sul vuoto, il suo manifestarsi nel male» (Testa). Nel «male di vivere» si è avvertita un’eco leopardiana («a me la vita è male»). Le immagini rispondono esplicitamente al criterio di “correlativo oggettivo” – che in seguito sarebbe stato messo a punto da Thomas S. Eliot – ossia all’introduzione di oggetti esterni che rappresentano emozioni e sensibilità del soggetto poetante: la natura inanimata che sembra soffrire (il ruscello interrotto), il mondo vegetale (la foglia morta), quello animale (il cavallo, che stramazza a terra, morto). L’unico possibile bene è l’Indifferenza (6; con una maiuscola che la assolutizza). È un concetto che si avvicina a quello di atarassia dei filosofi epicurei, la sublime imperturbabilità del saggio; e agli dèi di Epicuro, esistenti ma indifferenti e incuranti delle miserie degli uomini, potrebbe alludere l’epiteto di «divina» (6). La seconda quartina introduce altre immagini che rappresentano la condizione di distacco: il primo è la statua, un termine che figura anche in locuzioni correnti per rappresentare l’immobilità e la silenziosità di qualcuno («Non stare lì come una statua!») e che qui è potenziato, come se non bastasse, dal riferimento alla ridotta coscienza di un essere vivente, la «sonnolenza» (7), e all’ora meno attiva della giornata, il «meriggio» (8). Gli altri due, la nuvola e il falco, non indicano realtà immobili, ma realtà lontane dall’orizzonte umano. Pur senza nessuna concessione alla lingua poetica tradizionale, il lessico è attentamente selezionato, sia per i significati sia per gli effetti fonici: «riarsa» (4), messo in evidenza dall’inarcatura, richiama il gruppo rs di «incartocciarsi» (3); «seppi» (5) seguito da oggetto ha un sentore classico sia per il significato di ‘conoscere’ sia per l’uso, quasi epigrafico, del passato remoto (per il significato, si può confrontare con un esempio, anch’esso novecentesco, di Pavese: «soltanto il cieco sa la tenebra»); fortemente letterario anche «alto» (8) con valore avverbiale.

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

[5] Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua della sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

6 che schiude: il che può essere soggetto (‘che permette l’accesso all’indifferenza’) ma anche complemento oggetto.

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