
Che rapporto esiste tra la struttura e la cosiddetta “sovrastruttura”?
Da Adam Smith in poi, in modo speculare, l’analisi economica poggia su un cardine fondamentale: il rapporto tra società naturale e società artificiale o, se si preferisce, il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Il liberalismo da sempre tende a privilegiare la prima valutandone i meriti e anche la capacità di “mantenere” la seconda che, quando “trasborda” dai suoi confini, crea solo scompensi e conseguenze antieconomiche. Insomma l’ordinamento liberale dello Stato non è altro che la neutralità benevola dello Stato nella vita economica. Gli oppositori del liberalismo – a esempio potremmo citare lo stesso Marx – guardano al fenomeno, dicevo in modo speculare, e vedono la sovrastruttura come l’involucro protettivo dell’attività economica. Da qui nascono le due diverse concezioni politiche ed economiche, che tutti conoscono ampiamente, che si diversificano nelle conseguenze ma non nei presupposti di partenza. Si potrebbe quasi dire, come ha sostenuto Massimo Cacciari a proposito del mio libro, che si tratta di due diverse utopie, “in termini rovesciati, mani invisibili liberiste e pianificazioni socialiste”.
Per quali ragioni si può affermare che la sovrastruttura giuridica e morale costituisce una condizione preliminare per lo sviluppo della struttura stessa?
Quello che intendo porre in evidenza con questo studio è che la “sovrastruttura” giuridica e morale non è solo una conseguenza e una proiezione della struttura economica, ma anche una condizione preliminare che consente la nascita e lo sviluppo della struttura stessa la quale, mano a mano che si sviluppa, può perfezionare e arricchire il diritto e la morale. Il rapporto tra la cosiddetta struttura e sovrastruttura è così stretto e vincolante che chiedersi quale delle due causi l’altra è un po’ come chiedersi se sia nato prima o l’uovo o la gallina. Certe condizioni socio-giuridiche facilitano la nascita e lo sviluppo delle attività economiche soprattutto quando non pretendono di entrare nella fase decisionale e di gestione delle attività stesse. Fungono insomma da premesse: la rivoluzione industriale inglese fu possibile perché gli inglesi avevano attuato prima la rivoluzione dei diritti che garantivano certe possibilità di azione e di impresa. Questo non vuol dire però che il momento istituzionale deve poi sovrastare il momento economico perché, altrimenti, è l’economia stessa a subire una involuzione. La grandezza della pax romana, e poi della pax britannica, fu tale perché certi governi garantivano i diritti ma non governavano l’economia tanto è vero che, come già si diceva nel mondo antico, tali sistemi politici governavano poco. Come ci ha ricordato più di qualche pensatore, già Tocqueville osservava che, in una realtà sociale che si fonda sul commercio, i cittadini amano l’ordine, apprezzano la morale riconosciuta e mostrano preferenza per le attività pratiche più che quelle teoretiche. Questa è una delle caratteristiche più salienti della civiltà occidentale che, per questo, ha inventato il mercato e ha ritenuto che il futuro della società si fondasse sulla stabilità e sulla concorrenza e su tutto ciò che da questo deriva. Questi contenuti sono diventati quasi lo spirito delle democrazie e sono andati ad aggiungersi ad altri requisiti divenuti altrettanto irrinunciabili. È altrettanto vero che tali requisiti finiscono per delineare la visione antropologica di una data epoca. Chi può negare che lo “spirito economico” è strettamente connesso all’idea che gli uomini, in un determinato momento storico, hanno della ricchezza, del suo impiego e dei suoi fini? Chi può negare che la liceità dell’uso di alcuni strumenti varia a seconda del modo di intendere i rapporti con gli altri?
Quando e come origina lo sviluppo economico?
La prosperità e lo sviluppo sono tipiche di una certa cultura che sappia armonizzare il momento politico con quello economico ed entrambi con le arti e le conoscenze di diverso genere. La controprova Smith la trova esaminando le colonie. Il loro sviluppo dipende da una serie di fattori, non solo economici. I coloni portano con loro una conoscenza dell’agricoltura e di altre arti utili superiore a quella che può affermarsi spontaneamente. A ciò si aggiungano le favorevoli condizioni ambientali e l’abbondanza di terra e di risorse naturali. Ma tutto questo non basta, perché alcune colonie si sono sviluppate più velocemente di altre? A parere di Smith questo è dipeso dal fatto che, pur avendo un insieme di fattori ambientali favorevoli e comuni a ogni espansione coloniale, solo le colonie inglesi avevano un retroterra istituzionale favorevole al progresso. È la riconferma che, anche per il filosofo scozzese, non c’è reale sviluppo economico se non ci sono le premesse politiche e le istituzioni capaci di assicurarlo. Ben prima del suo classico lavoro che lo ha reso universalmente famoso, Smith affrontò i suddetti problemi in un ciclo di lezioni, agli inizi degli anni sessanta del ’700, raccolte sotto il titolo di Lectures on Jurisprudence. In queste pagine Smith sembra aver seguito quasi un piano suggerito da Montesquieu. Cercò di tracciare il processo graduale della giurisprudenza dai primordi ai suoi tempi. L’importante è che questo tentativo riguardò tanto la giurisprudenza pubblica quanto quella privata per arrivare a evidenziare come esse abbiano contribuito alla creazione, alla accumulazione e ai miglioramenti della proprietà. Nell’ultima parte delle sue lezioni esaminò anche quelle regolamentazioni politiche che consideravano il principio della convenienza (expediency), e non tanto quello della giustizia, per cercare di capire come quelle potessero accrescere le ricchezze, il potere e la proprietà dello Stato. Evidenziò così come considerasse le istituzioni politiche in strettissima relazione al commercio, alla finanza e, più in generale, ai diversi problemi dello establishment. Va forse ricordato che il termine giurisprudenza è usato da Smith in senso abbastanza ampio. A volte è anche definito come «la teoria delle regole attraverso le quali i governi civili dovrebbero essere diretti» o anche «come la teoria dei principi generali della legge e del governo». Ma i principali aspetti della giurisprudenza sono il mantenimento della giustizia, il provvedere alla sicurezza al fine di promuovere la ricchezza, la crescita del reddito, la costituzione di un esercito per la difesa. Si può ben vedere come fattori politici ed economici siano strettamente interconnessi. Interessante, per quello che voglio dimostrare, è il fatto che in queste pagine si discute anche sul fine del governo, ma soprattutto dei margini del potere. Ne emerge una sorta di collaborazione tra momento politico e quello economico pur rimanendo entrambi entro i propri limiti che, soli, possono garantire un loro reale sviluppo. Dove il momento legislativo e quello economico si intersecano di più è nel modo di acquisire e difendere la proprietà che, comunque la si voglia giudicare, costituisce quasi la ragione della nascita della giurisprudenza. Proprietà che non è un dato della società naturale, se non in modo confuso, ma che matura e si sviluppa, come prevedeva la riflessione giuridica latina, nella storia dell’uomo.
Quale importanza ha assunto storicamente lo spirito religioso per lo sviluppo economico?
Tanti altri aspetti della vita dello spirito entrano nella vita economica. Averli evidenziati costituisce forse uno dei più grandi meriti di Max Weber che analizzò anche altre componenti essenziali della vita sociale ed economica. Anch’egli però non vide perché, quelli che potevano essere i motivi ispiratori di un certo capitalismo, finivano poi per essere annullati dal capitalismo stesso. Per esempio, dando per scontato che il capitalismo sia stato generato e animato da uno spirito religioso, non bisogna poi dimenticare che, per alcuni, è poi divenuto almeno estraneo a ogni spirito e ad ogni etica religiosa. A ben vedere forse tale spirito era di convenienza o, quanto meno, superficiale. Un testo dimenticato troppo in fretta, Capitalismo e schiavitù di E. Williams, dimostra come non pochi uomini “devoti ed esemplari” nella vita pubblica e privata furono i principali artefici di quella schiavitù dei neri che incrementò il decollo economico delle terre del Nord America. Sempre Williams ci ricorda che il fenomeno non riguardò solo i neri, che anzi cominciarono a essere sfruttati solo dopo che si “esaurì” la fonte dei bianchi dell’Europa. Questo era stato, infatti, il destino della maggior parte degli irlandesi fatti prigionieri da Cromwell. Come è potuto avvenire tutto questo? Anche Weber sembra porsi questo interrogativo quando sostiene che, nella terra in cui lo spirito capitalistico e le sue conseguenze sembrano essersi affermate di più «negli Stati Uniti, l’attività economica, spogliata del suo senso etico religioso, tende ad associarsi a passioni puramente agonali, che non di rado le imprimono precisamente il carattere di uno sport». Non direi che lo spirito religioso abbia determinato la nascita del capitalismo. Il suo “spirito” era sicuramente presente molto tempo prima delle Riforme. Come non pensare alle attività imprenditoriali e commerciali delle repubbliche di Venezia, Genova e delle altre repubbliche marinare come delle città anseatiche? Ma soprattutto se si vuole pensare al paese capitalistico per antonomasia, la Gran Bretagna come non pensare che proprio la Scozia, il paese a più accese tinte calvinistiche, ha la minore importanza nella vita economica inglese del tempo? Sono portato a credere che lo spirito religioso, la cui importanza non è certo secondaria, non costituisce la sola essenza fondamentale del fenomeno studiato. A questo riguardo voglio precisare che il Medioevo evidenzia un aspetto che Weber sembra non voler sottolineare. Dire infatti, come fa Weber, che «il maggiore “distacco dal mondo” del Cattolicesimo, i tratti ascetici, che si trovano nei suoi più alti ideali, debbono educare chi lo confessa a una maggiore indifferenza verso i beni di questo mondo», significa ignorare la differenza che c’è tra indifferenza e distacco. Lo stesso Weber evidenzia i progressi economici compiuti dai Polacchi, che sono cattolici, della Russia e della Prussia Orientale paragonandoli a quelli della Galizia, lasciando intendere che i motivi della differenza sono più di natura socio-politica che religiosa. Lo stesso vale per i fenomeni economici antichi che si sviluppavano anche in assenza di precise motivazioni religiose, ma sempre in presenza di precise garanzie. La posizione di Weber è stata comunque ampiamente criticata da vari studiosi. Come non ricordare in Italia gli scritti di Fanfani e quelli di Pellicani. Se posso permettermi una battuta, pare che Sombart, autore di una monumentale opera sul tema in questione, si sia chiesto a proposito dell’etica protestante e la genesi del capitalismo come mai non sia mai stato considerato il fatto che, in tutto il mondo, le banche sono chiuse il sabato. Come a dire che, se la religione ha un ruolo nella genesi del capitalismo, perché non considerare anche la religione ebraica?
Su quali presupposti è dunque necessario costruire lo sviluppo e il progresso?
Credo che occorra partire dal tema di fondo di questo mio studio. Infatti, malgrado quanto sostenuto da non pochi economisti, si è fatta strada la convinzione che per cambiare la realtà socio-politica si debba prima cambiare la realtà economica essendo quest’ultima la struttura sulla quale si articola la sovrastruttura. Occorre, però, sottolineare ulteriormente che quello che, in passato, è stato definito sovrastruttura non era solo, spregiativamente, ideologia, ma diritti, valori, regole e tradizioni morali e molto altro senza i quali nessun sviluppo, naturalmente anche quello economico, può essere stabile e duraturo. Chiediamoci perché tanti paesi sottosviluppati non riescono ad attrarre capitali, risorse e sono perciò incapaci di generare sviluppo. Il fatto è che hanno governi, cioè strutture politiche, poco affidabili e incapaci di avviare un progresso economico. Dire che tali governi sono spesso sostenuti da potenze un tempo colonialistiche, può essere vero, ma non cambia la sostanza, anche perché tali governi sono spesso espressioni delle elite locali che hanno tutto da guadagnare al mantenimento dello statu quo.
Rocco Pezzimenti è stato Direttore del Dipartimento di Scienze Economiche, Politiche e delle Lingue Moderne della Lumsa, dove, dopo aver insegnato in altre università, insegna Filosofia politica. Ha studiato in modo particolare i rapporti tra politica e religione nella modernità e le tematiche relative alle “società aperte” dalle quali è scaturito il lavoro Il Cammino della libertà. Storia della società aperta dal mondo antico alla modernità con lettere di K. R. Popper, I. Berlin e H. Putnam. È autore di varie pubblicazioni, alcune tradotte in inglese e spagnolo. Ha diretto la rivista Incipit e attualmente è condirettore di Res Publica.