“Spatriati” di Mario Desiati

Spatriati, Mario DesiatiSpatriati
di Mario Desiati
Einaudi

Incipit

«Quando un fronte d’aria fredda incontra a terra una massa d’aria calda, quest’ultima si alza al cielo. Nascono i temporali. Pioggia e fulmini, acqua e fuoco. Non ho mai capito chi tra i due fosse il caldo e chi il freddo, ma mi ritengo fortunato di aver incontrato il mio fronte opposto in Claudia Fanelli, la spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati.

La notai la prima volta nell’atrio della scuola e desiderai i suoi capelli rossi, la pelle lunare, il naso pronunciato. Aveva l’aria d’essere piovuta lì da un altro mondo, più evoluto e illuminato.

Mi chiamo Francesco Veleno, sono il figlio unico di Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, due ex atleti dilettanti, che si sono innamorati durante una puntata di Giochi senza frontiere e per tutta la mia infanzia mi hanno cresciuto con l’idea che li avrei riscattati dal misterioso incidente di avermi messo al mondo. Ancora ero lontano dal sapere che molte relazioni vanno avanti, come avrebbe detto Claudia, per «ragioni di Stato». E sempre grazie a lei avrei capito che non esistono ragioni di Stato così stringenti da obbligare tre persone tanto diverse a vivere insieme, a meno che non si sconti una pena. La corte che aveva condannato Elisa e Vincenzo a rimanere insieme nonostante l’evidente disamore risponde alla crudele legge del quieto vivere, aspro codice umano che nei luoghi più piccoli richiede rigore e assoluta severità.

Prima di Claudia, la realtà era quella che mi raccontavano e non quella che vedevo. Facevo parte del novero di quelli che si lasciano spingere dagli altri, dagli eventi, dalle prescrizioni, dai pregiudizi. I coniugi Veleno mi spingevano verso una vita senza smottamenti, tranquilla, il minimo necessario per non soffrire. A loro, in fondo, era andata bene così.

Lui, professore di educazione fisica – aveva anche praticato brevemente la scherma insieme a mia madre –, aitante, spregiudicato, girava con una Beretta M9 regolarmente denunciata da cui non si sarebbe mai separato. Non vedevo ancora nei maschi bianchi di mezza età armati di pistola le vanaglorie sessuali perdute.

Mia madre era infermiera nell’ospedale di Martina Franca. Per un breve periodo della mia infanzia mi aveva chiamato «Uva nera», perché a Martina tutti coltivano uva bianca verdeca, asprigna, da cui fanno un vino secco che rende brillanti con due sorsi. E lei invece aveva fatto un figlio con l’incarnato olivastro, bruno, come quello dei contadini alla fine dell’estate o i saraceni delle antiche cronache. Con l’uva nera si fa il Primitivo o il Negramaro. Vini da offuscamento della ragione. Tenerlo presente al momento delle decisioni impulsive della mia vita sarebbe servito.

Nessuno in famiglia aveva i miei tratti. Nessuno scuro come me, nessuno con un’attaccatura dei capelli così alta, la fronte libera e il fardello della pigrizia che mi inchiodava sul divano a leggere giornalini insulsi. Durante il pomeriggio spesso ero solo, mia madre viveva praticamente in ospedale, a volte spariva per due o tre giorni di seguito. Mio padre dopo le ore a scuola si perdeva nei bar di paese millantando avventure e rievocando il suo passato da atleta, per tornare con i vestiti stropicciati e una smorfia allusiva, come di chi ha compiuto un’impresa e non vede l’ora di raccontarla. Ma non la raccontava mai. Forse perché io avevo paura di chiedere o forse perché credeva che non avrei potuto capire.

Erano diversi, mia madre e mio padre, e lo erano anche nei tempi verbali quando si rivolgevano a me. Elisa era donna del presente, spesso in prima persona plurale: «Usciamo». Mio padre non conosceva che il tempo passato e ogni tanto il tempo futuro quando parlava di me. Abbarbicato ai ricordi, a un elenco di aneddoti gloriosi per lui, noiosi per tutti gli altri.

Su una cosa Vincenzo Veleno ed Elisa Fortuna si ritrovavano in una miracolosa convergenza: non avevano frequentato un solo giorno di liceo classico, ma ne avevano il rispetto che si porta per un’entità irraggiungibile. Aveva formato le menti dei loro capi, medici primari, presidi, provveditori. Tutte teste uscite dal liceo di Martina Franca. Dicevano che con il latino mi si sarebbero aperte le porte, e che tra i banchi avrei incontrato i figli delle famiglie importanti. Consideravano quel percorso la cosa più opportuna. Gente che conosce perfettamente la verità degli altri ma non la propria.

Per Claudia i primi tempi non esistevo. Era la più alta della scuola, i capelli rossi sfavillavano sul collo – la tonalità delle marasche che i miei nonni avrebbero raccolto in estate per trasformarle in barattoli di confetture granata e amaranto. Gli occhi di un colore diverso l’uno dall’altro, marrone chiaro e verde azzurro, quegli occhi che qui chiamano «di bosco». Aveva ossa sporgenti, zigomi appuntiti, il viso magro e allungato.

Durante la ricreazione l’atrio del Tito Livio si svuotava, gli studenti correvano ad accalcarsi contro il muro per abbeverarsi d’ombra. L’unica al sole era lei. Se qualcuno avesse potuto osservare il quadrato dell’atrio dall’alto avrebbe visto un deserto d’asfalto con un puntino rosso al centro. Si portava addosso alcuni miei stessi vizi antisociali: si toccava il naso e si arrotolava una ciocca di capelli attorno all’indice. Tra i suoi libri spiccava il cartoncino colorato dei manga di Rumiko Takahashi, arrivava a scuola ascoltando musica con le cuffie senza curarsi di nessuno. Nel cambio d’ora affilavo matite stando nei suoi paraggi, chiacchieravo con insipidi compagni dalle facce squadrate e l’alito di Philip Morris. Un giorno sentii lo squallido interrogatorio al quale era stata sottoposta da un drappello di usurpatori delle sue attenzioni: «Perché stai sola?», «Perché non fai come gli altri?» Intendevano dire: «Perché sei come sei e non sei come noi?» Insistevano con aria melliflua, la incalzavano, e Claudia rispose: – È già difficile essere uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri.

Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato che potessero giudicarmi inadatto. Venivo da un’infanzia di oratori di campagna e squadracce di calcio di periferia, con allenatori che allungavano le mani e preti con la gamba di legno che si facevano frizionare l’arto monco in sagrestia, mentre nella chiesa vuota i più ribaldi giocavano a pallone usando l’altare come porta.

I Veleno non parevano preoccupati dei segni rossi che mi disegnavano le gambe, non si preoccupavano che pregassi o peccassi, nemmeno quando tornavo dalla campagna pieno di terra, umiliazione e odore di concime.»

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