“Specchi infiniti. Storia dei media in Italia dal dopoguerra ad oggi” di Andrea Sangiovanni

Prof. Andrea Sangiovanni, Lei è autore del libro Specchi infiniti. Storia dei media in Italia dal dopoguerra ad oggi edito da Donzelli: in che modo il sistema dei media ha interagito con lo sviluppo sociale, economico e politico del nostro Paese?
Specchi infiniti. Storia dei media in Italia dal dopoguerra ad oggi, Andrea SangiovanniQuesto è uno dei temi centrali del libro: io credo che la storia dei media non debba essere studiata come una storia “a parte”, ma come un elemento che ci permette di comprendere meglio la storia delle società dove quei media agiscono, sia in una dimensione nazionale sia sul piano internazionale e transnazionale. E ciò vale sicuramente per tutto il XX secolo, il secolo dei media elettrici, prima, ed elettronici e digitali, poi: del resto, Specchi infiniti può essere in qualche modo considerato lo sviluppo dei temi e delle questioni che erano alla base del lavoro precedente, Le parole e le figure, edito sempre da Donzelli, che analizzava la nascita e lo sviluppo del sistema dei media in Italia dalla belle époque alla seconda guerra mondiale.

In estrema sintesi, e per rispondere in modo più puntuale alla domanda, potrei dire che i media accompagnano lo svilupparsi della società italiana nel dopoguerra in due modi: rispecchiandola, da un lato, e guidandola, dall’altro. Il sistema dei media è, in qualche misura, specchio della società nella quale vivono, perché ne restituisce i valori e le idee guida: da questo punto di vista, l’aspetto che io trovo più interessante, è che un tale riflesso è sempre molteplice. Un esempio può far capire meglio: subito dopo la seconda guerra mondiale il sistema dei media ci restituisce una doppia immagine, contemporanea e sovrapposta: da un lato una voglia di rigenerazione, di rinascita, che passi anche, in qualche modo, attraverso la messa in scena e l’esposizione delle proprie debolezze, delle rovine materiali e morali, dei corpi emaciati e delle città distrutte; ed è chiaro che mi sto riferendo al neorealismo. Dall’altro lato, però, emerge una voglia di normalità, di ritorno a «come si era prima», non tanto una «rinascita» quanto una «ripresa» (e uso non a caso due termini utilizzati sulle pagine del Radiocorriere), che faccia dimenticare la guerra ma – quasi – anche il fascismo.

Allo stesso tempo, il sistema dei media sembra quasi «guidare» le trasformazioni sociali: o, per meglio dire, si comporta come un sismografo estremamente sensibile, capace di intercettare trasformazioni profonde della società, facendole salire alla superficie, talora anche in una sorta di eterogenesi dei fini. Un esempio di scuola, a questo proposito, è Carosello, la trasmissione televisiva nella quale la Rai relega la pubblicità: da un lato quella trasmissione è un chiaro esempio della forza del modello pedagogico e “umanista” della televisione delle origini che costringe la pubblicità dentro uno schema regolamentatorio cercando di rendere meno pervasivi e persuasivi i messaggi promozionali; dall’altro, però, è anche un fenomenale strumento di acculturazione al consumo, che intercetta e amplifica il desiderio di elevazione sociale attraverso il possesso dei beni materiali che sarà una delle molle psicologiche del “boom” economico.

Questo per quanto riguarda i processi profondi della società italiana, a cui poi ovviamente bisogna aggiungere la dimensione economica, l’aspetto industriale dello sviluppo mediale, che è un elemento centrale ed ineludibile (per quanto talora sottovalutato).

Qual era il panorama mediale italiano all’indomani della seconda guerra mondiale?
Il panorama mediale rifletteva perfettamente quello sociale, politico ed economico: i media italiani scontavano la divisione dell’Italia in due del 1943-1945, tanto che – per fare un esempio – il sistema radiofonico sarà ricostruito a partire da due “reti”, l’azzurra e la rossa, che erano esplicitamente considerate l’eredità della guerra civile e della frattura territoriale che avevano dilaniato il paese. E poi soffrivano delle distruzioni che la guerra aveva portato sul territorio: il cinema a Roma rinacque fuori dai teatri di posa di Cinecittà che erano adibiti a campi per i profughi.

Allo stesso tempo, però, il sistema mediale viveva quella stessa euforia che si respirava nel paese, con il moltiplicarsi delle testate giornalistiche, ad esempio, oppure con la diffusione della musica ballabile di provenienza americana che suonava nei V-disc e nei primi jukebox e anche la radiofonia si reinventava, sulla scorta di quanto era successo con le radio “libere” o “liberate” degli ultimi di anni di guerra, anche se ben presto si produrrà una forte “normalizzazione”.

In che modo le «rivoluzioni» del neorealismo e della televisione convissero con elementi di continuità degli anni del fascismo?
Questo è un passaggio centrale degli anni della ricostruzione, e un esempio di come la storia politica e sociale e quella dei media debbano essere considerate in parallelo. Infatti, gli elementi di continuità che caratterizzarono anche il sistema mediale sono parte di quel processo più ampio, ben delineato, sotto altri profili, da Claudio Pavone e messo in evidenza in tutte le ricostruzioni storiche di quel periodo. Più che la televisione, però, la continuità riguardò la stampa, la radiofonia ed il cinema: e fu una continuità di uomini e di “visioni”, di concezioni del medium.

In questa continuità (che non dovrebbe sorprendere a meno che non si considerino i processi storici come un susseguirsi di rotture improvvise e inattese) si inseriscono delle “rivoluzioni” che, tuttavia, hanno anch’esse, a ben guardare, un più o meno lungo processo di sedimentazione e di sviluppo. Così, il neorealismo ha una lontana matrice visuale in una corrente realista del cinema fascista e, in modo simile, come dicevo prima, la radiofonia tende a recuperare il modo in cui il linguaggio radiofonico si era sviluppato negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta (depurandolo evidentemente dalle incrostazioni retoriche e bellicistiche) più che a mettere a frutto i fermenti creativi di Radio Bari o Radio Napoli. Gli elementi di continuità, peraltro, sono ancora più facilmente percepibili nei manifesti (in particolare quelli politici) e nei cinegiornali, i cui commenti continuano ad essere letti dagli stessi speaker, ai quali ci vorrà un po’ di tempo per cambiare significativamente il modo di annunciare.

Ciò però, a mio modo di vedere, non significa mettere la sordina alle “rivoluzioni”, ma anzi sottolinearne la forza dirompente, che risiede nella loro visione del mondo o nella loro poetica, se si preferisce.

C’è poi, infine, una questione di controllo politico: e, del resto, i regimi politici degli anni Trenta, sia quelli totalitari che quelli democratici, avevano ben dimostrato quale fosse la forza dei mass media. Non stupisce quindi che anche la nascente democrazia italiana pensasse ad una qualche forma di “controllo” degli strumenti di comunicazione di massa, ovviamente lontano dal modello totalitario: è significativo, in questo senso, che il rinnovo del contratto di servizio del 1952 fra lo Stato e la Rai, oltre ad avere una durata ventennale, rinforzasse il controllo governativo sull’azienda. E, del resto, questo aspetto si sposava bene con la vocazione pedagogica del servizio pubblico, il cui documento più significativo resta forse ancora oggi le “Norme di autodisciplina per le trasmissioni televisive”.

Quale profondo cambiamento caratterizzò gli anni sessanta?
È difficile riassumere in poche parole la profondità dei cambiamenti degli anni Sessanta, a cui sono dedicati i capitoli centrali del libro: per inciso, credo sia utile sottolineare che la periodizzazione della storia del sistema mediale si sovrappone solo parzialmente con quella della storia della Repubblica, e che quindi questa fase di cambiamento – per quanto riguarda i media – si prolunga fino alla metà degli anni Settanta con la nascita delle radio e delle televisioni “libere”.

I cambiamenti, dunque. Tenendo sullo sfondo le trasformazioni sociali, economiche e politiche del paese, credo che gli sviluppi più rilevanti siano tre: il primo è che la televisione diventa veramente un medium di massa con un linguaggio proprio e autonomo. Ciò la trasforma in uno strumento di alfabetizzazione di massa, sia in senso letterale (con le trasmissioni educative, la più famosa delle quali è Non è mai troppo tardi) che in senso simbolico, con processi di acculturazione popolare portati avanti – ad esempio – con la stagione dei grandi sceneggiati. È una vera e propria operazione di pedagogia di massa, un processo articolato e complesso, dalle molte facce (anche opposte), che «fa» gli italiani, a partire dalla stessa lingua, per riprendere una famosa osservazione di Tullio De Mauro.

Il secondo riguarda la crescita dell’industria musicale, aiutata anche dalle innovazioni tecnologiche con l’arrivo dei nuovi formati del 45 e del 33 giri, la sempre maggiore portabilità della musica, il fenomeno dei juke boxes ecc. Il punto centrale è che, ancora più di prima, la musica – e in particolare la musica rock – diventa il linguaggio transnazionale di una nuova generazione, la baby boom generation, che sarà al centro di questo decennio. Parte qui quel processo che porterà a quei veri e propri happening musicali come Woodstock. Ma anche quel rinnovamento della radiofonia che passerà, in gran parte, attraverso programmi musicali, come Bandiera gialla ad esempio, oppure come l’esperienza delle “radio pirata”, le radio offshore del nord Europa. Anche in questo caso, un ruolo centrale viene giocato dall’innovazione tecnologica, con la progressiva miniaturizzazione degli apparecchi radiofonici derivante dall’invenzione dei transistor.

Il terzo aspetto riguarda un momento particolarmente felice del cinema italiano, con la nascita di due “generi” particolari, la «commedia italiana» e il «superspettacolo d’autore» (al quale potremmo aggiungere anche l’invenzione dello «spaghetti western» di Sergio Leone). È una fase in cui il cinema diventa capace di leggere in chiave critica la società italiana, attivando anch’esso processi di acculturazione informale che io ritengo particolarmente significativi e importanti: ne nascerà una «generazione cinefila», il cui immaginario non sarà più prevalentemente letterario. E tuttavia, nonostante il ruolo determinante del cinema di quegli anni, c’è un declino dell’industria del cinema e, in particolare, del suo segmento distributivo e legato all’esercizio: a dimostrazione, ancora una volta, della complessità e dell’articolazione del sistema mediale che non può essere letto in modo univoco.

Infine, credo che sia necessario accennare ad altri due aspetti: in quel decennio viene delineandosi la “controcultura” e acquista un ruolo sempre più significativo il fumetto (ad esempio con la nascita di “Linus”, la rivista italiana ispirata ad un personaggio dei Peanuts di Schultz), che nei decenni successivi giocherà un ruolo non marginale nella cultura di massa.

Quale nuovo mutamento di fondo avviene negli anni ottanta e novanta?
Per il sistema dei media italiano, il cambiamento più importante è sicuramente l’arrivo della televisione commerciale privata e la creazione del cosiddetto “duopolio”.

Anche in questo caso, in realtà, occorrerebbe risalire alla trasformazione avvenuta qualche anno prima, fra il 1974 e il 1976, quando la Corte Costituzionale aveva decretato la fine del monopolio: è una vicenda articolata che non posso riassumere qui ma che confido sia abbastanza ben conosciuta.

Dopo una fase estremamente dinamica, in cui erano stati sperimentati diversi – ed originali – modelli di radio e televisioni “libere” (come si diceva allora), il sistema – soprattutto quello televisivo – si era regolarizzato in seguito all’arrivo sulla scena dei grandi editori per poi essere rapidamente egemonizzato da Berlusconi, che era emerso come imprenditore edile negli anni Settanta e si era poi gettato nel segmento televisivo.

Ancora una volta, tuttavia, l’importanza dell’emittenza privata viene apprezzata meglio se si legge in un’ottica sistemica, connettendola con le trasformazioni sociali profonde del decennio precedente, nel quale erano riaffiorati modelli di comportamento collettivi che, già delineatasi negli anni Sessanta, erano sembrati scomparire nel decennio successivo, ma si rivelavano invece essere correnti carsiche: in questo senso il jingle di Canale 5, «corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta», diventa quasi lo slogan del ritornante individualismo, che i giornali derubricano a semplice fenomeno di costume (il «riflusso») ed è invece un tratto profondo della società italiana.

Avviene allora un cambiamento profondo: la televisione privata non è più il simbolo del diritto al pluralismo di opinione e di espressione ma diventa l’alfiere di un nuovo ed inedito “diritto”, quello all’intrattenimento.

Qui, ovviamente, il discorso si farebbe complesso e molto articolato, perché la televisione commerciale influisce anche sul modello di tv pubblica, il cui afflato pedagogico è sempre più debole; cambia i modelli pubblicitari; trasforma il modo di fare politica (anche se la politica aveva iniziato ad affacciarsi dai piccoli schermi sin dagli anni Sessanta); influisce sulla fruizione del cinema, rinforzando quella crisi dell’esercizio alla quale ho già accennato ma, allo stesso tempo, moltiplicando le occasioni per vedere film ecc. ecc.

E tuttavia, nonostante la tv diventi stabilmente il baricentro del sistema mediale, bisogna sforzarsi di guardare anche altrove, per capire quanto questo sistema continui ad essere vitale (e anche pieno di sorprese): così gli anni Ottanta e Novanta sono anni di rinnovamento dell’editoria e del giornalismo (anche in questo caso, però, occorre risalire al decennio precedente per vederne l’avvio: si pensi alla nascita del Giornale di Montanelli nel 1974 e di Repubblica nel 1976); sono gli anni in cui il fumetto assume quella dignità pubblica che fino a quel momento non gli era stata riconosciuta, sia per la capacità che mostra di raccontare i mutamenti profondi della società (si pensi ad Andrea Pazienza, ad esempio) sia perché diventa sempre più un medium popolare di massa (Dylan Dog, per fare solo un esempio, è del 1986). Sono, infine, gli anni della “popolarizzazione” dei computer, che diventano personal, e dell’arrivo dell’internet di massa, per quanto in entrambi i casi l’Italia arrivi con un certo ritardo.

E infine, ma non ultimo, i media si installano sempre più al centro della sfera pubblica iniziando a prendere il posto che fino ad allora avevano avuto i partiti, agenti della partecipazione popolare alla cosa pubblica: nel momento in cui la loro crisi diventa conclamata, saranno sempre più i media a costruire il discorso pubblico.

Come si è evoluto nella seconda metà del Novecento il mezzo radiofonico e quale posto occupa oggi nel sistema dei media italiano?
Talvolta sottovalutata, la radio è sempre stata una protagonista del sistema mediale italiano: ha partecipato alla creazione di una nuova e autonoma sfera pubblica nei difficilissimi anni della transizione dal fascismo alla Repubblica; è stata la protagonista indiscussa (assai più della televisione) degli anni della contestazione nella stagione delle “radio libere”; ha affrontato il passaggio dall’analogico al digitale con una notevole capacità di reinventare se stessa e il proprio linguaggio. E, infine, ha saputo utilizzare al meglio le innovazioni tecnologiche (dai transistor ad internet), cambiando ogni volta se stessa senza mai smarrirsi e senza perdere la propria identità comunicativa. Una adattabilità e una resilienza che ha mostrato anche nell’ultimo anno, nonostante le restrizioni al movimento abbiano ridotto l’ascolto in auto (che era la forma di ascolto più frequente).

Del resto, una delle caratteristiche fondamentali della radio è la sua leggerezza, sia in termini tecnologici, cosa che le permette di adattarsi ai cambiamenti tecnologici con poco sforzo, sia in termini di linguaggio e modelli di fruizione, cosa che la rende resiliente, parte non ingombrante ma fondamentale della nostra esistenza di fruitori dei media.

Quali conseguenze produce sul sistema dei media l’emergere dei «nuovi media»?
Occorre premettere che ciascun medium ha avuto un momento in cui era “nuovo” rispetto agli altri; e, ogni volta, ha “preso in prestito” il linguaggio dei “vecchi” media, adattandolo alle sue caratteristiche: è quel processo che coloro che studiano i media definiscono “rimediazione”, ed è un processo ricorrente.

Detto questo, se per nuovi media, come credo, si intende l’attuale scena mediale digitale (web, piattaforme, smartphones ecc), le conseguenze sono profondissime e non saranno di breve periodo. E tuttavia mi piace citare qui le parole con cui termino l’introduzione del libro: credo che la radicale trasformazione che ha investito il sistema dei media da almeno un paio di decenni debba essere vista come «parte di un processo di più lungo periodo, quasi come il momento apicale di una lunga fase di transizione fra il XX e il XXi secolo. E, del resto, proprio negli anni venti del secolo scorso, dopo una lunga gestazione, alcuni media che erano stati inventati alla fine dell’Ottocento, dal cinema alla radio, iniziavano a diventare veramente di massa, aprendo una fase nuova nella storia dei media: allora venivano inventati linguaggi nuovi le cui fondamenta, tuttavia, erano costituite dalle forme di spettacolo pubblico fino ad allora dominanti, dal teatro alla narrativa popolare. Memori dell’andamento ciclico che sembra caratterizzare l’evoluzione dei mass media, è difficile non cogliere la suggestione e trattenersi dall’immaginare che questi anni potrebbero costituire il punto di avvio di una nuova era della comunicazione di massa: di sicuro, però, le sue radici affonderanno nelle pratiche, nei processi e nei linguaggi che hanno caratterizzato il sistema dei media nella seconda metà del novecento»

Quale futuro, a Suo avviso, per il sistema dei media italiano?
A questa domanda forse un massmediologo saprebbe rispondere meglio di quanto possa fare io che studio il passato e mi limito ad osservare il presente, senza arrischiare previsioni sul futuro. Del resto, l’evolversi del sistema mediale è particolarmente sfuggente: si tende infatti a dimenticare che ciascun medium è sempre il risultato di un complesso processo di negoziazione che coinvolge tecnologia, industria, produttori di contenuti, forze politiche ma anche – e non in misura secondaria – i fruitori, il pubblico (e oggi sarebbe meglio dire i pubblici, al plurale). Si pensi ad esempio ad un fenomeno che è stato osservato negli ultimi mesi: la televisione generalista, data per moribonda di fronte all’arrembaggio delle piattaforme di vario genere e al moltiplicarsi degli schermi, ha dimostrato una inaspettata capacità di resilienza, riprendendosi il centro della scena mediale, soprattutto nei primi mesi della pandemia.

È dunque difficile dire cosa accadrà nel sistema dei media italiano: credo che la trasformazione in atto non sia reversibile, ma non sono certo che essa trasformerà radicalmente i linguaggi (o le modalità di fruizione) dei media “tradizionali”. O, almeno, non sono certo che lo farà per tutti i pubblici esistenti: immagino, dunque, che la fase di transizione sarà ancora lunga.

Di una cosa invece sono sicuro: che sarà sempre più difficile parlare di sistemi mediali nazionali. Da questo punto di vista, il Novecento è decisamente passato e i media andranno sempre più studiati e analizzati in un’ottica globale e transnazionale.

Andrea Sangiovanni insegna Storia contemporanea, Storia dei media e Public History all’Università di Teramo. Tra le sue pubblicazioni: Tute blu (2006), Le parole e le figure (2012) e L’autunno caldo (con A. Becchi, 2019).

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