“Spade, serti e diademi. Carducci fra poesia e impegno civile” di Alberto Brambilla

Prof. Alberto Brambilla, Lei è autore del libro Spade, serti e diademi. Carducci fra poesia e impegno civile edito da Aracne: quale travaglio interiore visse il poeta nella ricerca di un modello di impegno politico e insieme culturale?
Spade, serti e diademi. Carducci fra poesia e impegno civile, Alberto BrambillaPrima di rispondere desidererei, se mi è concesso, fare due premesse. La prima è ovvia e tuttavia necessaria. Mi accingo a sintetizzare in poche frasi e con poco tempo a disposizione i contenuti di un volume di circa 400 pagine, scritte nell’arco di un ventennio e più; il che significherà per forza di cose banalizzare, smussare angoli, abolire le sfumature, evitare insomma le discussioni e le esitazioni feconde che ogni libro serio deve contenere. D’altra parte comprendo il senso dell’operazione, sia chiaro e lo scopo di dare al lettore almeno un’idea del volume. La seconda cosa che mi preme dire, e di cui mi sono accorto solo ora, è che il libro una volta stampato continua in realtà a crescere e a modificarsi nella testa del suo autore, a volte anche grazie alle domande che gli vengono rivolte, o al confronto – purtroppo sempre più raro – con altri studiosi. Così ora che mi accingo a rispondere faccio fatica a ripensare a quello che ho davvero scritto, e piuttosto, se potessi scegliere, vorrei concentrarmi su quello che scriverò o che avrei dovuto scrivere. È una questione non di poco momento su cui ha insistito un maestro come Carlo Ginzburg. Non voglio però insistere oltre e incomincio a svolgere il mio compito e quindi a rispondere alla sua prima domanda.

Anche se di natura piuttosto selvatica e ribelle, grazie soprattutto agli studi e al confronto-scontro col padre Michele, impegnato politicamente sul fronte democratico-repubblicano, Giosue (meglio scriverlo senza l’accento) scopre sin da ragazzo le iniquità presenti nella società e incomincia ad interrogarsi sulla loro ragione e su come risolvere le ingiustizie e le contraddizioni sociali. Questa confusa esigenza, nata grazie a letture svariatissime ma sempre formative a livello morale, poco alla volta trova specchio e forma in alcuni modelli politici allora ‘disponibili’, come per esempio la proposta repubblicana di matrice mazziniana, che tuttavia non esclude altre modalità di rivolta più radicale che Carducci recupera dalla Rivoluzione francese e dalla più moderna versione ‘petroliera’ della Comune che infiamma la Francia nel 1871.

Nel frattempo la secolare questione dell’Unità d’Italia aveva trovato una parziale risoluzione nel 1861 grazie ad una serie di eventi fortunosi, allo straordinario ed eroico impegno di Garibaldi, alla diplomazia di Cavour e alla guida sicura di Vittorio Emanuele II. Ancora vicende eccezionali, in primis la guerra franco-prussiana (1870), avevano consentito alle truppe italiane di occupare dopo secoli di attesa Roma e di farne la capitale del Regno. Quello che sino ad allora era stato un sogno soprattutto culturale diviene ora realtà politica.

Come si pone Carducci davanti a questi fatti epocali? Lavora contemporaneamente su almeno due fronti. Da un lato, non cessa di attingere dalla linfa feconda della tradizione culturale italiana, cercando di mettere in evidenza una continuità tra essa e la grande memoria letteraria greco-romana. In questa direzione il suo sforzo più interessante è quello di far convivere un’esigenza socio-politica innovativa con le forme retoriche classicistiche, sia pure rinvigorite dallo sperimentalismo della metrica barbara. Al polo opposto, quello dell’impegno spiccatamente politico, Carducci non si chiude mai in una torre d’avorio, ma scende in campo in prima persona, sia come docente universitario, sia come intellettuale che assume diverse cariche nelle istituzioni e interviene costantemente nella vita pubblica, non solo come poeta ma anche come polemista e giornalista. Il suo sguardo, lo ribadisco, è sempre rivolto al passato dell’Italia, ma mai in modo sterilmente nostalgico. Anzi, da tale confronto deriva continuamente uno stimolo per migliorare il paese, risolvendo anche i problemi più concreti della vita quotidiana delle masse. Insomma, per usare uno slogan comprensibile a tutti questo è grosso modo il pensiero di Carducci: è soprattutto dal passato che si trae l’energia e l’intelligenza per modificare il presente e progettare il futuro; ma poi bisogna confrontarsi con l’oggi e il domani che sono diversi rispetto al passato. Queste esigenze, spesso contraddittorie, non trovano, come è ovvio, soluzioni definitive, ma concorrono alla creazione di nuovi miti culturali, modelli di impegno per il presente che purtroppo riescono solo raramente a incarnarsi in uomini-eroi come per esempio Garibaldi che partecipa delle antiche virtù guerriere italiche ma sa sconfiggere i nemici coi fucili, gli assalti e una specie di guerriglia. Va detto inoltre che già a partire dalla metà degli anni settanta Carducci avverte il pericolo di un diffuso trasformismo politico, di un degrado morale diffuso. Le classi sociali che vorrebbero e dovrebbero evolversi sul piano ad esempio dell’istruzione o della consapevolezza civile non trovano nella classe dirigente una guida autorevole. Da qui appunto un travaglio che continuerà nei decenni successivi. La domanda implicita è però in fondo sempre la stessa: quale forma di governo, quali ideali politici e sociali si possono realmente perseguire per il bene del paese? La risposta di Carducci non è mai univoca, è un misto di aspirazioni e delusioni, di duri confronti, di revisioni, di mediazioni…

Quale visione della storia si riscontra nel lavoro di antologizzatore di Carducci nelle pagine delle Letture del Risorgimento?
Per rispondere occorre fare un passo indietro e ricollegarsi a quanto dicevo sopra. Nell’attività diciamo civile di Carducci, nella sua partecipazione personale al Risorgimento, c’è un vulnus originario che non sarà mai sanato. Alludo alla mancata partecipazione di Giosue alle vicende belliche e in particolare alla seconda guerra di indipendenza. Contrariamente a molti dei suoi coetanei, egli non vi poté partecipare per oggettive ragioni personali, essendo divenuto dopo la morte del padre il principale sostegno economico della famiglia. Tale colpevole assenza gli sarà più volte rinfacciata e sempre Carducci si difenderà a dovere, con le unghie e coi denti. In effetti nel mio libro insisto molto su questo aspetto (sinora noto ma forse meritevole d’essere approfondito), operando una serie di confronti, in particolare con l’ex ufficiale Edmondo De Amicis (“il capitan cortese” irriso dal poeta, ma i due poi si riconcilieranno) che invece è anche uomo d’azione e partecipa alla guerra contro l’Austria. Tale vulnus, sempre sanguinante, determina a mio parere la scelta di diventare comunque un combattente non con le armi, ma con l’impegno come intellettuale (qui si svela il titolo del libro, Spade, serti – ossia l’impegno poetico – e diademi che invece allude alla regina Margherita di Savoia). Quindi: insegnamento, poesia e giornalismo al servizio della patria, mantenendo comunque la propria capacità di giudizio indipendente e a volte persino irritante per i suoi compagni di viaggio. Per questo si deve valutare la posizione di Carducci caso per caso, senza pregiudizi.

All’inizio degli anni ottanta molti nodi vengono al pettine. Morti i principali protagonisti del Risorgimento (ultimo l’amatissimo Garibaldi, nel 1882), su impulso anche della Massoneria – una indiscutibile forza propulsiva per la costruzione dell’Italia risorgimentale – Carducci incomincia a misurare le istanze ideologiche e le speranze di rinnovamento sociale con la realtà di un’Italietta debole e divisa, schiacciata sul piano internazionale da un lato dalla Francia, dall’altro dagli imperi centrali. Si impongono dunque scelte dolorose, che tuttavia non significano mai, lo ribadisco, un appiattimento o un servilismo verso chicchessia.

Dopo vari dubbi e comprensibili esitazioni, Carducci comprende, obtorto collo, che la strada è stretta, anzi quasi obbligata. L’unica autorità riconosciuta ed apprezzata è la monarchia sabauda, e ad essa il Regno deve la sua unità militare, politica ed amministrativa. A questo dato di fatto, di cui uno storico della cultura come Carducci non può non acconsentire, si aggiunge l’incontro personale del poeta con la regina Margherita, ammiratrice delle Odi barbare; sarà come una folgorazione, una sorta di segno del destino che il poeta celebrerà con celebri versi. Queste concause concorrono a determinare il passaggio – che è lento, mutevole e mai dato per scontato – di Carducci al fronte filo monarchico. Se le istanze sociali dei rivoluzionari vanno mantenute vive, soprattutto di fronte al malcontento delle masse contadine e al progressivo decadimento dell’impegno civile della classe borghese, occorre remare tutti dalla stessa parte se si vuole restare a galla in un mare sempre più inquieto a livello internazionale. Volenti o nolenti, bisogna dunque sostenere la monarchia, simbolo di identità della nazione. Questo l’intento del professore-poeta.

Il lungo impegno per confezionare i due corposi volumi delle Letture del Risorgimento italiano (1896-97) va collocato in quest’ambito. All’inizio degli anni novanta Carducci – per altro già minato nel fisico – comprende che la sua poesia ha perduto forza ed incisività, anche (aggiungo io) di fronte a nuove tipologie di comunicazione, in particolare gli aborriti romanzi. La militanza poetica non è più sufficiente, occorre una diversa prospettiva di lavoro. Da qui il progetto di raccogliere una serie di scritti che illustrino la genesi e lo sviluppo del Risorgimento italiano partendo dalle sue lontane origini settecentesche; il primo volume copre infatti l’arco cronologico 1749-1830, il secondo prosegue e si conclude con la morte di Garibaldi (1882). Senza addentrarci nelle varie tipologie dei testi inseriti, in cui non ha comunque spazio la poesia, vale la pena di sottolineare lo spirito e il disegno di Carducci. Pur essendo pienamente convinto dell’importanza della letteratura (a partire dal padre Dante) per la costruzione del Risorgimento italiano, Carducci vuole qui lavorare con altri strumenti, soprattutto di carattere storico e documentale. L’idea che sostiene la costruzione, innestata in uno schema filosofico di stampo hegeliano, è appunto quella di un edificio che inizialmente fragile si alimenta grazie alle conquiste della rivoluzione francese, cresce in modo dialettico e trova infine la sua sintesi poderosa nell’Unità e nella forma monarchica. Così facendo, Carducci giustifica e insieme amplifica la sua personale conquista politica facendola diventare una proposta aperta che trova giustificazione nella storia stessa. In tal modo egli cerca di conciliare in una sintesi ideale le diverse anime ideologiche ancora presenti nel Regno. Tutte hanno avuto una funzione fondamentale, a partire dall’impeto democratico rivoluzionario venuto dalla Francia e poi dal progetto repubblicano di Mazzini. Per questi valori, che Carducci non esita a esaltare, molti uomini sono morti da eroi e patrioti. Ma poi la storia muta e impone nuovi sviluppi e nuovi protagonisti (in particolare i Savoia eredi di una grande tradizione militare): ora è venuto il momento di sviluppare una nuova storia condivisa. Questo, in sintesi, il discorso sotteso alle Letture del Risorgimento, che Carducci pensa debbano diventare una sorta di bibbia laica, una specie di educazione civica e identitaria nazionale da diffondere il più possibile, nelle scuole e oltre. Come si vede, si tratta di un progetto ambiziosissimo finora restato un po’ nell’ombra ma che invece credo sia fondamentale per comprendere Carducci e la sua epoca.

Quali echi è possibile riscontrare tra l’opera di Carducci e figure come Oberdan, Ascoli e Tommaseo?
La domanda mi permette di chiarire ulteriormente la posizione di Carducci rispetto al potere politico, che è uno dei poli dialettici del mio libro (l’altro è l’impegno dell’intellettuale Carducci). Se è indubbia la sua evoluzione (uso il termine in senso positivo perché ritengo sia stato un atto di intelligente interpretazione storica oltre che un gesto di pragmatismo politico) in prospettiva filomonarchica, è altrettanto certa la sua totale autonomia nei confronti della politica governativa. La figura e l’opera del grande glottologo Ascoli, così come quella di Tommaseo, sono da me da messe sullo sfondo appunto per distinguere il loro operato rispetto a quello di Carducci. La questione, spinosa e irrisolta, riguardava il nodo delle cosiddette terre irredente, soprattutto quelle inerenti il confine orientali. Di fronte ad una posizione aperta e possibilista proposta dal sedicente slavo Tommaseo (ma ovviamente il tema è ben più complesso), oppure a confronto di quella del tollerante Ascoli, che mirava ad un’autonomia culturale piuttosto che a un’indipendenza politica, Carducci è categorico: quelle terre sono italiane per lingua, tradizioni, cultura e dunque devono tornare a far parte del Regno d’Italia. Insomma, per ragioni anche affettive e biografiche (penso qui al suo viaggio a Trieste con Lina o al rapporto quasi paterno con giovani fuorusciti come Giuseppe Picciòla) in Carducci prevale non tanto la realpolitik quanto il primato della storia e della cultura. Lo scontro con gli ambienti governativi, e con la stessa politica estera di Re Umberto è perciò duro e senza sconti. Di fronte agli accordi con gli Imperi centrali ratificati dalla Triplice alleanza nel 1882 e in seguito rinnovati, Carducci, anche a costo di incorrere in gravi sanzioni penali, colloca la figura simbolica del martire Guglielmo Oberdan, impiccato nel castello di Trento. È un esempio clamoroso di dissonanza, su cui ho molto insistito nel libro, riprendendo alcuni miei precedenti studi sulla cultura giuliana; e questo problema dei confini orientali continuerà a rimanere ben vivo in Carducci, anche rispetto a quanto andava predicando costruendo le Letture del Risorgimento. Ma non è quella la sola prova possibile di una distanza incolmabile con le scelte governative. Certo è che questa esaltazione di Oberdan – che contrariamente a quanto si possa immaginare ha un’origine repubblicana, di sinistra, nella scia del pensiero mazziniano, sia pure forse male interpretato – ci presenta un Carducci ancora diverso; non molto distante, per intenderci, da quello, che si farà ammaliare dall’ex garibaldino Francesco Crispi e dalla sua sciagurata politica coloniale. Crispi rappresentava per Carducci il sogno di una grande Italia a livello internazionale, finalmente in grado di essere pari alla sua gloriosa storia, che aveva le sue radici addirittura nei fasti dell’impero romano. Facile qui intravedere alcuni miti, anzi alcuni stereotipi, che saranno ripresi con vigore da D’Annunzio (un altro coprotagonista del mio libro) e poi, con minore fortuna, da altri. Tutto ciò ribadisce la necessità di affrontare con la massima cautela il caso Carducci che ai miei occhi appare molto più sfumato e in qualche caso enigmatico rispetto alle consuete interpretazioni radicali: applausi per il Carducci petroliere rivoluzionario, fischi per il filo monarchico campione della reazione. No, il problema Carducci è molto più complesso e sfumato: spero che il io libro inviti a riflettere in tale prospettiva.

Alberto Brambilla fa parte dell’Équipe Littérature et Culture Italiennes (ELCI) della Sorbona. Inoltre è membro del Comitato Scientifico per l’Edizione Nazionale delle opere di Giosuè Carducci. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, dedicate a nodi culturali fra Otto e Novecento (ad esempio l’Irredentismo e la letteratura giuliana), a particolari fenomenologie letterarie (come la Letteratura popolare e in particolare l’opera di Salgari), ed ad alcuni protagonisti della cultura italiana quali Ascoli, Carducci, De Amicis, Novati, Croce.

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